Jonathan Cook : Apartheid in Israele


    I gruppi ebraici di  estrema destra responsabili l’anno scorso di una serie di attacchi incendiari a  moschee della West Bank hanno cominciato a scavare un terreno pericoloso quando  hanno recentemente  rivolto per la prima
volta  la loro attenzione a luoghi sacri  all’interno di Israele. E’ stata incendiata una moschea e pochi giorni dopo è  seguito un attacco a tombe mussulmane e cristiane.
In ciascun caso i coloni  hanno lasciato il loro biglietto da visita – le parole “cartellino del prezzo”,  indicanti un atto di vendetta – scarabocchiato sulle loro opere.
Nessuno dei recenti  attacchi contro i palestinesi ha portato a incriminazioni. La cosiddetta  “divisione ebraica” dei servizi segreti, lo Shin Bet, che è incaricata di  risolvere questo tipo di reati, è nota per essere meno che tiepida nel condurre
le indagini. Come molte istituzioni statali, compreso l’esercito, i suoi ranghi  sono pieni di coloni.
Paradossalmente è stato  proprio un rapporto dello Shin Bet a mettere in guardia circa il fatto che le  reti terroristiche ebraiche non solo stavano fiorendo nelle serre degli  insediamenti nella West Bank ma si stavano facendo più audaci a causa di tale  impunità.
La dissacrazione di una  moschea nel villaggio beduino di Tuba Zangariya, nel nord di Israele, non  dovrebbe pertanto essere stata una sorpresa. E’ stata seguita nel fine  settimana dal saccheggio di due cimiteri a Jaffa, vicino a Tel Aviv.
L’obiettivo del movimento  dei coloni consiste nel distruggere ogni speranza di una soluzione a due stati,  che viene considerata come un limite del diritto del popolo ebraico a tutta la  terra promessa da Dio. Istigati da un numero sempre crescente di rabbini, gli  integralisti di questo campo sono ciechi riguardo al fatto che i dirigenti di  Israele, compreso il primo ministro Netanyahu, hanno già svuotato il processo  di pace.
Non è stata una  coincidenza che l’incendio della moschea di Tuba sia avvenuto sulla scia di una  richiesta, il mese scorso, di Mahmoud Abbas alle Nazioni Unite di  riconoscimento dello stato palestinese. Il presidente dell’Autorità Palestinese
ha alzato la posta, e lo stesso hanno fatto i coloni, includendo, a questo  punto, anche la minoranza arabo-palestinese d’Israele, un quinto della  popolazione,  nel loro “cartellino del  prezzo”. La nuova strategia degli estremisti ebrei consiste evidentemente nell’attizzare  l’odio e la violenza su entrambi i lati della Linea Verde. Come è stato  osservato da Jafar Farah, direttore del Mossawa Center, un gruppo di patrocinio  legale arabo-israeliano, l’intenzione è di cancellare ogni residuo sostegno a  uno stato palestinese da parte degli ebrei d’Israele, persuadendoli che si  trovano in mezzo a guerra apocalittica per la sopravvivenza.  Sotto questo aspetto il bersaglio è stato  scelto con attenzione. Tuba è una delle poche comunità arabe ferventemente “leali”  d’Israele.  Anche se molti beduini furono  espulsi nel corso della guerra del 1948 che creò Israele, per le tribù di Tuba  e Zangariya fu riservata un’area accanto alle comunità ebraiche come premio per
aver combattuto al fianco delle forze armate israeliane.
Privati del lavoro e  sottoposti alla stessa discriminazione sofferta dal resto della minoranza  araba, molti giovani, come i loro nonni, sono tuttora arruolati nell’esercito  israeliano. Dopo l’attacco alla moschea, un dirigente della comunità ha urlato  a un giornalista israeliano: “Siamo stati tra i fondatori dello stato d’Israele.”  Ma con il diffondersi  della notizia della dissacrazione della moschea, giovani infuriati hanno  incendiato edifici governativi, sparato in aria con i loro fucili dell’esercito  e si sono scontrati con la polizia.  Il  sogno dei coloni di incendiare rapidamente  la Galilea è sembrato potesse essere  realizzato.
Sabato scorso, in seguito  all’attacco alle tombe di Giaffa, per rappresaglia è stata scagliata una bomba  Molotov contro una vicina sinagoga, infiammando ulteriormente le tensioni.
