AMIRA HASS - DOVE SONO QUESTE TRE FIGURE SORRIDENTI DI FATAH OGGI?

 La liberazione e la libertà sono sempre belle durante il periodo di lotta. Ma quando gli ex combattenti per la libertà diventano membri del nuovo regime, le ombre oscurano il loro passato eroico

Di Amira Hass - 22 febbraio 2021
Ci sono tre uomini sorridenti in questa foto. Quello di mezzo è più vecchio, con la barba grigia, la fronte alta e la pipa. Sembra un rivoluzionario cubano. È affiancato su entrambi i lati da uomini più giovani che sembrano degli studenti che si atteggiano in un locale. Uno ha i baffi, l'altro porta gli occhiali. Quello con gli occhiali, un po’ ricercato, è Mohammed Dahlan, che appoggia affettuosamente il gomito sulla spalla dell'uomo più anziano, Abu Ali Shahin. Il sorriso di quello baffuto, Marwan Barghouti, assomiglia più alla sua risata contagiosa, dietro la quale c'è un senso dell'umorismo autoironico. (Al nostro primo incontro nel 1997, mi ha spiegato, su mia richiesta, come gli accordi di Oslo avrebbero portato all'indipendenza. Alla fine della sua spiegazione, ho detto che non capivo, e ha detto: "Nemmeno io.")
I sorrisi erano appropriati al frangente; la foto è apparentemente del 1988 o 1989, al culmine della rivolta popolare nota come la Prima Intifada. Ma i tre uomini sorridenti non sono al loro posto: Israele li aveva cacciati dalla loro patria. Tuttavia, i loro sorrisi e la gioia sembrano così autentici che ci si potrebbe commuovere.
Tutti e tre erano il presente e il futuro del movimento di Fatah, coraggiosi eroi popolari che avevano fondato il Movimento Giovanile di Fatah, che Israele aveva imprigionato e poi esiliato. Qui, in una foto su un divano ad Amman, erano convinti che la fine dell'occupazione fosse vicina; dopotutto nessun tiranno potrebbe resistere alla volontà di un popolo unito.
La foto gioiosa cattura una tragedia tipica dei movimenti di liberazione nazionale: la liberazione e la libertà sono sempre belle durante il periodo di oppressione e lotta. Quando gli ex combattenti per la libertà diventano membri del nuovo regime, le ombre iniziano a oscurare il loro eroico passato e rivelano problemi che erano nascosti o ritenuti secondari.
La terribile differenza tra la lotta palestinese e quella degli altri popoli, in Sud Africa e Algeria, per esempio, è che da un punto di vista formale, non solo filosofico o economico, il dominio straniero non è stato rovesciato. I palestinesi vivono sia con la tirannia israeliana che con il malfunzionamento del loro menomato autogoverno. In realtà, con il malfunzionamento di due governi: quello di Hamas a Gaza e quello di Fatah in Cisgiordania. Due non-Stati per un popolo, e all'interno di ciascuno il partito al governo crea il proprio feudo, come i ministeri del governo, le forze di sicurezza e di polizia, entità che creano posti di lavoro e stipendi che subordinano i loro destinatari al sovrano e mettono a tacere qualsiasi protesta o critica.
Shahin, nativo e rifugiato del villaggio di Basheet, a sud-ovest di Ramle, è morto a Gaza nel 2013 all'età di 80 anni. Negli ultimi anni ha dovuto respingere le voci sulla sua presunta corruzione come Ministro.
Dahlan, che proviene da una famiglia di rifugiati del villaggio di Hamama, tra Ashkelon e Ashdod, ha macchiato il suo passato di combattente per la libertà con il suo ruolo oppressivo come capo delle Forze di Sicurezza Preventive a Gaza, il suo accumulo di ricchezza e il suo coinvolgimento in affari e avventure militari in paesi stranieri.
