YEHOSHUA: Israele scelga di negoziare con la Siria
Per lo Stato ebraico è il momento di scelte importanti: non basta colmare le lacune delle forze armate, bisogna portare avanti una coraggiosa trattativa con la Siria | |
Ricordo perfettamente quando fui informato che la prima guerra del Libano stava per iniziare. Era un venerdì pomeriggio del 1982. Ero con una cinquantina di insegnanti che, come me, erano soliti tenere lezioni ai soldati quale parte del loro servizio di riservisti. Chissà perché ci avevano convocato già il primo giorno di guerra, nemmeno fossimo esperti di qualche arma segreta e indispensabile anziché possedere solo capacità oratorie. Un ufficiale appena giunto dal quartier generale dell’esercito ci mise candidamente al corrente che stavamo per sferrare un attacco militare contro il Libano e che il nome scelto per quell’offensiva era «Operazione pace in Galilea». Rimasi sbalordito. Qualche mese dopo l’allora primo ministro, Menachem Begin, e il capo dell’opposizione, Shimon Peres, il cui partito aveva votato alla Knesset a favore del conflitto, sostennero che allo scoppio della guerra non sapevano che il piano originale dell’operazione non si limitasse all’occupazione di 40 chilometri di territorio libanese per creare una fascia di sicurezza ma comprendesse la conquista di Beirut, la capitale di uno Stato arabo, cosa che Israele non aveva mai voluto fare prima di allora. Noi però, insieme a molti altri, eravamo stati informati già quel primo giorno dell’ambizioso piano di Israele, messo poi in atto e fallito: annientare il piccolo Stato che l’Olp aveva creato nel Sud del Libano, arrivare fino a Beirut, conquistarla, stringere un patto con cristiani e drusi e creare con loro un nuovo governo che firmasse la pace con Israele. Dopo una settimana fui rimandato a casa insieme ad altri miei colleghi. L’ufficiale nostro superiore capì che si può mandare un soldato a combattere una guerra in cui non crede, ma è assolutamente impossibile costringere qualcuno a legittimare davanti a una platea di soldati un conflitto che considera fin dal primo momento inutile, folle e crudele. Gli anni trascorsi hanno dato ragione a chi dubitava che quella guerra fosse necessaria, opportuna e inevitabile. Migliaia di soldati sono rimasti uccisi e feriti, enormi risorse sono state impiegate, l’atmosfera di pace con l’Egitto è stata compromessa, c’è stata la tragedia di Sabra e Shatila, la ribellione degli sciiti nel Sud del Libano, la creazione di Hezbollah, ma soprattutto il ritorno dell’Olp nei territori occupati e nella Striscia di Gaza dopo la sua cacciata dal Libano e la parentesi tunisina. Molto sangue è stato versato invano, il Libano è precipitato in un caos sempre più grande e il clima politico della regione si è inasprito. E durante tutti questi anni difficili il nome originale della prima guerra del Libano, «Operazione pace in Galilea», è stato dimenticato. Un anno fa, il 12 luglio, un’organizzazione militare libanese denominata Hezbollah ha sferrato un attacco contro Israele. Ha ucciso otto soldati e ne ha rapiti due mentre lanciava razzi sui centri abitati israeliani del Nord. Non starò a ricordare quanto è avvenuto. Le vicende sono note. La forte reazione di Israele all’attacco fu moralmente giustificata e condivisa da gran parte degli Stati del mondo, incluse alcune nazioni arabe. È vero, nonostante la guerra fosse giustificata, è andata avanti più del necessario rivelando molti punti deboli dell’esercito israeliano e degli apparati di difesa delle retrovie. Ma debolezze e insuccessi non denotano necessariamente colpe morali. Così come vittorie e trionfi non sono una dimostrazione di superiorità morale. Contrariamente alla sua sanguinosa sorella maggiore - la prima guerra del Libano - questo secondo conflitto è stato combattuto per ristabilire la pace in Galilea. A esso spetta il nome originale della guerra scatenata dal governo Begin-Sharon, che provocò tanta morte e distruzione. Ma la Galilea troverà pace in futuro? Allo stato delle cose è impossibile dirlo. Se sulla scia di questa guerra, di