David Neuhaus ( Civiltà Cattolica) : RIPENSARE LA RIPARTIZIONE DELLA PALESTINA?

RIPENSARE LA RIPARTIZIONE DELLA PALESTINA?

Settantacinque anni fa, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 181, che divideva la Palestina in due Stati: uno ebraico e l’altro arabo-palestinese. Lo Stato israeliano è entrato a far parte dell’Onu nel maggio 1949. Invece, non esiste ancora uno Stato pienamente membro della Palestina, sebbene, a distanza di 65 anni dall’approvazione della Risoluzione 181, il 29 novembre 2012, l’Onu abbia accordato alla Palestina la condizione di «Stato osservatore non membro», ovvero una posizione che essa condivide soltanto con la Santa Sede. I 65 anni intercorsi tra il piano di riripartizione e l’accettazione della Palestina secondo le suddette modalità meritano di essere ripercorsi per comprendere l’attuale situazione del conflitto israelo-palestinese, che è al centro della perdurante instabilità in Medio Oriente. Qual era la riripartizione proposta? Che cosa ha portato alla decisione di darvi luogo? Quali ne sono state le conseguenze? E, infine, oggi la ripartizione è ancora una soluzione plausibile per il conflitto tra Israele e Palestina?

Qual era il piano di ripartizione?

Il piano delle Nazioni Unite del 1947 proponeva di dividere la Palestina in due Stati: uno ebraico e uno arabo-palestinese. Gerusalemme e i suoi dintorni sarebbero stati controllati dalle Nazioni Unite per un periodo di 10 anni come un corpus separatum, che sarebbe stato oggetto di futuri negoziati. Al momento della ripartizione proposta, la popolazione della Palestina era di circa 1.845.000 residenti: 1.237.000 arabi (67%) e 608.000 ebrei (33%). La stragrande maggioranza della popolazione ebraica era emigrata in Palestina, prevalentemente dall’Europa, nel corso dei trent’anni precedenti il 1947. I confini proposti per i due Stati accordavano il 61% del territorio della Palestina allo Stato ebraico e il restante 35% agli arabi.

L’Agenzia ebraica, l’organo di governo degli ebrei in Palestina, votò a favore della decisione. Il sionismo politico, l’ideologia del moderno nazionalismo ebraico, si era impegnato allo stremo per convincere sia gli ebrei sia i leader mondiali a vedere come un atto di giustizia la creazione in Palestina di uno Stato per gli ebrei che avevano tanto sofferto in Europa per decenni. Il Supremo comitato arabo, che rappresentava la leadership arabo-palestinese, respinse la ripartizione e si associò ai governi dei Paesi arabi circostanti nella richiesta che il territorio andasse sotto il dominio arabo dopo secoli di dominazione straniera. Il nazionalismo arabo sosteneva il principio dell’autodeterminazione per le popolazioni indigene, dopo aver lottato per decenni per liberare la Palestina sia dal dominio coloniale britannico sia dalla migrazione sionista. Dal suo punto di vista, gli ebrei erano nient’altro che colonialisti europei, impazienti di rivendicare quella che era e restava la sua patria.

Perché fu proposta la ripartizione?

Trent’anni prima, nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, quando gli inglesi occuparono la Palestina subentrando a secoli di dominio turco ottomano, gli ebrei erano solo circa 60.000, appena il 10% della popolazione, e molti di loro erano arrivati di recente dalla Russia. Sei settimane prima che le forze inglesi entrassero a Gerusalemme, il ministro degli Esteri britannico, Lord Arthur Balfour, inviò una lettera a un dignitario ebreo britannico, in cui annunciava che il suo governo vedeva «con favore l’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico». Questa lettera, nota come «Dichiarazione Balfour», divenne una base importante per il dominio britannico in quei luoghi, confermata in seguito dal mandato della Società delle Nazioni per la Palestina. L’articolo 4 del mandato prevedeva il coinvolgimento di una «appropriata agenzia ebraica» nella «costituzione del focolare nazionale ebraico» e nell’evoluzione del Paese. È interessante notare che la Santa Sede nutriva riserve su questo aspetto del mandato britannico. Il Segretario di Stato, card. Pietro Gasparri, scrisse al Segretario generale della Società delle Nazioni che, sebbene la Santa Sede non avesse obiezioni al fatto che gli inglesi ricevessero il mandato per la Palestina, restava molto perplessa sul cambiamento implicito nello status degli ebrei residenti. Gasparri, pur sottolineando che la Santa Sede non si opponeva al fatto che gli ebrei abbiano uguali diritti civili in Palestina, rimarcava di non poter accettare che a essi venisse accordata una posizione privilegiata[1].