Barghouti, originario del villaggio di Kobar, vicino a Ramallah, sta pagando con l'ergastolo una rivolta iniziata come popolare e spontanea di cui si sono appropriati le forze armate delle organizzazioni palestinesi. Yasser Arafat, prendendo esempio dall'Algeria, ha visto questo come il modo per migliorare la sua posizione nei negoziati mentre respingeva le critiche popolari al suo regime. Barghouti, contrariamente alla sua comprensione e alle sue inclinazioni, fu coinvolto nella competitiva prova di forza che si sviluppò tra i vari gruppi armati, e tra questi e le Forze di Difesa Israeliane.
Nelle ultime settimane, ho sentito la frase "hanno preso in ostaggio il nostro movimento" da diversi membri di Fatah che cercavano di mettere su una lista per correre contro la lista fedele al presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas alle elezioni del Consiglio Legislativo Palestinese, che si terranno, a Dio piacendo, il 22 maggio. Si riferiscono al regime autoritario di intimidazione e omertà che Abbas ei suoi associati hanno creato in Fatah e nelle istituzioni dell'Autorità Palestinese. La maggior parte di coloro che dicono questo proviene dalla generazione della Prima Intifada, che fu messa da parte dalla generazione fondatrice che tornò dall'esilio negli anni '90. Questi ultimi sono indicati dagli ex allievi dell'Intifada come "tunisini" o "nuovi immigrati", ma costituiscono ancora la maggioranza del Comitato Centrale di Fatah.
Ma questa non è l'unica fonte della tensione, che esisteva in altri movimenti di liberazione tra le dirigenze "esterne" e "interne". Il fatto è che tra i lealisti di Abbas nel Comitato Centrale, ci sono diversi "infiltrati" con le proprie storie di attivisti anti-occupazione sin dalla loro giovinezza che si sono trasformati in uomini forti e oppressivi: Majed Faraj, capo dei servizi segreti civili, a cui l’opinione pubblica palestinese fa riferimento come "l'uomo d'America"; Hussein al-Sheikh, noto come "l'uomo di Israele" per il suo ruolo di mediatore presso le autorità israeliane, e Jibril Rajoub, che nel suo ruolo di presidente dell'Associazione Calcistica Palestinese dimostra meravigliosamente le sue capacità politiche e il desiderio di governare.
Dall’altra parte, c'è Nasser al-Kidwa, un "rimpatriato" e che, come nipote di Arafat, può dire di avere Fatah nel sangue. Negli ultimi anni, tuttavia, è stato uno dei principali critici di Abbas e dell'attuale sistema politico. Giovedì scorso ha confermato di essere coinvolto nella formazione della lista alternativo a quella formale di Fatah, nel tentativo di avanzare verso un percorso democratico di costruzione di una vera e propria strategia di liberazione. In un simposio online all’Università Bir Zeit, ha detto: "Se non ci riusciamo questa volta, dovremo abbandonare la politica. Per me personalmente, se dovessi sfuggire alle responsabilità ora, significherebbe che non avrò alcun ruolo politico in futuro ".
Poi pronunciò la frase che rivelò la profondità della tragedia: "O facciamo ciò che ci viene richiesto o ce ne andiamo. Basta con quello che abbiamo fatto al popolo palestinese".
Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro "Bere il mare di Gaza". Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.
Traduzione: Beniamino Rocchetto
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 3 persone e barba
There are three smiling men in this picture. The middle one is older, with a graying beard, high forehead and a pipe. He looks like a Cuban revolutionary. He is flanked on either side by younger men who look like hot students from the cafeteria. One has a mustache; the other wears glasses. The one with the glasses is Mohammed Dahlan, a bit of a dandy, who rests his elbow affectionately on the shoulder of the older man, Abu Ali Shahin. The smile of the mustachioed one, Marwan Barghouti, looks more like his infectious laugh, behind which is a self-deprecating sense of humor. (At our first meeting in 1997, he explained to me, at my request, how the Oslo Accords would lead to independence. At the end of his explanation, I said I didn’t understand, and he said, “I don’t, either.”)
