I fascisti entrano nella Knesset: in Israele va in scena lo strappo della vergogna di Umberto De Giovannangeli
Le grandi manovre del dopo voto sono già iniziate, Le coalizioni “semoventi”, a geometria politica variabile, si “annusano”, si scompongono e si ricompongono. Ogni partito fa pesare i suoi seggi e alza la posta. I prossimi giorni ci diranno se Benjamin Netanyahu sarà di nuovo il primo ministro d’Israele o se il variegato, anche troppo, blocco “anti Bibi” manterrà il punto e riuscirà a defenestrare “Re Netanyahu”.
Staremo a vedere. Ma qualcosa queste elezioni, le quarte in due anni, l’hanno già sancita. Ed è un qualcosa che pesa come un macigno e rappresenta uno spartiacque tra il prima e il dopo. I fascisti alla Knesset. Globalist ne ha dato conto nella prima parte del “viaggio” nell’Israele post elezioni. Ma oggi, a sottolineare cosa significhi l’ingresso alla Knesset del partito razzista, omofobo, “kahanista” Religious Zionism (6 seggi) lo chiarisce molto bene l’editoriale di Haaretz
Una vergogna incancellabile
“Un partito benpensante - è il redazionale del quotidiano progressista di Tel Aviv - composto da razzisti e omofobi è stato eletto questa settimana alla Knesset. Non bisogna prendere alla leggera questo sviluppo preoccupante. Ventisei anni fa, la Knesset ha adottato un emendamento alla Legge fondamentale che definisce la sua funzione. L'emendamento stabiliva che un partito con una piattaforma razzista non poteva partecipare alle elezioni. Ventitré anni dopo la squalifica del partito Kach di Meir Kahane come concorrente, i discepoli e i sostenitori della via del razzista di Brooklyn sono tornati nella nostra assemblea legislativa con una forza molto maggiore della presenza di Kahane in questo organo. Non possiamo lasciarlo passare. Nessun paese dell'Europa occidentale oserebbe aggiungere al suo gabinetto razzisti e omofobi come quelli del Religious Zionism. Semplicemente non passerebbe. Ciò che non passerebbe in Europa occidentale non dovrebbe passare in Israele. La palla è ora nelle mani dei membri del 24° Knesset e dei media. Non si può imbiancare questo partito e non si deve collaborare con esso. Questa è una fazione illegittima che getta un'ombra oscura su Israele, i suoi elettori e i suoi rappresentanti. La vergogna è il numero di ebrei israeliani che potrebbero votare per questo partito omofobico e razzista. È ancora più scandaloso che i sostenitori del Likud continuino a seguire Netanyahu, che è stato la levatrice di questo partito. Come possiamo noi ebrei lamentarci dell'antisemitismo quando così tanti israeliani sostengono partiti che professano l'odio contro gli altri? Dovremmo chinare la testa per la vergogna quando un partito che si considera il Partito Religioso e Sionista è diventato, con l'incoraggiamento del primo ministro Netanyahu, un legittimo partito neonazista - seguaci fanatici del defunto Rabbi Meir Kahane, omofobo e spregevole razzista. Questo è stato ottenuto per l'interesse personale di Netanyahu di evitare i processi penali contro di lui in tribunale. Questo non è un lampo nella padella della Knesset delle mediocrità di destra, diventerà presto mainstream poiché la sua legalità è assicurata sotto una democrazia grossolanamente disfunzionale. I risultati elettorali sono inconcludenti e una quinta elezione è questione di pochissimo tempo. C'è una persona responsabile - l'egoista e sospettoso del crimine Netanyahu deve essere ritenuto responsabile del pasticcio politico che stiamo vivendo a scapito del popolo di Israele”.
Etnocrazia apripista
Fin qui Haaretz. Ma questa sconvolgente deriva razzista è il portato di qualcosa di profondo, che ha trasformato una democrazia in etnocrazia.