Il sionismo, formalizzato politicamente come organizzazione mondiale nel 1897 a Basilea, vedeva nel «ritorno» a Sion l’unica soluzione possibile alla difficile situazione degli ebrei in Europa, sempre più vittime designate dei movimenti nazionalisti etnocentrici europei. Balfour e il suo primo ministro David Lloyd George erano in grande sintonia con questa idea. I sionisti in Gran Bretagna, in particolare il fisico ebreo russo Chaim Weizmann (poi primo presidente dello Stato di Israele), avevano corteggiato i politici britannici affinché sostenessero il sionismo, indicando una presenza ebraica in Palestina come il migliore interesse della Gran Bretagna. Da parte loro, Balfour e Lloyd George non solo erano motivati dall’interesse nazionale britannico, ma provavano anche solidarietà con la difficile condizione degli ebrei nell’Impero russo, i quali vivevano sotto un regime discriminatorio, esposti a sporadiche violenze e all’espulsione. Inoltre, come cristiani che si ispiravano alla Bibbia, sposavano l’idea che la Palestina fosse la patria promessa da Dio agli ebrei: convinzione, questa, che caratterizza il sionismo cristiano, fondato sul fondamentalismo biblico, ampiamente diffuso nel mondo anglosassone. Questo misto di interesse imperiale, nobile sollecitudine umanitaria e fervore religioso riferito alla Bibbia fece da potente sfondo nel sostegno accordato al sionismo.

Nel 1947, dopo tre decenni di dominio britannico, la popolazione ebraica in Palestina era aumentata di 10 volte e molti altri ebrei stavano cercando di immigrarvi. Il nazismo pareva aver dimostrato che il sionismo era davvero l’unica alternativa per gli ebrei. L’antigiudaismo era stato trasmesso per secoli nel contesto della diffusa narrazione cristiana tradizionale. Gli ebrei vi venivano definiti sia come coloro che avevano ucciso Dio crocifiggendo Gesù, sia come un popolo di ciechi, perché continuavano a negare che Gesù fosse il loro Messia e Salvatore. Questo «insegnamento del disprezzo» verso gli ebrei e l’ebraismo aveva troppo spesso condotto, nel corso dei secoli, all’emarginazione, alla discriminazione, alla vittimizzazione e alla persecuzione, soprattutto in Europa.

Nel XIX secolo l’antigiudaismo si trasformò in antisemitismo, sulla spinta di un sentimento generato dalle nuove teorie del nazionalismo etnocentrico. La discriminazione, i violenti pogrom e infine il metodico genocidio condotto contro gli ebrei in vari luoghi d’Europa e oltre non erano più basati su tropi teologici, ma piuttosto sulla retorica nazionalista, che considerava gli ebrei come gli eterni stranieri, traditori per natura, riluttanti e incapaci di integrarsi, minacciosamente ostili. Dalla fine del XIX secolo e per tutta la prima metà del XX secolo, milioni di ebrei furono assassinati, e altri milioni sradicati in conseguenza dell’antisemitismo che si manifestava nelle politiche statali, nella brutalità burocratizzata e nel genocidio. Gli impulsi patologici del nazionalismo etnocentrico e del populismo razzista imposero una fine catastrofica a gran parte delle variegate culture ebraiche che avevano arricchito il continente europeo per due millenni. Gli ebrei, che si erano aggrappati per secoli alle loro molteplici patrie europee e avevano sperato di integrarsi in esse come cittadini alla pari, si trovarono spesso costretti a scegliere tra la morte e l’esilio. La vittoria sull’Asse della Germania nazista e dei suoi alleati, nel 1945, rivelò che durante la Seconda guerra mondiale sei milioni di ebrei erano stati assassinati dai nazisti e dai loro collaboratori, mentre altri milioni di loro erano stati espropriati e privati delle loro case. In tutto il mondo si divenne consapevoli del maltrattamento degli ebrei e si accesero simpatie per le pretese ebraiche di una patria.

