Peacereporter sula Manifestazione di Hamas



Il cielo grigio e una fredda piogga pomeridiana hanno accompagnato alle loro case i circa cinquemila cittadini di Gaza che si erano radunati nella centralissima Saleheddin Road e in altri comuni della Striscia per manifestare, una volta di piú, contro l’embargo che ormai perdura da nove mesi e non accenna ad allentarsi.Era la ventisettesima manifestazione di febbraio. Tutte le altre non hanno fatto nemmeno notizia e sono state soltanto riportate nei bollettini giornalieri dell’ufficio di sicurezza delle Nazioni Unite qui a Gaza. Questa voleva essere una manifestazione imponente come lo voleva essere quella organizzata dai pacifisti israeliani esattamente un mese fa che aveva visto centinaia di partecipanti radunarsi dall’altra parte del muro, a ridosso del confine nord della Striscia, per chiedere anch’essi la fine dell’assedio. Oggi non c’erano i cinquantamila che si aspettavano sia gli organizzatori che lo stesso esercito israeliano il quale aveva rinforzato i controlli al valico di Erez, meta della manifestazione. Erano comunque diverse migliaia che a gran voce, brandendo cartelli e striscioni in inglese e arabo, reclamavano la fine di una detenzione durata troppo a lungo. Ed è così che sempre più Gazawi definiscono la loro quotidianità: una detenzione in quella che è la prigione a cielo aperto più grande (e più affollata) del mondo. Una quotidianitá fatta di negozi spogli, banzinai chiusi, ristoranti vuoti e serate illuminate solo dalle candele. Giorni, settimane e mesi segnati da continui lanci di quassam – una media di sedici al giorno nel solo mese di febbraio – e da incursioni e bombardamenti israeliani che hanno causato negli ultimi 25 giorni ben 45 mortii(fonte UNDSS).Anche gli aiuti umanitari languono. Le organizzazioni non governative operanti a Gaza continuano a fare pressione sulle istituzioni israeliane ed internazionali al fine di permettere almeno l’ingresso di quei materiali che sono necessari a portare avanti i loro progetti. Ma le porte del muro non si aprono neppure per loro e molte ONG locali e straniere sono state costrette a sospendere le loro attivitá. Ma la parte triste della storia, piú di quanto non lo sia giá il suo contenuto, é che la gente comune, intendo quella al di fuori delle strategie politico-militari, la maggioranza quindi, non vede, ne si immagina piú una conclusione a tutto questo. Nessuno riesce ad ipotizzare un “dopo”. Parlando della situazione attuale con la gente di Gaza non si puó non notare un senso di rassegnazione cronica. Una percezione di esistenza che si trova per forza a convivere con i vetri che tremano per l’esplosione di un missile israeliano, con l’eco dei kalashnikov nella notte, con le sirene delle ambulanze che trasportano i feriti. La chiusura ermetica di Gaza e il suo isolamento coatto, dopo la breve illusione della breccia di Rafah, non stanno soltando esaurendo le scorte di merce nei magazzini o del carburante nei depositi. Si ha la netta impressione che, giorno dopo giorno si stia esaurendo la risorsa piú indispensabile per gli abitanti di questa Striscia di mondo, la speranza che le cose possano davvero migliorare.

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