L’etnocrazia è, in primo luogo, la sanzione della sconfitta del sionismo e il trionfo del revisionismo di Zeev Jabotinsky, non a caso il punto di riferimento ideologico della destra nazionalista israeliana E’ di questo che dovremmo discutere, è su questo snodo cruciale che vale la pena, se è il caso, dividerci. La “Questione israeliana” ingloba ma non si esaurisce nella vicenda palestinese e né può avere come unica chiave di lettura quella della sicurezza minacciata. Certo, quando il gioco si fa duro, i falchi etnocratici tirano fuori il loro evergreen: siamo un Paese circondato da nemici, gli arabi possono permettersi di perdere mille battaglie ma resteranno sempre in piedi. Israele, no. Se perde una guerra, rischia di scomparire dalla faccia della terra. Ma ridurre i processi che negli ultimi cinquant’anni hanno trasformato profondamente, radicalmente Israele, al solo dilemma pace/guerra, si sminuisce la portata di una “questione” che rimarrà in vita, ne sono convinto, anche il giorno in cui la “questione palestinese” avrà finalmente una soluzione politica. Se oggi il futuro d’Israele si gioca solo a destra, non è perché c’è l’Iran, Hamas, Hezbollah. O, quanto meno, non è solo perché la destra vince se impone in cima all’agenda politica nazionale il tema della sicurezza e di come far fronte alle minacce, vere o presunte, che sono sempre, in questa narrazione, mortali. Prima che nelle urne, la vittoria della destra etnocratica in Israele, è avvenuta sul piano culturale, sull’aver plasmato la psicologia di una Nazione a propria immagine e somiglianza. La destra ha vinto perché ha fatto prevalere, nella coscienza collettiva, Eretz Israel, la Terra d’Israele, su Medinat Israel, lo Stato d’Israele. In questa visione, la Sacra Terra, proprio perché è tale, non è materia negoziabile e chi osa farlo finisce per essere un traditore che merita la morte. Questo, un traditore sacrilego, è stato Yitzhak Rabin per la destra israeliana che ha armato ideologicamente la mano del giovane zelota, Ygal Amir, che mise fine alla vita del premier-generale che aveva osato stringere la mano al “capo dei criminali palestinesi”, Yasser Arafat, riconoscendo nel nemico di una vita, un interlocutore di pace. Israele ha ottenuto successi straordinari in svariati campi dell’agire umano. E’ all’avanguardia mondiale quanto a start up, ha insegnato al mondo come rendere feconda anche la terra desertica e portato a compimento importanti scoperte nel campo della scienza, della medicina, dell’innovazione scientifica. Ma la modernizzazione sociale ed economica non ha mai interagito con la grande questione identitaria. Su questo terreno, la tradizione ha vinto e non ha fatto prigionieri. I Palestinesi, in questo, sono un incidente di percorso, con cui occorre fare i conti ma che mai hanno rappresentato un elemento di riflessione su se stesso, su Israele. In una conversazione non più recente, ma straordinariamente attuale, avuta con David Grossman, il grande scrittore israeliano mi disse di aver maturato la convinzione che per Israele, il popolo israeliano, sarebbe stato meno doloroso cedere dei territori (occupati) piuttosto che sottoporre ad una revisione critica la propria storia, a partire dalla nascita dello Stato d’Israele, perché questa revisione avrebbe dovuto portare al riconoscimento dell’altro da sé, come popolo, con una propria identità nazionale, con la propria storia che interrogavano la storia d’Israele. Così è. L’etnocrazia, a ben vedere, è l’altra faccia del regime di apartheid instaurato di fatto nei Territori palestinesi occupati. L’etnocrazia crea identità, definisce una visione del ruolo del popolo ebraico nel mondo, indica una Missione da compiere. La “Questione israeliana” non ha nulla di difensivo. Essa, a ben vedere, è una declinazione di quel sovranismo nazionalista che segna il presente, ipotecando il futuro. I padri fondatori d’Israele si sono battuti per realizzare il sogno di uno Stato per gli ebrei. La destra revisionista ha imposto lo Stato degli ebrei. Non è una differenza semantica
L’’ingresso dei fascisti alla Knesset ne è il frutto avvelenato.
IIsraele politica nazionale-estera-militare
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