E tuttavia gli inglesi, nel loro periodo di governo della Palestina, scoprirono che quella terra non era come nel XIX secolo l’aveva raffigurata un politico cristiano sionista britannico, Lord Shaftesbury: «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Di fatto, una vivace popolazione arabo-palestinese di musulmani e cristiani (e un piccolo gruppo di ebrei arabi palestinesi) vedeva in quei territori la propria patria e si batteva con impegno per l’autodeterminazione. Già nel 1917, un oppositore del sionismo, il politico e ministro ebreo britannico Lord Edwin Montagu, aveva obbligato Balfour a includere nella sua lettera una seconda affermazione, secondo la quale «non si deve fare nulla che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebree presenti in Palestina». La tensione tra l’appello a stabilire un «focolare nazionale» ebraico e il rispetto dei diritti civili e religiosi della popolazione «non ebrea» avrebbe reso impossibile il dominio britannico in Palestina, e portò quindi allo scoppio di una feroce guerra civile, che contrappose ebrei sionisti, arabi palestinesi e le forze del mandato britannico. Non era sorprendente che i palestinesi avessero respinto il piano di ripartizione.

In quel periodo, in tutta l’Asia e l’Africa i movimenti di liberazione stavano svincolando le loro patrie dal controllo coloniale e chiedevano l’autodeterminazione. Per gli arabi residenti in Palestina, sia gli inglesi sia gli ebrei a cui era stato concesso di immigrare erano colonizzatori europei. Tuttavia, alla luce del fatto che gli ebrei non apparivano colonialisti europei ma piuttosto un popolo che tornava nella sua antica patria, e che gli arabi palestinesi si consideravano gli indigeni di questa stessa patria, la ripartizione sembrava a molti un compromesso ragionevole. La Santa Sede, particolarmente gratificata dal fatto che Gerusalemme sarebbe stata un’entità a parte, non inclusa nella giurisdizione di nessuno dei due Stati, non solo espresse sostegno al piano di ripartizione, ma esortò vari Paesi dell’America Latina a fare altrettanto.

Quali sono state le conseguenze della ripartizione?

Sebbene negli ultimi 75 anni il piano di ripartizione sia rimasto alla base della visione della comunità internazionale riguardo a Israele-Palestina, e con esso la promozione di due Stati per due popoli come soluzione al conflitto che ha lacerato la regione del Medio Oriente, tuttavia quel piano non è mai stato attuato. Gli inglesi si ritirarono dalla Palestina nel maggio 1948, lasciandosi alle spalle un Paese martoriato da una guerra civile, che contrapponeva gli ebrei sionisti agli arabi palestinesi. La loro partenza e la successiva dichiarazione dell’istituzione dello Stato di Israele portarono allo scoppio della prima di una serie di guerre regionali tra Israele e i Paesi arabi circostanti. Israele, con il sostegno militare, politico ed economico dell’Urss, degli Stati Uniti e di altri alleati europei, respinse gli eserciti arabi. L’accordo di armistizio, firmato nel gennaio 1949, gli riconosceva, come Stato, la sovranità non soltanto sulle terre assegnategli dal piano di ripartizione, ma anche sui territori di cui aveva preso il controllo e che in origine erano destinati allo Stato arabo. Allo Stato di Israele venne riconosciuta la sovranità su quasi il 78% del territorio della Palestina mandataria. L’altro 22% fu conquistato dal Regno hascemita di Giordania (la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est) e dall’Egitto (la Striscia di Gaza). In quella guerra, più della metà della popolazione palestinese perse la propria casa e divenne profuga. Il nuovo Stato di Israele aprì subito le porte all’immigrazione ebraica, e nel corso di 10 anni agevolò l’arrivo di oltre due milioni di nuovi cittadini: sia quelli che abbandonavano l’Europa del dopoguerra, sia quelli in fuga dai Paesi arabi in cui avevano vissuto fino ad allora e dove ormai spesso erano visti come collaborazionisti dello Stato di Israele.

