Medio Oriente, la "carica dei 450" parlamentari europei contro l'annessione della Cisgiordania di Umberto De Giovannangeli
La “carica dei 450” contro l’annessione de facto della Cisgiordania da parte d’Israele.
Quasi 450 parlamentari europei hanno firmato una lettera inviata domenica sera ai ministri degli esteri dei Pesi Ue e del Regno Unito, esortandoli ad approfittare del cambio di amministrazione degli Stati Uniti per rinnovare la pressione su Israele per fermare la sua "annessione de facto" della Cisgiordania. Tra i firmatari ci sono legislatori di 22 Paesi europei, così come membri del Parlamento europeo. La grande maggioranza è affiliata a partiti di centro-sinistra, come i socialdemocratici e i verdi. Più di un terzo dei firmatari sono del Regno Unito, la maggior parte dei quali sono membri del partito laburista.
“Occasione da non perdere”
"L'inizio della presidenza Biden fornisce un'opportunità molto necessaria per affrontare il conflitto israelo-palestinese con rinnovato impegno", scrivono. "La precedente amministrazione statunitense ha lasciato il conflitto più lontano che mai dalla pace. L'amministrazione Biden offre la possibilità di correggere la rotta e crea uno spazio maggiore per un impegno e una leadership europei significativi. In parallelo, l'annuncio delle elezioni palestinesi che si terranno nei prossimi mesi offre un'opportunità per il rinnovamento politico palestinese e la riunificazione. I parlamentari notano nella loro lettera che gli accordi di normalizzazione recentemente firmati con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno fatto sì che il governo israeliano sospendesse i suoi piani di annessione di ampie porzioni della Cisgiordania. "Tuttavia, gli sviluppi sul terreno indicano chiaramente una realtà di annessione de facto in rapido progresso, soprattutto attraverso l'espansione accelerata degli insediamenti e le demolizioni di strutture palestinesi", hanno scritto.
Tali politiche, rimarcano i firmatari, "stanno eliminando la possibilità di una soluzione a due Stati e radicando una realtà di uno Stato unico di diritti ineguali e di conflitto perpetuo. Che questo sia il futuro della regione è inaccettabile e strategicamente impraticabile".
Nella loro lettera, i parlamentari chiedono alle nazioni europee di lavorare insieme all’amministrazioni Biden e alle parti interessate in Medio Oriente per prevenire "azioni unilaterali" - un riferimento alla politica israeliana in Cisgiordania - che potrebbero minare le possibilità di raggiungere la pace. In questo sforzo, l'Ue e i Paesi europei dovrebbero dimostrare la loro leadership, facendo uso della loro gamma di strumenti politici disponibili", concludono i firmatari.
La lettera è nata dall’iniziativa di quattro importanti attivisti israeliani per la pace: Zehava Galon, l'ex presidente del Meretz; Avrum Burg, uex capo dell'Agenzia ebraica ed ex parlamentare laburista e speaker della Knesset; Naomi Chazan, 'ex presidente del New Israel Fund e Michael Ben-Yair, ex procuratore generale.
Globalist ha intervistato in esclusiva Zehava Galon
Da cosa nasce la vostra iniziativa?
Le ragioni sono molteplici. Su tutte, il fattore tempo. Non è vero che Netanyahu e i falchi della destra abbiano rinunciato al piano di annessione di parti della West Bank. Questa è una narrazione che non corrisponde affatto alla realtà. Netanyahu ha solo cambiato tattica: nessun proclama che avrebbe potuto irretire la comunità internazionale e i Paesi arabi con cui stava stringendo accordi di normalizzazione, ma non per questo l’annessione si è arrestata. Tutt’altro. La colonizzazione della West Bank è proseguita, così come la confisca di terre appartenenti ai palestinesi. Agendo in questo modo, Netanyahu e i sostenitori di “Eretz Israel” (La Terra d’Israele, ndr) sta infliggendo un colpo mortale ad una pace giusta, stabile, fondata sulla soluzione a due Stati. Nel suo agire colonizzatore, Netanyahu sapeva di poter contare sul sostegno assoluto del suo grande protettore americano: Donald Trump. Ora, però, e questa è l’altra ragione che ci ha spinto a questa iniziativa, alla Casa Bianca si è insediato un presidente che conosce molto bene il dossier israelo-palestinese e che ha ribadito la sua intenzione di lavorare per una ripresa del negoziato di pace. Personalmente, ho avuto modo di conoscere il presidente Biden in una delle sue missioni in Medio Oriente quando era il vice del presidente Obama. Ne ho apprezzato la competenza, la sensibilità e la passione nel provare a smuovere le acque stagnanti del processo di pace.
E’ uno sforzo d’immaginazione pensare ad un presidente Usa con la “kefiah”...
Ogni qual volta un presidente degli Stati Uniti ha rimarcato la necessità di atti che aiutassero gli sforzi diplomatici, è stato subito marchiato dalla destra ultranazionalista come “filo palestinese” se non addirittura complice dei terroristi. Ricordo ancora i ritratti di Obama che stringeva la mano a Osama Bin Laden, e lo squallido gioco di parole utilizzato da esponenti anche di primo piano della destra oltranzista quando si rivolgevano all’allora presidente americano, chiamandolo “Barack Osama”. Joe Biden intende essere un facilitatore del rilancio di seri negoziati di pace, e questa determinazione è un’occasione straordinaria, forse irripetibile, per provare a dare sostanza alla parola dialogo. Certo, Biden si è detto amico d’Israele. Ed è proprio perché lo è, sa che proseguire sulla strada dell’annessione non si fa il bene d’Israele, perché pace e colonizzazione sono inconciliabili.
