Gideon Levy: il tempo delle domande
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16 gennaio 2009
16 gennaio 2009
Volendo risalire alle origini, si potrebbe citare Lev Tolstoj: “Il patriottismo nel suo significato più chiaro, semplice e inequivocabile è solo un mezzo che i governi usano per raggiungere i loro obiettivi, e i cittadini per raggiungere l’abdicazione dalla dignità umana, dalla ragione, dalla coscienza. Il patriottismo è schiavitù”. Con questa guerra, come con ogni guerra, sulla terra è calato uno spirito malvagio. Un editorialista, probabilmente illuminato, ha descritto le terribili colonne di fumo nero che s’innalzano da Gaza come “immagini spettacolari”. Il viceministro israeliano della difesa ha dichiarato che i numerosi funerali che si svolgono a Gaza sono la dimostrazione dei “traguardi raggiunti” da Israele.
Un giornale ha titolato a tutta pagina “Le ferite di Gaza”, riferendosi ai soldati israeliani feriti e ignorando vergognosamente le migliaia di palestinesi che, negli ospedali di Gaza, non possono essere curati. Alcuni commentatori che evidentemente si sono sottoposti al lavaggio del cervello si compiacciono dell’immaginario successo dell’incursione a Gaza. Molti soldati che devono aver subìto lo stesso lavaggio del cervello si esaltano al pensiero di andare in battaglia a commettere stragi (e forse, non voglia il cielo, anche a morire) cancellando dalla faccia della terra famiglie intere, comprese donne e bambini. Immagini spaventose fanno pensare al Darfur e invece vengono dall’ospedale Al Shifa, a Gaza. Mostrano dei bambini moribondi sdraiati sul pavimento. E la risposta patriottica è il grido: “Hip, hip, urrà! Ben fatto!”. Piangi, amato paese: questo non è il mio patriottismo, che pure è patriottismo profondo. Anzi, le reazioni rabbiose a ogni tentativo di critica mi fanno sorgere il sospetto che forse alcuni israeliani sanno, in fondo al loro cuore indurito, che sotto i loro piedi sta bruciando qualcosa di terribile, che una vasta esplosione minaccia di squarciare la itta nebbia in cui sono avvolti. Una nebbia che inebetisce, distorce e offusca. Forse non siamo nel giusto come tutti ci assicurano dal mattino alla sera, forse qualcosa di orribile sta succedendo di fronte ai nostri occhi chiusi. Se davvero gli israeliani sono così sicuri di combattere per una giusta causa, perché mostrano un’intolleranza così violenta verso chiunque provi a esprimere un parere diverso? Questo è il momento di fare critiche: non potrebbe esserci un momento più adatto. È il momento giusto per le grandi domande, quelle fatidiche, decisive. Non dobbiamo limitarci a chiedere se una strategia è giusta o no, o se stiamo facendo progressi “secondo i piani”. Dobbiamo chiedere anche cosa c’è di buono in quei piani. Dobbiamo chiedere se la decisione di cominciare la guerra sia stata un bene per gli ebrei e per Israele, e se l’altra parte coinvolta in questo conflitto se lo meriti davvero. Sì, fare domande su chi sta dall’altra parte è permesso anche in guerra, o forse soprattutto in guerra. Bisogna sapere che i “bambini del sud” non sono soltanto i bambini che abitano a Sderot, ma anche i bambini di Beit Hanun, che hanno un destino infinitamente più amaro.