cui ora ricorre il primo anniversario, non assisteremo solo a scambi di accuse e recriminazioni ma il governo israeliano cercherà anche di rimediare alle tante lacune venute alla luce nell’esercito e nei sistemi di difesa del Nord, se questa occasione sarà sfruttata per consolidare la presenza delle forze delle Nazioni Unite lungo i confini internazionali ma soprattutto per portare avanti una coraggiosa iniziativa di pace con la Siria, c’è la possibilità che nel Nord di Israele, una zona molto più ampia di quanto si immagini che si estende da Metula e Nahariya fino alla periferia di Tel Aviv, regni davvero la pace. | |
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2 Yehoshua:la chiave è in Siria
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"La chiave è Damasco". Intervista a Yehoshua | ||||
Maurizio Debanne (Europa Quotidiano) | ||||
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3 YEHOSHUA: ora Olmert parli con la Siria Da quando iniziarono i primi insediamenti di ebrei in Terra d’Israele, l’allora Palestina, centotrent’anni fa, gli arabi vi si sono opposti né hanno mai nascosto le loro intenzioni nel caso il movimento sionista avesse tentato di realizzare i propri fini. Stranamente, pur non disdegnando comportamenti ipocriti e un linguaggio ambiguo nei rapporti interni, gli arabi si sono sempre espressi senza mezzi termini verso gli ebrei. In un certo senso questi ultimi dovrebbero ringraziarli per l’onestà mostrata, nel bene o nel male. Tale onestà ha permesso loro, ancor prima della creazione dello stato di Israele, di prepararsi meglio allo scontro. In un certo senso gli arabi hanno riconosciuto, talvolta con maggior discernimento di molti ebrei, lo scopo degli stanziamenti sionisti: creare uno stato ebraico.Non si sono lasciati illudere dalle rassicurazioni di alcuni che tali insediamenti intendessero stabilire solo una presenza religiosa nella terra dei patriarchi, o la semplice creazione di un centro spirituale. Mio padre, sia benedetta la sua memoria, prese in esame nei suoi studi di storico la stampa palestinese nei primi anni del ventesimo secolo e giunse alla conclusione che sovente gli arabi comprendevano meglio di molti ebrei quale sarebbe stato il risultato finale dell’immigrazione ebraica nella Terra di Israele. E nel rapporto di forze demografico esistente all’inizio del ventesimo secolo - diciotto milioni di ebrei a fronte di una popolazione palestinese di sole 550.000 anime - gli arabi capirono che se non avessero represso il movimento sionista sul nascere avrebbero perso la Palestina. Anche chi credeva nella sincerità dei proclami, più volte ribaditi, che in uno stato ebraico i palestinesi avrebbero goduto di pieni diritti civili, continuò a opporsi, e a ragione, alla prospettiva di divenire una minoranza nella propria patria. Gli arabi si ostinarono nel loro rifiuto e manifestarono intenzioni bellicose anche quando nel 1947 le Nazioni Unite proposero un piano di spartizione secondo il quale vi sarebbero stati due nazioni, una palestinese e una ebraica, e la maggior parte delle terre fertili sarebbero state comprese in quella palestinese mentre a quella ebraica sarebbero rimaste per lo più aree desertiche. Le loro intenzioni furono prese sul serio dagli ebrei che reclutarono tutte le risorse nazionali del loro neonato stato per contrastare l’attacco palestinese e quello degli eserciti di sette stati arabi.Dopo la sconfitta subita nel 1948, in seguito alla quale i palestinesi persero più di un terzo delle terre loro destinate, costoro persistettero nel rifiuto di negoziare una qualsiasi pace con Israele e di riconoscerne l’esistenza, anche in cambio di modifiche dei confini stabiliti al momento della tregua e di una soluzione del problema dei profughi. Il loro rifiuto fu inequivocabile, sia da un punto di vista ideologico che di principio, e da allora resiste con coerenza e fermezza. Anche dopo la grande sconfitta del 1967 gli stati arabi riuniti a Khartoum ribadirono tre punti fondamentali: no al riconoscimento di Israele, no alla pace e no al negoziato. Sarebbe