intervista a Tanya Reinhart
www.ccmep.org
(traduzione di Alessandra Fava e Alfredo Tradardi).
Può spiegarci di che cosa parla il suo libro "Israele/Palestina come terminare la guerra del '48"?
Israele, con l'appoggio dei principali media occidentali, definisce la guerra contro i palestinesi come guerra difensiva, una risposta necessaria al terrorismo palestinese, una nobile presa di posizione nella guerra globale contro il terrorismo. E' incredibile oggi, dopo due anni di distruzione della società palestinese, che sia conosciuto così poco di come la guerra si è sviluppata e quale ruolo abbia Israele. Il libro cerca difar luce su questo. Il libro segue la politica israeliana da quando Barak divenne primo ministro sino all'estate del 2002, il periodo peggiore della storia di Israele. Prendendo informazioni dai media israeliani ci accorgiamo come si siano prese le distanze dai concetti di Oslo già dal'93. E' difficile ora dimostrare il come, ne parla ampiamente il libro, ma faccio un esempio. Dal '67 quando è iniziata l'occupazione dei territori palestinesi, il primo pensiero dell'esercito israeliano e dell'élite politica è stato come avere il massimo di terra e acqua con il minimo di popolazione palestinese. La soluzione di annettere semplicemente la terra popolata dai palestinesi avrebbe creato problemi demografici, paura che la maggioranza degli ebrei trova insostenibile.
Così il piano Alon del partito laburista proponeva l'annessione del 35-40 per cento dei territori con un ruolo anche della Giordania o qualche forma di autonomia per il resto del paese, dove sarebbero stati confinati i palestinesi. Questo sembrava un compromesso necessario. Sembrava allora inconcepibile ripetere la soluzione della guerra di Indipendenza del '48, quando la terra fu liberata dagli arabi con espulsioni di massa. La seconda soluzione, caldeggiata da Sharon, voleva di più. E così trovò una soluzione complessa e appetibile, cioè mandare altrove i palestinesi, in una Giordania palestinese. E siamo negli anni '80.
Nel '93 a Oslo, sembrava che il piano Alon avesse la meglio. E questo successe anche grazie alla cooperazione di Arafat. In passato i palestinesi si erano opposti anche al piano Alon che toglieva loro grande parte delle terre. Ma nel '93 Arafat stava perdendo il polso della società palestinese, era criticato da più parti per il suo personalismo e per la corruzione della sua organizzazioni. Allora sembrava che solo una vittoria incredibile avrebbe potuto tenerlo al potere. Così alle spalle del gruppo palestinese di negoziatori con a capo Haider Abd al-Shafi, Arafat accettò l'accordo che lasciava tutte le colonie israeliane intatte persino nella Striscia di Gaza, dove 6 mila coloni occupano un terzo delle terre, mentre un milione di palestinesi affollano il resto. Intanto, Israele aveva esteso le zone "disarabizzate" al 50 per cento dei territori palestinesi. Così i laburisti cominciarono a parlare di Alon Plus, come più terra a Israele.
Tuttavia, sembrava che permettessero che il restante 50 per cento potesse restare sotto il controllo palestinese, seppure in condizioni simili ai bantustan del Sud Africa. Alla vigilia degli accordi di Oslo, la maggior parte degli israeliani, erano stanchi di guerre. Ai loro occhi, le lotte per la terra e le risorse erano finite. Perseguitati dalla memoria dell'Olocausto, la maggior parte riteneva che la guerra del '48 per l'indipendenza, con le terribili conseguenze sui palestinesi, fosse stato il modo per ottenere uno stato per gli ebrei. Ma ora che lo avevano, volevano solo vivere in pace sulla terra posseduta. Come la maggior parte dei palestinesi, anche la maggioranza degli israeliani si illuse che quello di cui erano testimoni erano accordi di passaggio e che un giorno l'occupazione sarebbe finita e le colonie smantellate. Così due terzi degli israeliani, secondo i sondaggi, appoggiarono l'accordo di Oslo. Era chiaro che la maggioranza non avrebbe appoggiato nuove guerre per la terra o le risorse. Ma l'ideologia della guerra per la terra non è mai morta nell'esercito e nei circoli militari che influenzano la politica, quelle carriere che dall'esercito passano alla politica. Dalla partenza del processo di Oslo, i massimalisti non volevano dare più terra o diritti ai palestinesi. Questo fu evidente soprattutto negli ambienti militari, il cui portavoce era Ehud Barak, che si oppose a Oslo da subito. E così Ariel Sharon. Nel '99, l'esercito tornò al potere con generali passati alla politica - Barak per primo, e Sharon (il mio libro parla anche della lunga storia della loro collaborazione). Così si apriva la strada per correggere quelli che consideravano gli errori di Oslo. Ai loro occhi, l'alternativa dello scontro per eliminare i palestinesi e imporre un nuovo ordine nella regione era fallito in Libano nel '82 solo per la debolezza della "viziata società israeliana". Ma ora con la nuova filosofia della guerra costruita dall'esercito Usa con le operazioni in Iraq, Kossovo e Afganistan, i generali prestati alla politica pensavano che con la superiorità evidente dell'aviazione israeliana, si poteva ribaltare il passato. Per ottenere questo, era necessario convincere la "viziata società israeliana" che i palestinesi non vogliono vivere in pace e che stanno minacciando l'esistenza di Israele. Sharon da solo forse non ce l'avrebbe fatta, ma Barak ci riuscì con la storia dell'"offerta generosa".
