Grossman:Israele ,il Gigante cieco

Non credo alle voci secondo le quali il primo ministro Ehud Olmert, dopo aver letto il rapporto finale della commissione Winograd, abbia telefonato ad Amir Peretz dicendo "ne siamo venuti fuori". Anche se in quel momento Olmert ha forse provato un senso di sollievo sa di non essere veramente "venuto fuori" dall´ultima guerra, che continuerà a perseguitarlo.Non ne è "venuto fuori" chi è stato direttamente colpito dalla guerra, né chi per settimane è rimasto in un rifugio, né chi un rifugio non ce l´aveva, e neppure chi ha seguito in televisione gli inefficaci sforzi dello stato e dell´esercito per difenderli. Anche costoro, dentro di sé, sanno di non essere "venuti fuori" dalla guerra.Nessuno ne è veramente "venuto fuori" perché nessuno ha avuto ancora il coraggio di "addentrarvisi" per sondarne il significato profondo e agghiacciante.Ma accantoniamo per un attimo il rapporto finale della commissione Winograd, ambiguo ed estremamente cauto, e torniamo ai giorni degli scontri, ai momenti dell´angoscia, alla sensazione provata nell´istante in cui abbiamo compreso che qualcosa si stava incrinando, che forse questa volta l´esercito non era in grado di salvarci, che le cose sarebbero potute finire diversamente. Una sensazione che è filtrata nel muro di rifiuto di noi israeliani di guardare in faccia alla realtà. È vero, spesso il timore per la nostra vita ci accompagna e aleggia su di noi come un´ombra, e forse proprio perché è tanto minaccioso non riusciamo ad affrontarlo lucidamente e non intraprendiamo i passi necessari per superarlo (e non mi riferisco solo a iniziative di tipo militare – in cui pure abbiamo fallito – ma a un radicale cambiamento di coscienza, indispensabile per chi vuole scongiurare un pericolo che incombe sulla sua esistenza).Israele possiede capacità straordinarie ma durante l´ultima guerra, quando noi israeliani ci siamo guardati allo specchio, cosa abbiamo visto? Un corpo incredibilmente forte ma dai sensi semi annebbiati che arrancava a tentoni, goffo e titubante, senza sapere dove fosse diretto. Un gigante cieco che agitava le braccia in tutte le direzioni mentre creature molto più piccole e deboli di lui lo mordevano fino a farlo sanguinare, indebolendolo al punto di farlo quasi stramazzare al suolo.L´ultima guerra è stata una brutale conferma della crescente sensazione che ciò che aveva impresso slancio al neonato stato di Israele si sta esaurendo: gli ideali, l´audacia, la fiducia in noi stessi, nei nostri obiettivi, nei nostri valori; l´aspirazione a creare uno stato che non sia solo un rifugio per gli ebrei ma espressione della peculiarità dell´esistenza ebraica in un contesto politico e civile moderno. Oggi, a sessant´anni dalla sua nascita, Israele deve riformulare contenuti che imprimano nuovo vigore a quello slancio, altrimenti faticherà a proseguire il suo cammino. Troppi fattori esterni e interni congiurano contro di esso e arriverà il momento in cui lo stato ebraico non avrà più la forza di contrastarli.Nazioni che hanno raggiunto un certo grado di tranquillità, che non sono costrette ad affrontare minacce alla loro esistenza, possono forse rinunciare a un costante lavoro di mantenimento del legame con la loro terra, a ricrearlo generazione dopo generazione. Israele non se lo può permettere e deve compiere sforzi incessanti non solo per conservare la propria forza militare ma per tornare a essere un luogo significativo per i suoi cittadini, non un semplice rifugio o una roccaforte. Una casa verso la quale i suoi abitanti provino un senso di appartenenza, non perché non hanno scelta, ma perché in quella casa la loro esistenza acquista un valore e un senso che non avrebbe altroveOggi Israele è una nazione insopportabilmente torbida. Il clima e l´atmosfera che vi si respirano non sono limpidi. Di questo stato di cose, naturalmente, non è responsabile Ehud Olmert, né l´ultima guerra. Da molti anni noi israeliani ci dilaniamo in scontri intestini al punto da avere perso la capacità di avere un quadro chiaro della situazione, di capire quali sono i veri interessi del nostro popolo e della nostra società. Talvolta sembriamo aver smarrito anche il sano e naturale istinto che dovrebbe guidare un popolo nello stabilire le sue giuste priorità, nel risolvere i suoi conflitti interni prima che sia troppo tardi, che tutto vada a catafascio. Oggi, a noi israeliani, si prospetta la sconfortante possibilità di vedere rinascere il gene distruttivo, a noi ben noto, che potrebbe condurci – Dio non voglia – a una guerra civile.L´impressione è che dopo più di un secolo di lotte militari e politiche, di scontri, di operazioni belliche e di infinite vendette e ritorsioni, la diffidenza e l´ostilità con le quali ci siamo abituati a guardare il nemico siano diventate per noi un modo quasi automatico di pensare e di comportarci anche nei confronti di chi è solo un poco diverso da noi, non un vero nemico e forse persino un nostro "congiunto" nell´accezione più ampia del termineE non abbiamo compassione. Non l´abbiamo verso noi stessi e, a maggior ragione, non l´abbiamo verso gli altri. E non proviamo un senso di responsabilità reciproca. Non nella misura in cui la nostra situazione tanto delicata, ci imporrebbe. Talvolta sembriamo non nutrire nemmeno rispetto per il diritto di avere e di mantenere uno stato ebraico sovrano, accordatoci dopo migliaia di anni in cui tale