Netanyahu è stato tra  quelli che hanno denunciato l’incendio della moschea, ma la logica del suo  approccio agli accordi per il processo di pace ha creato un clima in cui la  versione di un’epica battaglia degli ebrei per la sopravvivenza suona
plausibile a molti israeliani comuni.
Analogamente ai coloni,  Netanyahu si oppone all’emergere di uno stato palestinese significativo; anch’egli  lascia intendere che la rabbia del mondo contro Israele sia alimentata dall’antisemitismo;  e anch’egli vuole riaprire la “pratica del 1948”, una storica resa dei conti in  cui lo status di cittadini della minoranza araba verrebbe riesaminato.
E, come i coloni, Netanyahu affronta il tema della pace con un pugno di ferro che  esige, al meglio, la capitolazione palestinese, e suggerisce, al peggio, un  futuro in cui potrebbe essere necessaria una seconda ondata di pulizia etnica
per “finire il lavoro” del 1948.
I  festeggiamenti nei territori occupati per la mossa di Abbas all’ONU – un solitario  atto di sfida da parte del dirigente palestinese – si inacidiranno presto,  diventando chiaro che gli USA e Israele non  hanno alcuna intenzione di fare concessioni.  La questione è: e dopo?  Nonostante i migliori sforzi di Netanyahu e dei coloni integralisti di  formulare una risposta, potrebbe non essere di loro gradimento.
Senza la  speranza di uno stato, i palestinesi dovranno elaborare una propria nuova  strategia per affrontare la realtà di un sistema di apartheid in cui i coloni  ebrei divengano i loro vicini permanenti.  Intrappolati in un singolo stato governato dai loro occupanti, i  palestinesi probabilmente faranno riferimento all’esperienza dei loro cugini  all’interno di Israele.
La comunità  araba di Israele ha lottato per decenni contro l’emarginazione e la  subordinazione all’interno dello stato d’Israele.  Ha reagito con una vibrante campagna per l’eguaglianza  che si è contrapposta alla maggioranza ebrea e ha avuto come risultato un’ondata  di leggi antiarabe.
Le due  comunità palestinesi, entrambe poste  di  fronte a un futuro più duro sotto il governo d’Israele, hanno tutti gli  incentivi per sviluppare una piattaforma unificata e battersi insieme – e con  maggior potenza – contro un regime predominante di privilegi ebrei.
La loro  reazione potrebbe essere una violenza da occhio per occhio, che è sicuramente  quel che i coloni preferirebbero.  Ma una  strategia più efficace e probabilmente a più lungo termine è un movimento per i  diritti civili molto simile a quelli che si sono battuti contro le leggi di Jim  Crow negli Stati Uniti e contro l’apartheid in Sud Africa.  Un semplice grido di protesta, urlato a un  mondo esasperato dal comportamento autodistruttivo di Israele, sarebbe: “Una   persona, un voto.”
Netanyahu e  i coloni sperano di sottomettere i palestinesi con la creazione del Grande  Israele. Ma, come suggerisce la conflagrazione delle moschee, alla fine possono  ottenere il contrario.  Ricordando ai  palestinesi dall’altra parte della Linea Verde il loro destino comune, Israele  può scatenare una forza troppo potente per essere controllata.  Il cartellino del prezzo – questa volta preteso  dai palestinesi – sarà davvero alto per i suprematisti ebrei.

Jonathan Cook ha vinto il premio  speciale Martha Gellhorn 2011 per il giornalismo. I suoi libri più recenti sono  “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the  Middle East (Pluto Presso) [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il  piano per rifare il Medio Oriente” e “Disappearing Palestine: Israel’s  Experiments in Human Despair” (Zed Books) [La scomparsa della Palestina:  esperimenti israeliani di umana disperazione]. Il suo sito web è: www.jkcook.net.

Da Znet – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione di Giuseppe  Volpe

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