Nel 1967 la regione vide lo scoppio dell’ennesima guerra, che contrappose Israele, sostenuto dagli Stati Uniti, ai Paesi arabi circostanti, appoggiati dall’Urss. La clamorosa vittoria dello Stato di Israele gli assicurò il controllo del restante 22% della Palestina mandataria (Cisgiordania e Striscia di Gaza), che fu sottoposta all’occupazione militare. La Risoluzione 242 delle Nazioni Unite chiedeva la fine di tale occupazione e una giusta soluzione della questione dei profughi palestinesi. Poco prima della guerra, attivisti palestinesi avevano fondato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), che si assumeva la rappresentanza del popolo palestinese. La Risoluzione 3236 delle Nazioni Unite, nel novembre 1974, riconosceva il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione in Palestina, ridestando l’intenzione del piano di ripartizione, e concedeva anche all’Olp la condizione di osservatore non statale all’Onu.

Il 15 novembre 1988, nel contesto di una rivolta generale contro l’occupazione israeliana, nota come intifada, l’Olp dichiarò l’istituzione dello Stato di Palestina. Sebbene i territori che componevano tale Stato fossero sotto il controllo di Israele, molti Paesi lo riconobbero, citando la Risoluzione 181. Fortemente incoraggiati dalla comunità internazionale, i negoziati tra Israele e l’Olp iniziarono nei primi anni Novanta, portando alla firma degli Accordi di Oslo nel 1993 e alla successiva istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, con sede a Ramallah, in Cisgiordania. Tuttavia gli Accordi non sono mai stati pienamente attuati, e nel settembre 2000 ha avuto inizio un’altra tornata di violenze, una seconda intifada. Infine, il 29 novembre 2012 la Palestina è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come Stato osservatore non membro. Sia Israele sia gli Stati Uniti hanno protestato contro tale riconoscimento, pur continuando entrambi a sostenere formalmente il principio di due Stati per due popoli.

La Shoah e la Nakba – ossia, l’esodo forzato di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana – sono legate insieme nella storia. Nella Shoah, l’antisemitismo ebbe un’apoteosi satanica. L’industria del genocidio raggiunse livelli di efficienza che possono essere definiti solo spaventosi. Molti insistono sul fatto che la Shoah non sia paragonabile ad altri eventi, e qui non intendiamo fare confronti. Tuttavia il piano di ripartizione, progettando una patria per gli ebrei sulla scia della Shoah, con la speranza di fare spazio anche a una patria araba palestinese, mise in moto la Nakba. Fu una conseguenza necessaria? Il dibattito accademico, politico e speculativo che vorrebbe rispondere al quesito non cambia la real­tà derivante da quegli eventi: l’istituzione di uno Stato definito ebraico ha portato a relegare i palestinesi ai margini della storia. L’antisemitismo moderno, che fu una catastrofe epocale per gli ebrei nella modernità, ebbe conseguenze sconvolgenti anche per i palestinesi. Con la diretta distruzione delle vite degli ebrei attraverso un genocidio inimmaginabile, la Shoah ha condotto i palestinesi alla tragedia dell’esodo, della Nakba. Con il suo protratto impegno per la ripartizione, la comunità internazionale appare spesso impegnata nel tentativo di bilanciare questi due momenti fondamentali, la Shoah e la Nakba. La decisione di ripartire la Palestina – «due Stati per due popoli» – si basa sulla convinzione post-Shoah che il popolo ebraico abbia bisogno di una patria sicura e che ciò non dovrebbe significare che i palestinesi perdano la loro. La sicurezza ebraica può essere compaginata con la giustizia palestinese? Oggi la soluzione dei due Stati è ancora attuale?

La ripartizione è ancora una soluzione proponibile?