stato facile per loro a quel tempo fingere di volere la pace, dare inizio a una trattativa per riappropriarsi dei territori persi, aspettare qualche anno, prepararsi a un conflitto armato e poi trovare un qualsiasi pretesto per sferrare un attacco. Eppure no, l’opposizione a Israele aveva assunto ai loro occhi quasi il valore di un dogma religioso. E i credenti non possono mentire o fingere su questioni inerenti a dogmi religiosi. Anche al Fatah ha portato avanti la linea negazionista per anni. Nonostante le pressioni internazionali e una situazione non facile, questa organizzazione non è stata in grado fino al 1988 di pronunciare la frase: sì, siamo pronti a riconoscere l’esistenza di Israele e a ottenere i vantaggi della pace. Lo stesso accade ora con Hamas, sottoposto a durissime pressioni sul piano economico e militare ma che parimenti si rifiuta di pronunciare la frase: «Siamo pronti a riconoscere la legittimità dello stato di Israele a queste o a quelle condizioni». Malgrado tra questa semplice frase e una realtà di pace vi sia un baratro difficilmente superabile, gli esponenti di Hamas si rifiutano di mentire a se stessi e di fare una dichiarazione blasfema ai loro occhi. Viceversa, quando gli arabi hanno detto: sì, siamo pronti alla pace in cambio della restituzione di territori, dicevano la verità. Il primo a farlo è stato il presidente egiziano Anwar Sadat agli inizi degli anni Settanta. Ma gli israeliani, che avevano creduto alle minacce di guerra dell’Egitto, non credettero ai suoi propositi di pace e chissà, forse la guerra dell’ottobre 1973 si sarebbe potuta evitare se nei primi anni Settanta, dopo la morte di Nasser, fosse stato avviato un serio negoziato con l’Egitto.La pace siglata nel 1979 ha dato però prova di stabilità malgrado gli sconvolgimenti avvenuti nella regione, e lo stesso è per la pace conclusa con la Giordania. Anche durante i bombardamenti israeliani su Beirut nel corso dell’ultima guerra gli ambasciatori egiziano e giordano a Tel Aviv non sono stati richiamati in patria per consultazioni, a dispetto delle critiche feroci dei loro paesi verso l’energico operato di Israele. Quindi, ora che il presidente siriano invia segnali di pace a Israele sono certo, in base all’esperienza passata, che le sue intenzioni sono sincere e che la pace da lui proposta in cambio della restituzione delle alture del Golan sarà genuina e stabile. È vero, il prezzo da pagare sarà altissimo. Lo sgombero dei centri abitati del Golan sarà un boccone amaro da mandar giù per la maggior parte degli israeliani. Le alture del Golan sono di grande valore strategico e non sono abitate da cittadini siriani sotto occupazione. Le sue cittadine e i suoi villaggi non sono sorti per ideologia religiosa e messianica e i suoi residenti sono in prevalenza laici. Ma la pace con la Siria ridurrebbe l’attività degli Hezbollah in Libano e neutralizzerebbe il pericoloso accordo anti israeliano tra Assad e l’Iran. La Siria riacquisterebbe legittimità agli occhi dell’occidente e farebbe ritorno nella famiglia delle nazioni non macchiate dal sostegno al terrorismo. Anche per Israele si aprirebbe uno spiraglio importante verso altri stati arabi e se i palestinesi si ritrovassero isolati nella loro lotta potrebbero abbandonare definitivamente il sogno di vedere distrutto lo stato ebraico e moderare le condizioni per raggiungere con esso una pace, in base alla proposta di Clinton durante il convegno di Camp David del 2000. Ma ci si può davvero fidare dei segnali di pace della Siria? A giudicare dall’esperienza maturata nei cento e più anni del conflitto arabo israeliano la risposta è decisamente positiva. Dobbiamo credere alle parole degli arabi sia quando essi minacciano Israele che quando lanciano segnali di pace. La legittimità di Israele è una questione troppo importante ai loro occhi per fingere di prendere posizioni in cui non credono. Sta a noi dunque raccogliere questi segnali e avviare una trattativa, difficile ma efficace.
13 dicembre 2006 dalla Stampa
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