Ury Avnery : e lo Stato si chiamerà Israele
Ogni volta che sento la voce di David Ben-Gurion pronunciare le parole «perciò siamo qui riuniti...» penso a Issar Barsky, un giovane affascinante, fratello minore di una mia amica.
L'ultima volta che ci siamo incontrati fu davanti al refettorio del Kibbutz Hulda, il 14 maggio 1948. La notte successiva la mia compagnia avrebbe attaccato al-Qubab, un villaggio arabo sulla strada per Gerusalemme, a est di Ramle.(…)
Pochi giorni dopo fu ucciso. Così ancora oggi lo ricordo come era allora: un ragazzo di 19 anni, sorridente, un Sabra alto, pieno di gioia di vivere e di innocenza.
Più ci avviciniamo alle celebrazioni del grandioso 60esimo anniversario, più sono tormentato dalla domanda: se Issar potesse aprire gli occhi e vederci oggi, ancora ragazzo di 19 anni, che cosa penserebbe dello Stato che fu ufficialmente costituito quel giorno?
Vedrebbe uno Stato che si è sviluppato oltre i suoi sogni più folli. Da una piccola comunità di 635mila anime (più di 6000 delle quali sarebbero morte con Issar in quella guerra) siamo cresciuti fino a diventare sette milioni. I due grandi miracoli da noi forgiati - la rinascita della lingua ebraica e l'istituzione della democrazia israeliana - continuano a essere realtà. La nostra economia è forte e in alcuni campi - come l'hi-tech - siamo nella squadra dei primi al mondo. Issar sarebbe eccitato e orgoglioso.
Ma egli avvertirebbe anche che qualcosa è andato storto nella nostra società. Il kibbutz dove quel giorno piantammo le nostre tende da bivacco è diventato un'impresa economica come le altre. La solidarietà sociale, della quale eravamo tanto orgogliosi, è crollata. Masse di adulti e bambini vivono al di sotto della linea di povertà, gli anziani, i malati e i disoccupati sono abbandonati a se stessi. La diseguaglianza fra ricchi e poveri è una delle più ampie del mondo sviluppato. E la nostra società, che un tempo innalzava il vessillo dell'eguaglianza e della giustizia, schiocca appena la sua lingua collettiva e si occupa d'altro.
Ma quello che lo scioccherebbe di più sarebbe scoprire che la guerra brutale, che uccise lui e ferì me, insieme ad altre migliaia, ancora continua a tutta forza. Determina l'intera vita della nazione. Riempie le prime pagine dei giornali ed è in testa ai notiziari.
Che il nostro esercito, l'esercito che davvero eravamo «noi», è diventato qualcosa di completamente diverso, un esercito la cui principale occupazione è opprimere un altro popolo.
Non c'è scampo dal fatto storico: il giorno dell'Indipendenza di Israele e il giorno della Naqba (la catastrofe) palestinese sono le due facce di una stessa medaglia. In 60 anni non siamo riusciti - e in realtà non ci abbiamo nemmeno provato - a sciogliere questo nodo creando un'altra realtà. E così la guerra continua.
Il vero emblema dello stato è conficcato al suolo e si vede da lontano: il Muro. Il Muro di Separazione. Separazione fra chi e che cosa?
Apparentemente fra Kfar Sava in Israele e
Il nostro Muro è diventato la linea del fronte tra questi due mondi.
Il Muro non è soltanto una struttura di cemento e filo spinato. Esso è soprattutto un proclama ideologico, una dichiarazione d'intenti, una realtà mentale. I suoi ideatori dichiarano di appartenere, anima e corpo, a un campo, quello dell'Occidente, e che sull'altro versante del muro comincia il mondo opposto, il nemico, le masse degli arabi e degli altri musulmani.
Quando è stato deciso tutto ciò? Chi lo ha deciso? E in che modo?
102 anni fa, Theodor Herzl scrisse nella sua pionieristica opera «Der Judenstaat» (Lo Stato ebraico, ndt), da cui nacque il movimento sionista, una frase densa di significato: «Per conto dell'Europa noi dovremo costituire lì (in Palestina, nda) un settore del muro contro l'Asia, dovremo servire come avanguardia della cultura contro la barbarie». Così, in 22 parole tedesche, fu definita la visione del mondo del Sionismo, e il nostro posto in quel mondo. E ora, con un ritardo di quattro generazioni, il muro fisico sta prendendo il posto di quello mentale. Il quadro è chiaro e netto: Noi siamo essenzialmente una parte dell'Europa (come il Nord America); una parte della cultura, che è interamente europea. Dall'altra parte: l'Asia, un continente barbaro, senza cultura, che comprende il mondo arabo e musulmano.
Si può comprendere la visione del mondo di Herzl. Egli era un uomo del XIX secolo e scrisse il suo trattato quando l'Imperialismo bianco era allo zenit.(…) La massima di Herzl non rimase un pensiero astratto. Il movimento sionista la seguì dal primo momento in poi e lo Stato di Israele continua a farlo a tutt'oggi. Avrebbe potuto andare diversamente? Avremmo potuto diventare una parte di una regione, una sorta di Svizzera culturale, un'isola indipendente tra Est e Ovest, che collegasse le due parti facendo da mediatrice?(…)
La storia di questa terra ha visto decine di invasioni, che possono dividersi in due categorie principali.
Ci sono stati invasori venuti da Occidente, come i Filistei, i Greci, i Romani, i Crociati, Napoleone, gli Inglesi. Questi invasori stabilivano delle teste di ponte, e il loro atteggiamento mentale era quello di chi sta in un avamposto. La regione intorno a loro era territorio ostile, i suoi abitanti dei nemici che dovevano essere sottomessi o distrutti. Alla fine, tutti questi invasori furono cacciati.
E ci sono stati gli invasori che venivano da Oriente, come gli Emoriti, gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani e gli Arabi. Questi conquistavano la terra e diventavano parte di essa, influenzavano la sua cultura e ne venivano influenzati. E alla fine mettevano radici.
Gli antichi Israeliti appartenevano a questa seconda categoria. Anche se ci sono dubbi sull'Esodo dall'Egitto come descritto nel Libro di Mosè, o sulla conquista di Canaan come descritta nel Libro di Giosè, è ragionevole assumere che essi fossero tribù che venivano dal deserto, infiltratesi tra le città fortificate della Cananea che non potevano conquistare - come in effetti è descritto nel Libro dei Giudici 1.
(…) Io non sono preoccupato dell'esistenza dello Stato d'Israele. Esso esisterà fintanto che esistono gli Stati. Il vero problema è: che genere di Stato sarà?
Uno Stato in guerra permanente, terrore dei suoi vicini, dove la violenza pervade ogni sfera della vita, dove i ricchi prosperano e i poveri vivono in miseria, uno Stato abbandonato dai suoi figli migliori? Oppure uno Stato che vive in pace con i suoi vicini, con mutuo vantaggio; una moderna società con uguali diritti per tutti i suoi cittadini e senza povertà; uno Stato che investe le sue risorse nella scienza e nella cultura, nell'industria e nell'ambiente, dove le future generazioni vorranno vivere, fonte di orgoglio per tutti i suoi cittadini?
Questo può essere il nostro obiettivo per i prossimi 60 anni. Io credo che questo sia quel che anche Issar avrebbe voluto. Articolo
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