Pareva che l’accettazione della Palestina come Stato osservatore all’Onu, nel 2012, potesse significare un piccolo passo avanti verso la soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese. Sul tema la Santa Sede si espresse all’unisono con la comunità internazionale. Benedetto XVI, nella sua visita in Terra Santa del 2009, lo ha dichiarato in termini precisi: «Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la “two-state solution” (la soluzione dei due Stati) divenga realtà e non rimanga un sogno»[2]. Le sue parole sono state ripetute da papa Francesco durante la visita in Terra Santa nel 2014. Più di recente, rivolgendosi nel gennaio 2022 ai diplomatici, Francesco ha detto: «Vorrei davvero vedere questi due popoli ricostruire la fiducia tra di loro e riprendere a parlarsi direttamente per arrivare a vivere in due Stati fianco a fianco, in pace e sicurezza, senza odio e risentimento, ma guariti dal perdono reciproco»[3].

Tuttavia, a 75 anni dalla decisione di ripartire la Palestina, ci si pone la domanda: la soluzione dei due Stati è ancora plausibile? Nei sondaggi pubblicati di recente sia in Israele sia in Palestina, la maggior parte delle persone si è discostata dalla prospettiva dei due Stati. In un sondaggio del settembre 2022 dell’Israel Democracy Institute, solo il 32% degli ebrei israeliani si è detto favorevole a tale soluzione. E secondo un sondaggio condotto nell’ottobre 2022 dal Palestinien Center for Policy and Survey Research, l’appoggiava solo il 37% dei palestinesi presenti in Palestina. Tuttavia, la comunità internazionale persegue tuttora questo risultato. Se si osserva la realtà sul campo dopo decenni di invasione israeliana delle terre occupate nella guerra del 1967, con l’incessante costruzione di insediamenti ebraici, di strade israeliane e di altre infrastrutture, la soluzione dei due Stati oggi sembra poco realistica. Se nella realtà odierna non è possibile ritagliare due Stati vitali, sovrani e sicuri, la ripartizione non porterà alla giustizia e alla pace, tanto desiderate, tra israeliani e palestinesi.

A chi segue da vicino il dibattito degli analisti riguardo al conflitto balza all’occhio come, a proposito di Israele-Palestina, l’attenzione si stia lentamente spostando verso un mutato vocabolario politico-diplomatico; l’insistenza si concentra di più sulla parola «uguaglianza». A partire dal 2004, alcuni hanno sostenuto che il concetto appropriato per definire la situazione attuale è quello dell’apartheid. Negli ultimi anni, l’accusa che Israele utilizzi un sistema di apartheid per dominare i palestinesi è stata persino allargata dai territori occupati allo stesso Stato di Israele e al suo controllo sui cittadini arabi palestinesi di Israele. Questa discussione accende forti emozioni e ingenera da entrambe le parti un dibattito vivace. Nell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, svoltasi a Karlsruhe, in Germania, nel settembre 2022, una dichiarazione faceva riferimento a tale polemica: «Di recente, numerose organizzazioni e organismi legali internazionali, israeliani e palestinesi, per i diritti umani hanno pubblicato studi e rapporti che descrivono le politiche e le azioni di Israele come “apartheid” ai sensi del diritto internazionale. All’interno di questa Assemblea, alcune Chiese e delegati sostengono fortemente l’utilizzo di questo termine per descrivere appropriatamente la realtà del popolo in Palestina/Israele e la sua collocazione secondo il diritto internazionale, mentre altri lo trovano inappropriato, inutile e doloroso. Non siamo unanimi su tale argomento. Dobbiamo ulteriormente confrontarci su questo problema, mentre continuiamo a lavorare insieme in questo cammino di giustizia e di pace»[4].