Il linguaggio della violenza
Provare vergogna e senso di colpa alla vista dell’ospedale Al Shifa non è tradimento: è semplice umanità. Interessarsi alla sorte delle vittime, chiedere se le loro sofferenze siano davvero inevitabili, sagge, giustiicate, morali e legittime è assolutamente necessario. Chiedere se le cose potevano andare diversamente. Chiedere se non sarebbe stato più opportuno provare una lingua diversa da quella della violenza e della forza, l’unica lingua con cui siamo bravissimi a comunicare, Questo è il momento di porre interrogativi sulla nostra statura morale. È il momento giusto; non ce n’è uno più adatto. Bisogna sollevare dubbi sulla saggezza e l’utilità di questa guerra spaventosa, guardare anche il sangue e le sofferenze che ci sono dall’altra parte del conine, dall’altra parte dell’umanità. Questo non può essere solo il momento del militarismo, delle divise e delle fanfare di guerra; questo è anche il momento dell’umanità, di uno sguardo critico, dell’empatia. Questo è il momento dei mezzi d’informazione indipendenti, umani, ragionevoli, e non solo di quelli insensibili, bestiali e ciechi. Questo è il momento di una stampa che scrive la verità tutta intera, e non solo la verità unilaterale della propaganda. È il momento d’informare l’opinione pubblica sul quadro completo, su cosa succede dai due lati del conine, per quanto duro possa essere, senza eufemismi, senza occultare niente, senza nascondere l’orrore sotto il tappeto. L’opinione pubblica farà poi quello che vuole di queste informazioni. Ne potrà gioire o soffrire. Ma deve sapere cosa si sta facendo nel suo nome. È il compito di chiunque abbia occhi, cervello e soprattutto cuore. Chi in tempi difficili usa tutti i cinque sensi non è meno patriottico di chi perde ogni moderazione, di chi ha i sensi attutiti e il cervello anestetizzato. Questo è il momento in cui il patriota dice “Basta”. Le voci dissonanti danneggiano Israele o lo rafforzano? Al buio un segnale d’allarme è comunque un allarme, anche se le tenebre in cui abbiamo gettato Gaza sono niente in confronto al buio fitto e nero che è calato su Israele. Ora è il momento di fare quelle domande che qualcuno sicuramente un giorno farà, è il momento di fare quelle critiche che alla ine bisognerà fare, ma che naturalmente arriveranno con enorme ritardo. Un reporter con il cuore Chi è il traditore? Chi decide se questa guerra assurda è patriottica e se rifiutarla è da codardi? Saranno i radicali, i nazionalisti, gli sciovinisti e i militaristi che sono tra noi? Hanno forse un’esclusiva sul patriottismo? O saranno gli ebrei conservatori americani – che si esaltano ogni volta che Israele uccide e distrugge – a decidere? Forse il tradimento più grave è che Israele esce da questa guerra gravemente danneggiato. Da giornalista ho seguito altre guerre. Nell’inverno del 1993 ero nella Sarajevo assediata e ho visto cose che qui non si sono mai viste, almeno non fino a questa guerra. Come dimenticare l’anziana bosniaca che scavava la terra a mani nude per trovare qualche radice da mangiare? Come dimenticare la corsa per tentare di sfuggire ai cecchini, o la bomba che aveva preso in pieno il mercato, o la vecchia radio che, in una serata nuvolosa nel bel mezzo del buio e dell’assedio, lanciava a tutto volume le note di La ultima noche?
L’estate scorsa ero in Georgia, e lì ho visto i profughi scappare per mettersi in salvo portando con sé, tra le braccia, i loro poveri averi, con gli occhi pieni di paura e di rabbia. In entrambe quelle guerre mi sentivo estraneo, tagliato fuori, cinico come un corrispondente di guerra che va da una battaglia all’altra. Lì non eravamo complici: gli amici di mio figlio e i figli dei miei amici non erano complici di un crimine. Quindi per me era facile – relativamente ed emotivamente – scrivere di quelle guerre. Ma qui e ora no: questa è la mia guerra, la nostra guerra, la guerra di tutti noi, tutti ne portiamo la responsabilità e tutti siamo colpevoli. Spetta a noi far sentire una voce diversa, una voce fastidiosa alle orecchie di chi ha perso ogni sensibilità, una voce “traditrice”, “vile”, “carica di odio verso gli ebrei”, “spregevole”. E soprattutto diversa. Non è solo un nostro diritto: è il nostro supremo dovere nei confronti dello stato a cui siamo così legati, noi patrioti canaglia.