The smiles were apt; the photo is apparently from 1988 or 1989, at the height of the popular uprising known as the first intifada. But the three smiling men are not in their proper place: Israel had expelled them from their homeland. Nevertheless, their smiles and joy look so authentic one could cry.
All three were the present and future of the Fatah movement, courageous popular heroes who had founded the Fatah Youth Movement, whom Israel imprisoned and then exiled. Here, in a photo on a sofa in Amman, they were convinced that the end of the occupation was near; after all no tyrant could stand up to the will of a united people.
The joyful photo captures a tragedy typical of national liberation movements: Liberation and freedom are always beautiful during the period of oppression and struggle. When the former freedom fighters become members of the new regime, the cracks start to overshadow their heroic past and reveal problems that were hidden or thought to be secondary.
The terrible difference between the Palestinian struggle and those of others – in South Africa and Algeria, for example – is that from a formal perspective, not just a philosophical or economic one, foreign rule has not been overthrown. The Palestinians are living with both Israeli tyranny and the malfunctioning of their handicapped self-government. Actually, with the malfunctioning of two governments – that of Hamas in Gaza and Fatah in the West Bank. Two non-states for one people, and within each the ruling party creates its own latifundium, such as government ministries, security and police forces, entities that create jobs and salaries that subordinate their recipients to the ruler and silence any protest or criticism.
Shahin, a native and refugee from the village of Basheet, southwest of Ramle, died in Gaza in 2013 at the age of 80. In his last years he had to reject rumors about corruption as a minister.
Palestinian President Mahmoud Abbas and Prime Minister Mohammad Shtayyeh in Ramallah last year.
Palestinian President Mahmoud Abbas and Prime Minister Mohammad Shtayyeh in Ramallah last year.Credit: MOHAMAD TOROKMAN/ REUTERS
Dahlan, from a family of refugees from the village of Hamama, between Ashkelon and Ashdod, stained his past as a freedom fighter with his oppressive role as head of the Preventive Security Forces in Gaza, his accumulation of wealth and his involvement in business and military adventures in foreign countries.
Barghouti, from the village of Kobar, near Ramallah, is paying with life imprisonment for an uprising that began as a popular, spontaneous one and that was appropriated by the armed forces of Palestinian organizations. Yasser Arafat, taking his example from Algeria, saw this as the way to improve his position in the negotiations while rebuffing popular criticism of his regime. Barghouti, contrary to his understanding and inclinations, got caught up in the machismo contest that developed among the various armed groups, and between them and the Israel Defense Forces.
Over the past few weeks, I’ve heard the sentence, “they’ve hijacked our movement” from several Fatah members trying to put up a list to run against the slate loyal to Palestinian Authority President Mahmoud Abbas in the Palestinian Legislative Council elections, to take place, God willing, on May 22. They are referring to the authoritarian regime of intimidation and silencing that Abbas and his associates created in Fatah and the PA institutions. Most of those saying this are from the first-intifada generation, who were shunted aside by the founding generation that returned from exile in the 1990s. The latter are referred to by the intifada alumni as the “Tunisians” or “new immigrants,” but they still constitute a majority of the Fatah Central Committee.
But that’s not the sole source of the tension, which existed in other liberation movements between “outside” and “inside” leaderships. The fact is that among Abbas’ loyalists on the central committee, there are several “insiders” with their own histories as anti-occupation activists since their youth who turned into repressive strongmen: Majed Faraj, head of general intelligence, whom the Palestinian public refers to as “America’s man”; Hussein al-Sheikh, known as “Israel’s man” due to his role as mediator with the Israeli authorities, and Jibril Rajoub, who in his role as chairman of the Palestinian Football Association marvelously demonstrates his political skills and desire to rule.

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