La lotta per l’uguaglianza tra ebrei israeliani e arabi palestinesi fa parte integrante del tentativo di risolvere il conflitto in corso. La realtà demografica negli ultimi decenni è cambiata, ha alterato notevolmente il volto di questi territori. Oggi in questi luoghi sette milioni di ebrei israeliani e sette milioni di arabi palestinesi (cinque milioni dei quali residenti nelle terre occupate da Israele nel 1967, e due milioni che sono cittadini israeliani) vivono fianco a fianco. 670.000 ebrei israeliani vivono in Cisgiordania, zona in cui Israele controlla ancora la maggior parte del territorio entro insediamenti definiti illegali dal diritto internazionale. Sacche frammentate di enclavi palestinesi – la cosiddetta «Area A» –, che comprendono le principali città palestinesi, vengono amministrate da un’Autorità palestinese indebolita da dissensi interni, da una gestione corrotta e dalle minacce di anarchia. Questi insediamenti sono circondati da posti di blocco militari israeliani, con muri e recinzioni di sicurezza. All’interno di Israele, i cittadini arabi palestinesi costituiscono circa un quarto della popolazione e chiedono uguali diritti, esprimendo al tempo stesso una crescente delusione nei confronti del processo politico in atto nel Paese. Al momento, la maggior parte degli ebrei israeliani è del tutto contraria a eventuali compromissioni dell’identità ebraica dello Stato di Israele e non sembra probabile una risoluzione del conflitto nel prossimo futuro.

Tuttavia, poiché l’eventualità della ripartizione – in una realtà in cui Israele ha quasi annesso gran parte dei territori occupati durante la guerra del 1967 – sembra ogni giorno più dubbia, questo potrebbe essere il momento giusto per rafforzare la coscienza della necessità di una lotta per l’uguaglianza di israeliani e palestinesi, in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione (due Stati o uno). La lotta civile per l’uguaglianza è condizione necessaria per la libertà, la dignità e il benessere di ogni persona umana. Nel maggio 2019 i vescovi cattolici di Terra Santa hanno proposto una visione del futuro che non si limiti all’idea della ripartizione: «Chiamiamo i cristiani in Palestina-Israele a unire le loro voci con ebrei, musulmani, drusi e tutti coloro che condividono questa visione di una società basata sull’uguaglianza e sul bene comune, e a invitare tutti a costruire ponti di mutuo rispetto e amore. A nulla è servita la proposta della “soluzione dei due Stati”, che viene inutilmente ripetuta. Di fatto, nella situazione attuale qualsiasi discorso circa una soluzione politica sembra un atto di vuota retorica. Pertanto ci facciamo promotori di una visione secondo cui tutti in questa Terra Santa hanno piena uguaglianza, l’uguaglianza che accomuna tutti gli uomini e le donne creati uguali da Dio, a sua immagine e somiglianza. Siamo convinti che tale uguaglianza, al di là di qualsia­si soluzione politica adottabile, sia la condizione fondamentale per una pace giusta e duratura. Nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo viverci insieme anche in futuro? Questa è la nostra visione per Gerusalemme e per tutto il territorio chiamato Israele e Palestina, che è posto tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo»[5].

I vescovi cattolici non sono né politici né diplomatici, ma questa loro attenzione ai princìpi che si trovano al centro del conflitto, in particolare al principio di uguaglianza, potrebbe davvero rivitalizzare un dibattito sul futuro di Israele-Palestina. Quale che sia la soluzione – la ripartizione, una soluzione a due Stati, oppure un’altra –, l’uguaglianza di ciascun individuo all’interno dell’entità politica in cui vive è garanzia e condizione per una pace giusta e duratura.

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RETHINKING THE PARTITION OF PALESTINE?

Seventy-five years ago, the United Nations passed Resolution 181, which divided Palestine into two states: one Jewish and the other Arab-Palestinian. The partition plan was never executed, and instead the borders between the State of Israel and its Arab neighbors were defined by the 1948 war. No Palestinian state was established. The 65 years between the partition plan and the acceptance of Palestine as a non-member observer state at the UN deserve to be retraced in order to understand the current situation of the Israeli-Palestinian conflict, which is at the heart of the continuing instability in the Middle East. What was the proposed repartition? What led to the decision to go ahead with it? What were the consequences? Finally, is partition still a plausible solution for the conflict between Israel and Palestine today?

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[1].     Cfr P. Gasparri, Lettera al Segretario generale della Lega delle Nazioni, 15 maggio 1922.

[2].     Benedetto XVI, Cerimonia di congedo nel pellegrinaggio in Terra Santa, 15 maggio 2009.

[3].     Francesco, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 10 gennaio 2022.

[4].     Consiglio ecumenico delle Chiese, Seeking Justice and Peace for all in the Middle East, 8 settembre 2022.