diritto ci era stato negato.La domanda che dovremmo porci oggi non è dunque se Ehud Olmert può rimanere al suo posto dopo che la commissione Winograd gli ha a malapena concesso una via di scampo, ma se è la persona giusta per avviare un processo di risanamento dei mali sopracitati.Può Olmert, alla luce della sua condotta, dei messaggi che la sua leadership "convoglia" al popolo, della mancanza di fiducia che la maggior parte degli israeliani manifesta verso di lui, della sua nota impulsività, delle numerose ombre che oscurano la sua personalità fin da prima della guerra, e a maggior ragione dopo di essa, essere il leader che riporterà Israele sulla giusta rotta dopo anni in cui lo stato ebraico è andato alla derivaSe la risposta è sì allora noi cittadini dovremmo permettere a Olmert di continuare a governare. Dovremmo morderci le labbra e dire a noi stessi che, in mancanza di un´accusa chiara nella parte conclusiva del rapporto Winograd e, considerati i pericoli immediati che Israele corre, non c´è altra scelta che continuare con la sua leadership. In un certo senso questo potrebbe essere un modo per riprenderci dalle ferite dell´ultima guerra, una ripresa di cui Israele ha bisogno come di aria per respirare.Ma la società israeliana non potrà guarire fintanto che Ehud Olmert rimarrà alla sua guida. La nostra coscienza nazionale e individuale è oppressa da un senso di disagio e, oserei dire, di peccaminosa complicità. Mille avvocati difensori non riusciranno a dissipare la sensazione che un intero stato si è arreso – per passività, per apatia, o per pura convenienza – alla determinazione di Ehud Olmert di rimanere saldamente al potere, in disprezzo a ogni regola di buon governo e di giustizia morale. Questa sensazione non ci abbandonerà fintanto che Olmert rimarrà in carica e avrà un effetto disgregante e corruttore anche su chi, in apparenza, è uscito indenne dalla guerra. Temo che, in fin dei conti, questa sensazione non permetterà a Israele di riprendersi, né di "venir fuori" dalla situazione in cui si trova.Che cosa si può fare allora? Nessuno dei candidati in lizza per rimpiazzare Olmert sembra essere in grado di innescare il vitale processo di risanamento di cui Israele ha bisogno. Alcuni di loro, addirittura, non farebbero che peggiorare le cose.Ma mentre i politici si accapigliano, o stringono accordi poco ortodossi, e gran parte della società israeliana è immersa in uno stato di semi-catatonia, coloro che ne sono capaci farebbero meglio a farsi un esame di coscienza. Non mancano infatti in Israele persone di grande competenza e responsabilità che, nonostante abbiano diverse convinzioni politiche, hanno a cuore ciò che succede e un´idea piuttosto chiara di come vorrebbero vedere lo stato e di cosa rischia di farci franare tutto addosso.Esiste forse un modo di raggruppare queste persone in una sorta di "movimento di emergenza nazionale", apolitico e apartitico, capace di coinvolgere anche chi ne ha abbastanza – e sono in molti – di ciò che sta avvenendo qui? Chi ancora ricorda a cosa si può aspirare ed è disposto a mettere da parte grette considerazioni settoriali dinanzi al pericolo che incombe su tutti noi? Queste persone dovranno concordare su dei principi comuni, trovare un´intesa sui temi della sicurezza, della pace, su questioni sociali, culturali, civili, sui rapporti tra i diversi gruppi etnici e sociali della popolazione. E dovranno farlo al prezzo di dolorosi compromessi. Potrebbero, per esempio, formare una sorta di "governo ombra" che imposti un dibattito su argomenti di grande rilevanza scevro da meschine considerazioni politiche. Un simile "governo" potrebbe proporre all´esecutivo in carica e al popolo una linea politica alternativa, norme civili e comportamentali diverse. Al suo meglio sarebbe un efficace pungolo per il governo, perché "torni in sé" ogni qualvolta rischi di cedere a considerazioni inopportune o a lusinghe pericolose.Sono forse un ingenuo? Può darsi. Ma nella situazione attuale, nel cinismo distruttivo in cui siamo sprofondati e che ci impedisce di credere in una qualsivoglia iniziativa o possibilità di cambiamento, un po´ di ingenuità non guasta. Idee più creative, più originali e più innovative di questa possono e devono essere proposte, ma non possiamo andare avanti con questo sfacelo. È difficile accettare l´idea che Israele si trovi in uno stato di paralisi in un ambito tanto vitale per esso. La nascita di un nuovo movimento nel vuoto politico che si è creato, la disponibilità a lottare per una causa, il fatto stesso di proclamare la nostra stanchezza di essere vittime di una classe dirigente mediocre e inetta, potrebbero innescare un processo dagli interessanti sviluppi, risvegliare forze positive e vitali nascoste nella società israeliana. Forse, allora, si libererà un´onda d´urto tanto potente che anche i nostri leader saranno costretti a prestarvi attenzione.Fino a quel giorno, fino a che tutto questo non si avvererà, non potremo dire di essere "venuti fuori" dall´ultima guerra.
Dalla Repubblica di oggi 

Commenti

Post popolari in questo blog

Hilo Glazer : Nelle Prealpi italiane, gli israeliani stanno creando una comunità di espatriati. Iniziative simili non sono così rare

giorno 79: Betlemme cancella le celebrazioni del Natale mentre Israele continua a bombardare Gaza

Né Ashkenaziti né Sefarditi: gli Ebrei italiani sono un mistero - JoiMag

Gaza : non siamo numeri