“Internazionale”, n. 778
[Foto da Al Jazeera] *** link al post
Provare vergogna e senso di colpa alla vista dell’ospedale Al Shifa non è tradimento: è semplice umanità. Interessarsi alla sorte delle vittime, chiedere se le loro sofferenze siano davvero inevitabili, sagge, giustiicate, morali e legittime è assolutamente necessario. Chiedere se le cose potevano andare diversamente. Chiedere se non sarebbe stato più opportuno provare una lingua diversa da quella della violenza e della forza, l’unica lingua con cui siamo bravissimi a comunicare, Questo è il momento di porre interrogativi sulla nostra statura morale. È il momento giusto; non ce n’è uno più adatto. Bisogna sollevare dubbi sulla saggezza e l’utilità di questa guerra spaventosa, guardare anche il sangue e le sofferenze che ci sono dall’altra parte del conine, dall’altra parte dell’umanità. Questo non può essere solo il momento del militarismo, delle divise e delle fanfare di guerra; questo è anche il momento dell’umanità, di uno sguardo critico, dell’empatia. Questo è il momento dei mezzi d’informazione indipendenti, umani, ragionevoli, e non solo di quelli insensibili, bestiali e ciechi. Questo è il momento di una stampa che scrive la verità tutta intera, e non solo la verità unilaterale della propaganda. È il momento d’informare l’opinione pubblica sul quadro completo, su cosa succede dai due lati del conine, per quanto duro possa essere, senza eufemismi, senza occultare niente, senza nascondere l’orrore sotto il tappeto. L’opinione pubblica farà poi quello che vuole di queste informazioni. Ne potrà gioire o soffrire. Ma deve sapere cosa si sta facendo nel suo nome. È il compito di chiunque abbia occhi, cervello e soprattutto cuore. Chi in tempi difficili usa tutti i cinque sensi non è meno patriottico di chi perde ogni moderazione, di chi ha i sensi attutiti e il cervello anestetizzato. Questo è il momento in cui il patriota dice “Basta”. Le voci dissonanti danneggiano Israele o lo rafforzano? Al buio un segnale d’allarme è comunque un allarme, anche se le tenebre in cui abbiamo gettato Gaza sono niente in confronto al buio fitto e nero che è calato su Israele. Ora è il momento di fare quelle domande che qualcuno sicuramente un giorno farà, è il momento di fare quelle critiche che alla ine bisognerà fare, ma che naturalmente arriveranno con enorme ritardo. Un reporter con il cuore Chi è il traditore? Chi decide se questa guerra assurda è patriottica e se rifiutarla è da codardi? Saranno i radicali, i nazionalisti, gli sciovinisti e i militaristi che sono tra noi? Hanno forse un’esclusiva sul patriottismo? O saranno gli ebrei conservatori americani – che si esaltano ogni volta che Israele uccide e distrugge – a decidere? Forse il tradimento più grave è che Israele esce da questa guerra gravemente danneggiato. Da giornalista ho seguito altre guerre. Nell’inverno del 1993 ero nella Sarajevo assediata e ho visto cose che qui non si sono mai viste, almeno non fino a questa guerra. Come dimenticare l’anziana bosniaca che scavava la terra a mani nude per trovare qualche radice da mangiare? Come dimenticare la corsa per tentare di sfuggire ai cecchini, o la bomba che aveva preso in pieno il mercato, o la vecchia radio che, in una serata nuvolosa nel bel mezzo del buio e dell’assedio, lanciava a tutto volume le note di La ultima noche?
L’estate scorsa ero in Georgia, e lì ho visto i profughi scappare per mettersi in salvo portando con sé, tra le braccia, i loro poveri averi, con gli occhi pieni di paura e di rabbia. In entrambe quelle guerre mi sentivo estraneo, tagliato fuori, cinico come un corrispondente di guerra che va da una battaglia all’altra. Lì non eravamo complici: gli amici di mio figlio e i figli dei miei amici non erano complici di un crimine. Quindi per me era facile – relativamente ed emotivamente – scrivere di quelle guerre. Ma qui e ora no: questa è la mia guerra, la nostra guerra, la guerra di tutti noi, tutti ne portiamo la responsabilità e tutti siamo colpevoli. Spetta a noi far sentire una voce diversa, una voce fastidiosa alle orecchie di chi ha perso ogni sensibilità, una voce “traditrice”, “vile”, “carica di odio verso gli ebrei”, “spregevole”. E soprattutto diversa. Non è solo un nostro diritto: è il nostro supremo dovere nei confronti dello stato a cui siamo così legati, noi patrioti canaglia.
“Internazionale”, n. 778
[Foto da Al Jazeera] *** link al post
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