Richard Falk L’«accordo del secolo»: l’apartheid sarebbe un «futuro più luminoso»?
Sarebbe stato folle attendersi un compromesso politico equilibrato da parte della presidenza Trump. E’ stato chiaro fin dalla sua elezione, a sorpresa, nel 2016, quando Trump aveva affidato la politica mediorientale e, nello specifico, la questione israelo-palestinese a suo genero Jared Kushner, inesperto ed estremista sionista, assistito da persone ugualmente non qualificate. Trump ha fatto quello che non avevano mai osato fare gli altri inquilini filoisraeliani della Casa bianca: ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e vi ha spostato l’ambasciata statunitense, ha sostenuto la legalità degli insediamenti malgrado la flagrante violazione del diritto umanitario internazionale, ha dato via libera all’annessione israeliana delle alture del Golan senza riguardo per la sovranità della Siria, ha tagliato i fondi per gli aiuti e ha chiuso l’ufficio informazioni della Palestina a Washington.
IN UN SIMILE contesto, non può sorprendere che l’«Accordo del secolo» delinei un piano centrato sulla resa politica della Palestina, corredato da un pacchetto di incentivi (che presumibilmente sarebbero finanziati dai paesi arabi del Golfo) purché i palestinesi facciano i bravi bambini e rinuncino a ogni diritto e rivendicazione, pur fondati sulle norme internazionali.
IN SUDAFRICA, nel disperato sforzo di stabilizzare il regime dell’apartheid, erano state create enclave etniche disseminate nel paese, con una parvenza di governo autonomo ma completamente subordinate alle strutture gerarchiche dell’apartheid e al feroce sfruttamento di gran parte della popolazione africana. La cosiddetta «mappa concettuale» del piano di Trump assomiglia molto a quegli accordi di «sviluppo separato» definiti «bantustan». Non a caso, 25 anni dopo con la fine dell’apartheid, i bantustan svanirono subito . E una volta che le proposte di Trump cadranno nell’oblio, il perverso concetto di autodeterminazione che esse contengano seguirà lo stesso destino.
NATURALMENTE, l’offerta di uno staterello palestinese, costituito soprattutto da comunità urbane della West Bank messe insieme pur non essendo contigue, funge anche da espediente per nascondere o almeno minimizzare un ulteriore land-grabbing da parte israeliana. Invece di ritirarsi dalla West Bank come richiesto all’unanimità dalla risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza, Israele stabilisce il proprio controllo sull’80% della Palestina occupata, dando alla Palestina alcune aree desertiche nell’inabitabile Negev.
NEL 2005, COME passo per raggiungere la pace con i palestinesi, Israele attuò il cosiddetto «disimpegno da Gaza». Fu ritirato l’esercito israeliano che all’epoca occupava la Striscia smantellando gli insediamenti dove vivevano 18000 coloni. Israele sostenne che queste decisioni mettevano fine alla responsabilità israeliana come potenza occupante sulla base del diritto internazionale. Ma presto fu chiaro che non di fine dell’occupazione si trattava ma di una nuova modalità di controllo, in tutta evidenza più devastante per la popolazione civile della Striscia di Gaza rispetto alla precedente occupazione. Israele ha continuato a controllare la frontiera fra Gaza e l’Egitto, mantenendo anche il controllo sovrano su spazio aereo e acque territoriali di Gaza. Economia e condizioni di vita nella Striscia sono peggiorate, accentuate dalle misure punitive adottate dopo l’arrivo al potere di Hamas. Sviluppi che hanno stimolato la resistenza di Gaza, e poi incursioni militari israeliane in risposta ai missili lanciati dalla Striscia; insomma, dopo il cosiddetto disimpegno, la popolazione civile di Gaza è stata fatta oggetto di attacchi massicci, causa di grandi sofferenze e violazione di ogni diritto.
L’accordo di Trump offre al più una versione peggiorata della Gaza post-disimpegno. Conferisce il controllo delle frontiere esclusivamente a Israele, esige una completa smilitarizzazione dello staterello palestinese, rende le comunità palestinesi completamente vulnerabili all’azione militare israeliana. Un regime così opprimente, qualora ci si arrivasse, provocherebbe certamente una resistenza violenta, e parallelamente una periodica dimostrazione di forza da parte di Israele, con il corredo di punizioni collettive contro i palestinesi. Visto quanto è accaduto a Gaza, l’accettazione palestinese di una situazione analoga per tutta la Palestina sarebbe un atto di estrema autodistruzione. È già terribile essere assoggettati con la forza, ma è inimmaginabile che si decida di ingoiare volontariamente un simile veleno.
SE QUESTO è l’Accordo del secolo, sarà un secolo triste per tutti noi. Ma forse, dall’estremismo delle ingiuste proposte messe sul tavolo da parte degli Stati uniti, potrebbero nascere risposte utili: una leadership palestinese unita, la richiesta di un’intermediazione neutrale al posto di quella statunitense, la crescita della solidarietà con la lotta palestinese, l’inizio di uno sforzo internazionale per processare Israele per crimini contro l’umanità. Ma la premessa a ogni sincera iniziativa diplomatica in grado di portare a una vera pace deve essere la dissoluzione dell’attuale regime di apartheid israeliano. Ogni altro approccio porterebbe al massimo a un temporaneo cessate il fuoco.
* Inviato dell’Onu per i diritti umani nei Territori occupati e professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton
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