di Mya Guarnieri Detenzione e Deportazione in Israele. Una nuova Nakba?

  Tel Aviv – Diverse settimane fa, le autorità israeliane hanno arrestato M, una donna incinta, insieme al  figlio di tre anni, nato in Israele. La giovane famiglia – priva del padre, in quanto deportato diversi mesi prima – è stata detenuta brevemente e quindi espulsa dal paese.Ma non rompere ancora quelle bandiere palestinesi. Questa era una famiglia di lavoratori migranti. Il padre è thailandese; la madre filippina. Entrambi sono arrivati legalmente in Israele con un permesso di lavoro dello stato. Qui si sono incontrati e si sono innamorati. E questo è il motivo per cui sono divenuti “illegali”. Il padre ha perduto il suo visto a causa della politica israeliana che proibisce relazioni romantiche tra i lavoratori migranti (leggi: non-ebrei). La madre ha perduto lo status giuridico a causa della politica governativa che costringe le donne a dover scegliere tra il loro visto o il loro figlio. M ha fatto la scelta che avrebbero compiuto la maggior parte delle donne – dopo aver partorito, si è rifiutata di mandare il suo bambino a vivere con la famiglia allargata in una terra lontana. Così lei è diventata “illegale” , insieme a suo figlio. Una settimana circa dopo che M e il bambino erano stati deportati, la Corte Suprema Israeliana ha confutato quest’ultima disposizione ( sottolineando nella sua sentenza che la norma infrangeva di fatto le leggi stesse dello stato sul lavoro). Mentre le future famiglie potrebbero essere risparmiate, è già cominciata l’attuale espulsione che vedrà 500 bambini buttati fuori dal paese, insieme ai loro genitori. E, finora, non vi è alcun segno che la sentenza dell’Alta Corte verrà applicata retroattivamente. (Data la tendenza dello stato di ignorare le decisioni della Corte orientate a sinistra – tra le quali c'è pure l’ordine del 2007 di fare un nuovo tracciato della barriera di separazione che ha tranciato in due il villaggio palestinese di Bil’in nella West Bank – non è chiaro se la norma verrà effettivamente modificata.) E così le deportazioni continuano – una famiglia alla volta -  nel nome della conservazione della caratteristica “ebraica e democratica” dello stato A prima vista, i lavoratori migranti potrebbero sembrare estranei alla lotta dei palestinesi. Ma i lavoratori migranti sono stati introdotti in Israele durante la 1° Intifada per rimpiazzare i lavoratori giornalieri palestinesi provenienti dai Territori Occupati. Sebbene si sia spesso trattato l’assedio di Gaza come di qualcosa che ha avuto inizio improvvisamente nel 2006, esso rappresenta invece la più grave manifestazione di chiusura graduale alla quale gli israeliani hanno dato l'avvio durante la Prima Intifada. Nonostante il fatto che la resistenza all’occupazione a quel tempo era, nel complesso, non-violenta, questa chiusura graduale ha incluso restrizioni al movimento. In alcuni casi, ha impedito ai lavoratori palestinesi di giungere ai loro posti di lavoro – sotto-pagati, che gli israeliani non volevano svolgere, lavori questi che ora vengono eseguiti dai lavoratori migranti. *Dopo aver sostituito quegli altri “diversi” – i palestinesi – i lavoratori stranieri e i loro figli sono divenuti il nuovo campo di battaglia per il nazionalismo israeliano. Il Ministro degli Interni Eli Yishai ha definito i bambini “una  minaccia demografica…che rischia di danneggiare l’identità ebraica dello stato.” Durante il suo incarico di Ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu aveva sostenuto che i cittadini palestinesi in Israele rappresentavano un “problema demografico”. Come Primo Ministro, Netanyahu ha esteso questa retorica razzista ai cittadini stranieri non-ebrei in generale, raggruppando i richiedenti asilo e i lavoratori migranti privi di documenti in un unico insieme che costituisce “una minaccia concreta nei confronti del carattere ebraico e democratico del nostro paese.” Ma il nazionalismo è un’arma a doppio taglio. Coloro che si oppongono alla deportazione tendono pure a formulare le loro argomentazioni in termini patriottici. Il movimento di base dei Bambini Israeliani è il più importante movimento costituitosi in risposta al piano di deportazione che includeva inizialmente 1.200 bambini e che era stato reso noto nell’estate del 2009 ( lo stesso anno in cui Israele aveva emesso un numero di visti record per far venire nuovi lavoratori migranti). Come suggerisce il nome, i suoi leader e attivisti affiliati hanno sottolineato come l’essenza intima di Israele consista nell’opporsi alla deportazione dei bambini. Il maggio scorso, si è svolta una manifestazione di massa contro l’espulsione sotto uno striscione bianco e blu con la scritta, “Non abbiamo un altro paese.”  Un adattamento del titolo di una canzone israeliana molto amata, “Non ho un altro paese”, l’evento ha fatto confluire oltre 10.000 sostenitori. Ma il movimento contro la deportazione è divenuto vittima del suo stesso successo. Nell’agosto 2010, il consiglio dei ministri israeliano ha votato criteri arbitrari che avrebbero permesso alla maggior parte dei bambini in età scolare di essere naturalizzati. In altre parole, questi 700 bambini verrebbero considerati sufficientemente israeliani da poter rimanere. Si scordano dei diritti umani dei più piccoli ( e di quelli più grandi, che si sono già diplomati nelle scuole israeliane). Ora, dato che la deportazione è in corso, il movimento dei Bambini Israeliani sta lottando per attirare l’attenzione dei mezzi di informazione sulla questione. Quando la gente si oppone alla deportazione, immagina sempre un ragazzino di 10 anni che parla l’ebraico e frequenta il sistema scolastico israeliano,” dichiara Rotem Ilan, co-fondatrice dei Bambini Israeliani. “Quando parlano di un bambino di 3 anni, non lo considerano alla stessa stregua…” “Quando parliamo dei bambini più piccoli, parliamo sulla base del rispetto dei diritti umani,” aggiunge, “[Non posso] dire che un bambino di un anno sia israeliano. Come pure non ritengo giusto che questi bambini debbano essere chiusi in carcere.” Il successo del movimento e, ora, il suo fallimento evidenzia che la questione pura e semplice  che contrappone  stato “ebriaco e democratico” e diritti umani, è rimossa.Tra amici e colleghi,  mi sono espressa con rabbia su questa deportazione definendola una nuova Nakba. In arabo equivale a catastrofe, in quanto fa riferimento alla spoliazione che hanno subito centinaia di migliaia di palestinesi quando è stata fondata Israele nel 1948. Dato che i miei amici e colleghi sono pronti a ricordarmi che è un errore fare riferimento alla Nakba per l’attuale deportazione , il che riduce la forza insita nella parola. Ma abbiamo bisogno di farci sentire. Si deve dire qualcosa su uno stato che fa venire lavoratori migranti non-ebrei e, negando loro i diritti fondamentali all’amore e a fare all’amore, li tratta poco più di macchine. Si deve dire qualcosa su uno stato che, circa 60 anni fa, ha trattato degli esseri umani come oggetti da trasferire al di fuori dei suoi confini appena forgiati e continua a fare lo stesso ancor oggi. Si deve dire qualcosa su uno stato che arresta e deporta bambini il cui unico “crimine” è quello di essere nati da una madre non-ebrea. Mya Guarnieri è una giornalista freelance e scrittrice residente a Tel Aviv. Detenzione e Deportazione in Israele: Un nuova Nakba? (tradotto da mariano mingarelli)


CAREGIVERS UNION in Israel

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