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Yehoshua: serve soltanto ad annettere altra terra

Palestina libera!: I bambini di Tel 'Adasa e il muro di "sicurezza".
«E un altro obiettivo è controllare le risorse idriche del fiume» «Incomincio a pensare che gli Usa non vogliano una soluzione»

UN pasticcio, una situazione davvero ridicola». Per una valta anche un uomo mite come Avraham B. Yehoshua, lo scrittore pacifista che sembra impersonare in questi tempi l’anima buona e onesta d’Israele, accompagna le sue parole con un tono di disprezzo più che d’incredulità. L’ultima trovata del primo ministro Ariel Sharon - quella di costruire un muro anche a Est della Cisgiordania, quasi in parallelo con il fiume Giordano - lo lascia esterrefatto. «Che bisogno c’era? Non fa che peggiorare la situazione, rendere più difficile qualsiasi ragionamento, ammesso che qualcuno sia ancora interessato a parlare di pace. Non è il muro di cui abbiamo sempre parlato noi che cerchiamo soluzioni per questa tragica situazione. E sulla pace comincio a pensare che gli americani non solo non se ne occupino, ma proprio non la vogliano».

Una cosa per volta. Perché parla di situazione ridicola?
«Perché sul Giordano c’è già un confine, ben protetto dall’esercito d’Israele. C’è sempre stato un consenso fra tutti i partiti che quella fascia doveva essere considerata una zona di sicurezza, per evitare l’accesso verso Israele di qualsiasi esercito nemico. Si pensava alla Siria, anche all’Iraq. E ora perchè si vuole costruire quest’altra barriera? Semplicemente perché è stata decisa l’annessione di una bella striscia di territorio, larga fra dieci e quindici chilometri, e assicurare che anche la sponda occidentale del fiume resti saldamente nelle mani d’Israele, con relativo controllo delle acque del fiume. La situazione è ridicola perché ci sarà una striscia protetta da due frontiere: a Est quella che già esiste, a Ovest il nuovo muro».

E ovviamente questo non è il muro di cui lei ha sempre parlato.
«Certo che no. Io, e chi la pensa come me, abbiamo sempre detto: costruite lungo il confine del ‘67 quello che può essere davvero un muro o semplicemente un reticolato di protezione, e al tempo stesso fate sgomberare gli insediamenti illegali nati in Cisgiordania. A quel punto, nella nostra convinzione, tutti sarebbero stati contenti: noi, i palestinesi, il mondo esterno. Quello seguito dal muro che si sta costruendo, invece, non è il confine; e gli insediamenti che i palestinesi considerano una provocazione restano al loro posto. E’ essenzialmente un modo di rubare terreno, con un percorso artificioso. Peggio ancora sarà con il muro lungo la valle del Giordano. Finiremo per fare una barriera di 700 chilometri quando 300 sarebbero bastati».

E perché dice che gli Stati Uniti non vogliono la pace?
«Perché non fanno niente di concreto. Mandano di continuo inviati speciali a parlare con questo e con quello, persino Powell è venuto qui. Ma poi non muovono le leve giuste, si perdono - come è accaduto in relazione alla Road Map - nei meandri dei litigi e delle incomprensioni del nostro Paese. Forse sarebbe meglio se ci lasciassero al nostro destino, a risolvere da soli i nostri problemi; se non interefrissero; se dimenticassero tutte le loro Road Map».

Tornando al muro, il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha denunciato il pericolo di una «catastrofe umanitaria» in Cisgiordania, spiegando che questo processo non ha nulla a che vedere con la sicurezza d’Israele ma mira a controllare le riserve idriche dei palestinesi e a trasformare le loro città e villaggi in una grande prigione.
«Ribadisco di essere fortemente contrario a quel muro, ma Erekat farebbe meglio a svolgere un piccolo esame di coscienza. Se la leadership palestinese avesse eliminato il terrorismo, come in effetti avrebbe dovuto, non ci sarebbe nessun bisogno di un muro, neppure di quello che io ho sempre appoggiato. Negli ultimi due anni l’autorità palestinese ha avuto una forza di polizia, una perfetta conoscenza delle località e dei movimenti delle varie organizzazioni. Quello di cui possono giustamente lamentarsi è la posizione del muro, che tende ad annettere a Israele parti di territorio palestinese; ma non il principio stesso del muro. Il muro sarà una prigione per i palestinesi, ma anche noi siamo in una prigione. Non molto tempo fa una giovane donna di Jenin si è fatta saltare in aria, uccidendo 21 persone, non lontano da casa mia. Un poco più vicino e noi, oggi, non potremmo parlarci. Anche il clima di paura è una prigione».

Perché ritiene che Sharon abbia voluto estendere il muro?
«Posso solo immaginarlo: per proteggere certi insediamenti anziché smantellarli, ma anche per impedire ai palestinesi di lasciare i loro villaggi in Cisgiordania e stabilirsi nei villaggi palestinesi che sorgono in territorio israeliano. E’ un muro che sa di annessione, che provoca molte sofferenze».

E soprattutto è un muro che mercoledì scorso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha condannato, chiedendo che la sua costruzione sia bloccata e le parti esistenti demolite.
«Lo sbaglio dell’Onu è stato di pronunciarsi contro il moro, senza specificare che parlava di “questo” muro. Nessun muro, hanno detto a New York. E questo non è accettabile, neppure per un pacifista come me. La risoluzione doveva essere più precisa. Se avessero detto “no al muro che annette territori oltre i confini del ‘67”, molti di noi avrebbero reagito positivamente. Ma di fronte a un “no” generico siamo stati costretti a domandarci: allora dobbiamo farci ammazzare? L’errore è stato delle Nazioni Unite. E qualcuno ne ha approfittato».

La Stampa 26 ottobre 2003
http://www.lastampa.it

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