La lettera è rivolta all’Europa. Perché?
Perché l’Europa può avere un ruolo importante nell’affermazione di una soluzione a due Stati, agendo in partnership con l’amministrazione Biden. L’Unione europea, è bene ricordarlo, è parte del Quartetto per il Medio Oriente, assieme ad Usa, Russia e Onu, che ha definito una Road Map per la pace che ha come suo fondamento proprio la soluzione a due Stati. Non c’è niente di nuovo da inventare. E’ tutto scritto. Ciò di cui c’è bisogno è la comune volontà politica di darne attuazione. Una volontà che fin qui è mancata.
Nella lettera si insiste sulle responsabilità che la comunità internazionale, in particolare Usa ed Europa, deve assumersi per rilanciare il processo di pace. Ma ammesso che si manifesti, questa volontà deve fare i conti con chi governa Israele, e cioè una destra che vede come fumo negli occhi la costituzione di uno Stato palestinese, sia pur confinato su uno spicchio di territorio.
Il problema non è imporre dall’esterno la pace. Il problema è creare le condizioni perché chi ha perseguito con ostinazione la politica di colonizzazione finisca di credersi impunibile. Quello che chiediamo all’Europa, in sintonia con la presidenza Biden, non è una invasione di campo, ma di rendere praticabile quel campo, il che, fuor di metafora, significa premere su chi è chiamato a governare Israele affinché ponga fine a questa annessione de facto.
Questo significa anche utilizzare lo strumento delle sanzioni? Ma se così fosse, la destra avrebbe vita ancor più facile nel conquistare consensi interni.
Quella tra remissione o sanzioni, è una falsa alternativa. La storia insegna che esiste un’altra via praticabile perché già sperimentata con successo...
A cosa si riferisce?
Alla presidenza Bush. Bush padre. Si era alla fine della prima guerra contro Saddam Hussein. Allora primo ministro d’Israele era Yitzhak Shamir (Likud). Di certo Bush non era un filopalestinese, tanto più alla luce dello sciagurato sostegno di Arafat a Saddam, ma non aveva intenzione di spostare ancor di più il piatto della bilancia a favore d’Israele, dopo aver incassato il sostegno di una parte del mondo arabo nella prima guerra in Iraq. Shamir era convinto di poter portare all’infinito i negoziati con i palestinesi avviati con la Conferenza di Madrid e intanto continuare a incassare sostegno e miliardi di aiuti da parte americana. Bush, su spinta dell’allora segretario di Stato James Becker, decise di lanciare un segnale molto concreto a Shamir: vuoi continuare a sviluppare gli insediamenti e giocare sul negoziato, fallo pure ma non con i nostri dollari. E così bloccò la linea di credito privilegiata che gli Usa avevano garantito a Israele. Quella decisione impresse una svolta nella vita politica israeliana. E contribuì alla vittoria dell’antagonista di Shamir: Yitzhak Rabin. Questo per dire che gli Stati Uniti e l’Europa hanno in mano carte importanti da giocare per convincere Netanyahu a mollare la presa sui territori palestinesi.
Nella lettera esprimete un giudizio molto severo sulla precedente amministrazione Usa, quella di Donad Trump.
Un giudizio fondato sulla realtà dei fatti. Trump ha aggravato la situazione con decisioni che hanno rafforzato la destra e i suoi disegni di grandezza. Trump ha rappresentato un pericolo per la democrazia negli Stati Uniti come in Israele. In Israele, sposando in toto l’ideologia “suprematista” dei sostenitori della “purezza ebraica”. Negli Stati Uniti, offrendo legittimazione a quel “white power” intriso di un violento, viscerale, antisemitismo. A Trump non è mai interessato essere amico d’Israele, lui ha individuato in Israele l’uomo politico che più gli assomigliava: Benjamin Netanyahu.
Per tornare alla lettera. Il riferimento costante è ai due Stati. Ma anche tra chi in Israele continua a sostenere questa linea, si evidenzia che la realtà sul campo è profondamente cambiata dal ’67 a oggi, e che è impossibile tornare indietro di oltre mezzo secolo.
Questa considerazione non solo è legittima ma è assolutamente fondata, a patto, però, che non venga utilizzata strumentalmente per lasciare le cose così come stanno e anzi peggiorarle. La questione dei confini tra i due Stati è un problema reale che può essere risolto solo se tutte le parti in causa diano prova di realismo e di senso di responsabilità. Questo, a mio avviso, significa impostare la questione dei confini sul principio di reciprocità. Modifiche territoriali devono essere negoziate al tavolo tenendo fermi due punti sostanziali: la piena sovranità dell’entità palestinese su tutto il territorio nazionale che rientra nei confini dello Stato di Palestina. E, altro punto sostanziale, le modifiche da apportare alla “Linea verde” antecedente la guerra dei Sei giorni, devono prevedere uno scambio di territori in una dimensione limitata. La pace è un incontro a metà strada tra le rispettive aspirazioni. E’ la ricerca di un compromesso equo, sostenibile. E’ riconoscere le ragioni dell’altro.
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