[5].     Assemblea degli Ordinari Cattolici in Terra Santa, Giustizia e pace si baceranno, 20 maggio 2019.


 2    dall'espresso :29/11/2022

Ancora nel gennaio di quest’anno, parlando di Israele e di Palestina al corpo diplomatico, papa Francesco diceva di voler “vedere questi due popoli arrivare a vivere in due Stati fianco a fianco, in pace e sicurezza”. Ma oggi non lo ripeterebbe più. Perché nei giorni scorsi, per la prima volta dopo molti decenni di costante adesione alla soluzione dei due Stati, la Santa Sede ha detto che è giunta l’ora di “ripensare la ripartizione”. E di puntare piuttosto a “l’uguaglianza di israeliani e palestinesi in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione”, anche in un solo Stato. 


A segnare la svolta è stata “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma pubblicata con l’autorizzazione previa, riga per riga, del papa e della segreteria di Stato, in un articolo in data 19 novembre col titolo: “Ripensare la ripartizione della Palestina?”. L’autore dell’articolo è un gesuita dal profilo molto singolare, David M. Neuhaus, di famiglia ebrea tedesca emigrata in Sudafrica negli anni Trenta, nato a Johannesburg nel 1962, mandato in Israele da adolescente a studiare e lì affascinato dall’incontro con monache venute dalla Russia, battezzato a 25 anni nella Chiesa cattolica e poi entrato nella Compagnia di Gesù, prima negli Stati Uniti e poi in Egitto, ma sempre rimasto ebreo e israeliano, anzi, dal 2009 al 2017 vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica in Israele, nonché professore al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme. L’articolo di Neuhaus comincia col ricordare quando e come nacque l’idea dei due Stati: “Settantacinque anni fa, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 181, che divideva la Palestina in due Stati: uno ebraico e l’altro arabo-palestinese. Lo Stato israeliano è entrato a far parte dell’ONU nel maggio 1949. Invece, non esiste ancora uno Stato pienamente membro della Palestina, sebbene, a distanza di 65 anni dall’approvazione della Risoluzione 181, il 29 novembre 2012, l’ONU abbia accordato alla Palestina la condizione di ‘Stato osservatore non membro’, ovvero una posizione che essa condivide soltanto con la Santa Sede”. Trent’anni prima, nel 1917, la Santa Sede aveva espresso contrarietà alle parole del ministro degli esteri britannico, Lord Arthur Balfour, a favore di “un focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, pur nel rispetto dei “diritti civili e religiosi delle comunità non ebree” lì presenti. Ma nel 1947 essa approvò l’idea della ripartizione, e ancor più volentieri quella di un controllo delle Nazioni Unite su Gerusalemme e dintorni, come un “corpus separatum” in attesa di una futura sistemazione negoziale. I due Stati, però, non nacquero, e nemmeno lo statuto speciale per Gerusalemme. Gli arabi rifiutarono la ripartizione e fu guerra, vinta da Israele che si aggiudicò il 78 per cento del territorio conteso. All’epoca, la popolazione complessiva era di circa 1.845.000 residenti: 608.000 ebrei e 1.237.000 arabi. Di questi ultimi, circa 700.000 si videro costretti a lasciare il territorio occupato da Israele e chiamarono Nakba, catastrofe, questo loro esodo forzato. Ebbene, Neuhaus collega la Nakba alla Shoah, lo sterminio degli ebrei, ed è proprio sull’onda di questo ragionamento che arriva ad avanzare dubbi sulla soluzione dei due Stati: “Molti insistono sul fatto che la Shoah non sia paragonabile ad altri eventi, e qui non intendiamo fare confronti. […] Tuttavia il piano di ripartizione, progettando una patria per gli ebrei sulla scia della Shoah con la speranza di fare spazio anche a una patria araba palestinese, mise in moto la Nakba. Fu una conseguenza necessaria? Il dibattito accademico, politico e speculativo che vorrebbe rispondere al quesito non cambia la realtà derivante da quegli eventi: l’istituzione di uno Stato definito ebraico ha portato a relegare i palestinesi ai margini della storia. […] La decisione di ripartire la Palestina, ‘due Stati per due popoli’, si basa appunto sulla convinzione post-Shoah che il popolo ebraico abbia bisogno di una patria sicura e che ciò non dovrebbe significare che i palestinesi perdano la loro. Ma la sicurezza ebraica può essere compaginata con la giustizia palestinese? Oggi la soluzione dei due Stati è ancora attuale?”. A quest’ultima domanda Neuhaus risponde no. Perché “se si osserva la realtà sul campo dopo decenni di invasione israeliana delle terre ulteriormente occupate nella guerra del 1967, con l’incessante costruzione di insediamenti ebraici, di strade israeliane e di altre infrastrutture, la soluzione dei due Stati oggi sembra poco realistica”. Anzi, prosegue Neuhaus, c’è di più e di peggio: “A partire dal 2004, alcuni hanno sostenuto che il concetto appropriato per definire la situazione attuale è quello dell’apartheid. Negli ultimi anni, l’accusa che Israele utilizzi un sistema di apartheid per dominare i palestinesi è stata persino allargata dai territori occupati allo stesso Stato di Israele e al suo controllo sui cittadini arabi palestinesi di Israele”. A sostegno di questa accusa di “apartheid”, Neuhaus cita una dichiarazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, riunito a Karlsruhe, in Germania, nel settembre del 2022, pur non condivisa da alcuni membri dello stesso Consiglio. 