Ad oggi, è stato scritto molto sulla non-offerta di Barak a Camp David.
Tuttavia, un attento esame delle informazioni dei media israeliani rivela molto sulla costruzione della frode e un capitolo del libro è dedicato ai dettagli. Molti mesi prima, Barak aveva fatto lo stesso con la Siria, facendo credere al mondo che Israele era pronto a ritirarsi dai territori del Golan. Nei sondaggi, il 60 per cento degli israeliani era felice di andarsene dal Golan. Ma alla fine è andata come con i negoziati con i palestinesi. Gli israeliani furono convinti che Asad rifiutasse gli accordi, non volesse avere indietro i suoi territori e fare la pace con Israele. Da allora la possibilità di una guerra con la Siria diventava reale. Gli ambienti militari spiegavano apertamente che gli Hezbollah, Siria e Iran cercavano di tendere una trappola a Israele e che quindi Israele doveva trovarne una in cui far cadere i nemici. Le circostanze giuste si sarebbero creato alla fine della guerra americana contro l'Iraq".
(Amir Oren, Ha'aretz, July 9, 2002).
Il 28 settembre del 2000, Sharon con l'appoggio di Barak, buttò benzina sulla frustrazione accumulata nella società palestinese con la passeggiata provocatoria al tempio della Montagna, Haram al-Sharif. Le guardie del corpo che lo seguivano numerose colpirono ripetutamente con proiettili di gomma i dimostranti disarmati. Così il giorno dopo la protesta crebbe e Barak ordinò all'esercito di invadere con i carri armati alcune zone palestinesi densamente popolate. Se la reazione israeliana fosse stata più contenuta anche i Palestinesi avrebbero limitato la protesta. Anche davanti a una resistenza armata, la reazione d'Israele è stata del tutto sproporzionata come ha sottolineato anche l'Onu che ha condannato Israele per "uso eccessivo della forza" il 26 ottobre del 2000. Israele definisce l'azione militare come una difesa necessaria contro il terrorismo. Ma nei fatti il primo attacco terroristico palestinese a civili israeliani all'interno di Israele è avvenuto il 2 novembre del 2000. Insomma dopo un mese intero durante il quale Israele ha usato tutto il suo arsenale contro i civili, compresi proiettili, fucili automatici, elicotteri da combattimento, carri armati e missili. E' stupefacente come la tattica militare condotta da Israele nei mesi seguenti è stata concepita all'inizio, nell'ottobre del 2000, compresa la distruzione delle infrastrutture palestinesi (il piano "Field of Thorns"). La strategia politica che tentava di discreditare Arafat e l'autorità palestinese era pronta sin dall'inizio. Barak e il suo entourage prepararono un manoscritto chiamato come Libro bianco che annunciava che Arafat non aveva mai abbandonato l'opzione della violenza. Insomma un tema propagandistico che lega queste circostanze a quelle della guerra del '48. Il generale Moshe Ya'alon, allora vice capo dello staff (ora capo) spiegò che "questa era la campagna più critica nei confronti dei palestinesi inclusa la popolazione araba di Israele dalla guerra del '48", anzi per lui, "in effetti, era la seconda fase della guerra del '48". (Amir Oren, Ha'aretz, November 17, 2000).
