Ricordando la pittrice palestinese Heba Zagout



 
 

La sera del 13 ottobre, durante i massicci bombardamenti israeliani su Gaza, Heba Zagout è morta sotto le macerie della sua casa distrutta da un missile. Con lei sono morti i figli e la sua intera famiglia. Sotto le macerie sono andate distrutte le sue meravigliose tele.

Nata a Gaza, figlia di profughi, aveva 40 anni e tre figli. Aveva conseguito il diploma di graphic design presso il Gaza Training College e si era laureata all’Università di Al Aqsa in Belle Arti e alternava il suo lavoro di pittrice con l’incarico di docente presso una delle scuole dell’UNWRA. I suoi quadri sono stati esposti in mostre collettive a Gaza, a Betlemme e in altre città palestinesi. Nei suoi dipinti ritraeva i luoghi della Palestina a lei interdetti perché ai palestinesi di Gaza non è permesso visitare la Palestina. L’assedio imposto da Israele dal 2007 impedisce a tutti i palestinesi della striscia di uscire anche solo per curarsi o permpartecipare a mostre e conferenze.


Sulla tela fissava con colori brillanti le immagini di Gerusalemme e di altre città palestinesi. Pennellate di colori senza retorica. Tra le mura, le cupole e le case a volte si scorgono fiori, altre volte colombe.


È la Palestina che non vedrà mai, quella che ogni palestinese sogna, una pace che tutti sperano di trovare, un luogo di bellezza e di ritorno. Heba affidava alle tele i suoi sogni e quelli di tutti i palestinesi. Nelle tele degli artisti della Palestina, nei versi dei suoi poeti, nei romanzi dei suoi scrittori, nella musica dei suoi compositori la Palestina non è un mero concetto nazionalista: è il desiderio di una vita normale, la volontà di esigere il ritorno fisico ai luoghi di origine e soprattutto il ritorno a uno stato di vita dignitosa non più fatta di muri, assedi, prigione, povertà, esilio forzato, massacri.


Vi invito a guardare i dipinti di Heba, quelli che fortunatamente si sono salvati sulla sua pagina facebook. In alcuni quadri Heba dipinge i campanili delle chiese con il crocefisso ben visibile accanto alle cupole delle moschee. A giugno di quest’anno ha completato “Jerusalem is my city”, un acrilico su tela in cui emergono tre soggetti fondamentali della sua pittura: la donna, la natura e i luoghi di Gerusalemme. Lei, nata e cresciuta a Gaza, dipinge la speranza della convivenza ambientandola nella città di Gerusalemme perché, come tutti gli artisti palestinesi contemporanei, era ben consapevole della minaccia reale che incombe sulla città aggredita dalle politiche di occupazione ed espulsione dei governi israeliani.

I cipressi e gli ulivi che costeggiano una stradina che conduce a Gerusalemme, i campi di papaveri, i fiori di Ficodindia dai colori così tenui da far dimenticare le spine: la natura per Heba è vicinanza, i suoi colori e le sue forme l’aiutano a connettersi con i luoghi e gli affetti lontani.

Nei quadri dedicati alle donne c’è tanto di Heba: i suoi occhi profondi, il suo sorriso dolce, la forza della resilienza. Donne con i capelli sciolti ornati di fiori, donne che suonano il liuto, che raccolgono messi. A luglio ha completato il suo quadro “Alienazione”: un cavallo e una donna con la kufyah sovrastano le mura della città. Lo ha dedicato a tutti coloro che sono lontani dalla propria casa. La simbologia fortissima di una donna che con un cavallo raggiunge Gerusalemme può apparire anche molto audace se si opera l’associazione con il Buraq, il destriero mistico della tradizione islamica destinato ad essere cavalcato dai profeti


. La sua arte l’ha portata a collaborare con il Palestinian Feminist Collective. I soggetti femminili di Heba ritraggono tutte le situazioni che una donna palestinese, suo malgrado, è costretta a vivere e allora troviamo quadri dedicate alle donne prigioniere e alle anziane che conservano la chiave della loro casa occupata.

Heba era un’artista di grande talento, una donna che si divideva tra lavoro, arte e famiglia. Una mamma orgogliosa dei suoi figli, il più grande dei quali, Bara’ah, lo scorso dicembre aveva vinto un premio in un concorso di arte. Sono morti tutti, colpiti da questo attacco che sta violando ogni diritto internazionale e che cela solo l’ennesimo piano di pulizia etnica, in continuità con la nakba che non è mai cessata. Sembra che al diritto alla sicurezza di Israele debba corrispondere il dovere dei palestinesi di farsi massacrare, espropriare, espellere, cancellare. Negli ultimi giorni Heba, come molti palestinesi di Gaza, ha affidato ai messaggi su facebook le preghiere e le speranze di sopravvivenza. Il 19 settembre ha postato sul suo profilo facebook un suo quadro del 2020 dal tiolo “No to racism” che ritrae una donna nera dallo sguardo triste che stringe tra le mani una piccola colomba bianca. Ha accompagnato il post con questo messaggio:

“Cerchiamo sempre di avere una vita sicura. Possiamo trovare la nostra sicurezza nell'amore e non smetteremo mai di cercarla”. A distanza di un mese Israele e la sua cieca azione di cancellazione di un popolo, ha messo fine alle speranze di quest’artista. La morte di Heba deve ricordarci che la retorica   nazionalista di Israele e dei suoi complici occidentali accompagna e alimenta una feroce aggressione militare a un popolo, a più di due milioni di palestinesi, a persone che non dobbiamo ridurre a numeri come vorrebbe la narrazione a senso unico. Come Heba, a Gaza vivono molti artisti che hanno i loro atelier e studi nelle case che vengono bombardate. Sotto quelle bombe muoiono donne, bambini, uomini, scrittori, poeti, registi, giornalisti, artisiti, medici, architetti, operai. Un popolo che la cieca e violenta politica del governo israeliano vuole annientare, cancellare. Altri artisti che a Gaza in questi anni hanno cercato di aprire scuole e laboratori per educare all’arte stanno rischiando in queste ore lo stesso destino di Heba. 

Tra loro voglio ricordare il pittore Mohammad Alhaj che lo scorso anno con il suo quadro “Immigration” ha partecipato alla collettiva “From Palestine With Art” alla Biennale Arte 2022. Ci scambiamo ogni sera un messaggio, mi rassicura che lui e la sua famiglia sono ancora vivi. Aspetto che arrivi la sera per averne conferma. Mi ripete che solo un palestinese piange la morte di un palestinese e che loro a Gaza restano forti e dignitosi mentre aspettano la morte che non cercano ma sanno che colpirà.

Le bombe di Israele hanno già distrutto le case e le opere degli artisti Maysara Barud, Raed Annabris, Tahany Sakik e Ashraf Soheil.

Quanta vita e bellezza nei quadri di Heba Zagout! Malgrado siano andati distrutti spero che possano sopravvivere le immagini che lei ha lasciato in rete sulla sua pagina facebook.

Nell’immaginario collettivo, influenzato da una narrazione che negli anni ha disumanizzato i palestinesi e nello specifico Gaza, forse è impossibile immaginare che a Gaza c’è chi affida all’arte, ai dipinti, alle forme e ai colori la voglia di vivere e di riscattare il proprio diritto alla vita. E invece è vero, tangibile. E la creatività di questi artisti è sorprendente quanto la loro resilienza.





Pina Fioretti

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