La conseguenza che Neuhaus deriva da questo stato di cose è che in campo politico e diplomatico “l’attenzione si stia lentamente spostando verso un mutato vocabolario”, la cui parola chiave è “uguaglianza”. Anche la demografia, a suo giudizio, spinge in questa direzione: “oggi in questi luoghi vivono fianco a fianco sette milioni di ebrei israeliani e sette milioni di arabi palestinesi”, due milioni dei quali risiedono in Israele, circa un quarto della popolazione, e “chiedono uguali diritti esprimendo al tempo stesso una crescente delusione nei confronti del processo politico in atto nel Paese”. Quindi “la lotta per l’uguaglianza tra ebrei israeliani e arabi palestinesi fa parte integrante del tentativo di risolvere il conflitto in corso”. Insomma, “poiché l’eventualità della ripartizione – in una realtà in cui Israele ha quasi annesso gran parte dei territori occupati durante la guerra del 1967 – sembra ogni giorno più dubbia, questo potrebbe essere il momento giusto per rafforzare la coscienza della necessità di una lotta per l’uguaglianza di israeliani e palestinesi, in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione”. Già nel 2019, fa notare Neuhaus, i vescovi cattolici di Terra Santa si erano detti scettici sulla soluzione dei due Stati, e invece convinti che l’uguaglianza dei diritti fosse la soluzione giusta: “Nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo viverci insieme anche in futuro? Questa è la nostra visione per Gerusalemme e per tutto il territorio chiamato Israele e Palestina, che è posto tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo”. E anche il sentire maggioritario dei cittadini dei due popoli si è già discostato dalla prospettiva dei due Stati, scrive Neuhaus. “In un sondaggio del settembre 2022 dell’Israel Democracy Institute, solo il 32 per cento degli ebrei israeliani si è detto favorevole a tale soluzione. E secondo un sondaggio condotto nell’ottobre 2022 dal Palestinien Center for Policy and Survey Research, l’appoggiava solo il 37 per cento dei palestinesi presenti in Palestina”. 

E i cristiani che risiedono nella regione? A loro riguardo, l’ultimo rapporto di “Aiuto alla Chiesa che soffre” tratteggia un quadro statistico a due facce. In Israele e in Palestina insieme, dove gli ebrei sono il 49 per cento e i musulmani il 43,5 per cento, i cristiani sono oggi l’1,5 per cento dell’intera popolazione, in cifre assolute 217.000, dei quali un po’ più della metà greco-cattolici melchiti. Ma mentre in Israele i cristiani sono 182.000, il 2,6 per cento, un punto e mezzo in più dell’anno precedente, in Palestina sono calati a picco, dal 18 per cento del 1948 all’1 per cento di oggi. E questo loro esodo non sembra aver fine.

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