Dopo due anni di brutale oppressione israeliana dei palestinesi, è difficile non concludere che l'esercito e la cerchia politica abbiano concluso che la seconda metà - la pulizia etnica iniziata nel '48 – è necessaria e possibile. Il secondo scopo del libro è sottolineare che, nonostante gli orrori di questi due anni, c'è un'alternativa per terminare la guerra del '48 ed è la strada della pace e di una vera riconciliazione. E' incredibile quanto sarebbe semplice e facile raggiungerla. Basterebbe che Israele si ritirasse dai territori occupati nel '67. La maggior parte dei coloni (150 mila di essi) sono concentrati in grandi colonie nel centro del West Bank. Questa area non si può lasciare in quattro e quattr'otto. Ma il resto della terra (il 90 -96 per cento della Cisgiordania e la striscia di Gaza) possono essere abbandonate subitoMolti coloni che vivono in zone isolate dicono apertamente ai media israeliani che se ne vogliono andare. E' solo necessario offrire loro una compensazione adeguata per le proprietà che lasciano. Il resto - i fanatici della terra promessa - sono una minoranza ridotta che dovrà accettare le scelte della maggioranza. Il ritiro immediato lascerebbe da discutere che fare del 6-10 per cento della Cisgiordania, quella con le colonie più numerose, come risolvere la questione di Gerusalemme e il diritto al ritorno. Su questi punti, servono negoziati di pace.
E intanto durante i negoziati, la società palestinese potrebbe ricominciare, insediarsi nelle terre lasciate dagli israeliani, costruire delle istituzioni democratiche e sviluppare un'economia basata con liberi contatti con chi prescelgono. Con queste premesse, sarà allora possibile stabilire quale sia la strada giusta per costruire insieme il futuro di due popoli che dividono la stessa terra. In Israele, la proposta del ritiro immediato ha avuto simpatizzanti come Amy Ayalon (ex capo del servizio di sicurezza) che ne ha parlato apertamente, e nel febbraio del 2002 anche il Consiglio per la pace e la sicurezza che ha mille membri ha appoggiato l'idea. A giudicare dai sondaggi, il piano ha il supporto del 60 per cento degli ebrei israeliani. E non stupisce, perché a partire dal '93 altrettanti hanno appoggiato l'abbandono delle colonie. In una sondaggio Dahaf del 6 maggio del 2002, commissionato da Peace Now, il 59 per cento propendeva per il ritiro unilaterale dell'esercito israeliani dalla maggior parte dei territori occupati e l'abbandono della maggior parte delle colonie. Pensano che questo possa dare fiato al processo di pace. Questa maggioranza non rappresenta tutto il mondo politico, ma esiste.
Quale spera possa essere il contributo del suo libro?
Con l'aria che tira negli Stati Uniti e in Europa, chiunque osi criticare Israele viene subito tacciato di antisemitismo. Una delle ragioni per cui la lobby israeliana ed ebrea ha avuto così successo nell'accusare i palestinesi, è la mancanza totale di conoscenza circa quello che è successo realmente. Senza i fatti, la vulgata rimane che Israele combatte per esistere ancora. L'attenzione va solo al terrorismo orribile e deprecabile dei palestinesi, così chiunque critica Israele viene accusato anche di giustificare il terrorismo. Io spero di dare ai miei lettori una relazione precisa dei fatti in modo da avere risposte a questa accusa. La seconda speranza è di ridare speranza. Una soluzione razionale e giusta è ancora possibile. La gente ha trovato il modo in passato di passare da una storia di stragi alla coesistenza pacifica. L'Europa è un esempio. Dopo due anni di orrori, la maggioranza degli israeliani come dei palestinesi, spera di aprire una nuova pagina.
Mostro questo nel mio libro e concludo il libro con la storia degli attivisti israeliani e palestinesi che si battono per l'unico futuro possibile, quello basato sui valori umani. Tocca ora al mondo intervenire per dare speranza e per fermare la giunta militare israeliana che non rappresenta la maggioranza degli israeliani. Infine, forse è questa la parte più importante, cerco di dare un'idea della tragedia palestinese facendo parte dei privilegiati, gli oppressori. Con gli americani che coprono le spalle e il silenzio degli occidentali, c'è il serio pericolo che questo sia solo l'inizio e che col paravento della guerra in Iraq, il popolo palestinese si trovi davanti a un aut aut: l'annullamento o un secondo esilio. La descrizione dell'Afganistan di Arundhati Roy sembra riprendere la situazione palestinese: "guarda la giustizia infinita di questo secolo. I civili stanno morendo di fame aspettando di essere uccisi". La mia più grande speranza e il mio appello è: salvate i palestinesi! Fermate Israele! Deve essere una parte della lotta contro la guerra americana all'Iraq. Se i governi del mondo non lo faranno, io spero che lo facciano i popoli.
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