Gigi Riva Quanto pesa l'ok di Donald Trump alle colonie di Israele

Quanto pesa l'ok di Donald Trump alle colonie di Israele




«Non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto che ciò che è forte fosse giusto». Con un atto non sorprendente e tuttavia dirompente l’amministrazione Trump convalida, ancora una volta, l’amara massima seicentesca di Blaise Pascal. «Le colonie di civili israeliani in Cisgiordania non sono in sé contrarie al diritto internazionale», proclama il segretario di Stato Mike Pompeo, sconfessando così la posizione quarantennale di Washington e richiamando l’unica pezza d’appoggio a disposizione, cioè una frase analoga pronunciata alla Casa Bianca il 2 febbraio 1981 da Ronald Reagan.

Ma guardandosi bene dal completare il pensiero del defunto presidente-attore, il quale si premurò di aggiungere che la colonizzazione del territori palestinesi era comunque «poco giudiziosa» e «inutilmente provocatrice» lanciando un appello perché fosse fermata. Senza esito. All’epoca i coloni erano 16.200; oggi, se si esclude Gerusalemme Est, hanno abbondantemente superato la cifra di 400 mila, distribuiti in 150 insediamenti ufficiali, più decine di avamposti non riconosciuti e però spesso sovvenzionati dallo Stato stesso. Un progressione formidabile che ha avuto un’impennata (20 per cento di aumento) negli ultimi anni con il premier Bibi Netanyahu al potere.
Reagan voleva prendere le distanze dal suo predecessore democratico Jimmy Carter e dal suo consigliere giuridico Herbert Hansell, il quale aveva bollato come «una violazione della quarta convenzione di Ginevra» il trasferimento di popolazione in aree sotto occupazione. Posizione riconfermata da tutti gli altri inquilini della Casa Bianca, di qualunque orientamento politico fossero, nel periodo in cui Washington si era ritagliata il ruolo di arbitro della questione israelo-palestinese e le colonie erano considerate, pressoché unanimemente, un ostacolo per il sempre abortito processo di pace perché segnano l’impossibilità di arrivare di fatto alla ormai tramontata soluzione dei due Stati.

E prima invece di indossare la stessa casacca bianco-blu di una delle squadre in campo. Quella casacca Donald Trump l’ha già vestita in almeno due altre occasioni clamorose, quando ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e quando ha affermato la sovranità di Israele sulle alture del Golan, strappate alla Siria durante la Guerra dei Sei giorni del 1967. Ora il passo ancora più controverso, condannato pressoché unanimemente dall’intera comunità internazionale, Nazioni Unite, Unione europea, la Turchia pur recentemente gratificata dell’appoggio all’invasione del Rojava, la regione della Siria abitata dai curdi («Nessun Paese è al di sopra della legge»). Oltre agli Stati arabi, compresi la Giordania e l’Egitto, gli unici che hanno firmato un trattato di pace con Israele. E naturalmente i palestinesi che assistono esterrefatti alla sarabanda delle dichiarazioni di condanna sapendo tuttavia di essere pressoché stati abbandonati da istituzioni sovra-nazionali obsolete o impotenti come l’Onu e la Ue.

Gongola, all’opposto, Benjamin Netanyahu che può almeno temporaneamente dimenticare i guai giudiziari e il rischio di perdere la guida del governo. La mano tesa dell’amico americano gli dà una boccata d’ossigeno e lo induce a rilanciare l’ennesima sfida, visto che poche ore dopo «il gesto Usa che rimarrà per generazioni» si affretta ad approvare il progetto di legge che permetterà a Israele di annettersi la valle del Giordano, considerata cruciale per la sicurezza dello Stato.

La decisione di Trump suona come una compensazione. Mentre prosegue la linea del disimpegno militare in Medio Oriente, considerata un’area non più strategica per gli interessi degli Stati Uniti, si rafforza l’appoggio diplomatico allo storico alleato. E persegue almeno tre diversi scopi: evidenziare la debolezza geopolitica di Bruxelles; distogliere l’attenzione dall’affaire ucraino e dall’indagine sul suo possibile impeachment; ingraziarsi gli elettori ebrei negli Stati Uniti in vista della prossima corsa alla Casa Bianca del 2020 di fatto già iniziata.

La colonizzazione della Cisgiordania e di Gaza iniziò poco dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, 52 anni fa, e l’occupazione dell’intera Palestina storica. L’allora premier Levi Eshkol, tra i fondatori di Israele, accolse la perorazione del rabbino ortodosso Hanan Porat perché fosse riedificato l’insediamento religioso di Kfar Etzion, luogo simbolo della corrente messianica del sionismo, distrutto dall’esercito giordano durante la guerra d’Indipendenza del 1948. Fu il varco che permise il primo insediamento dentro Hebron di un gruppo di persone capeggiate da Moshe Levinger, uno dei primi leader del movimento dei settler.

I leader laburisti (Rabin compreso) o conservatori (a cominciare da Menachem Begin) tollerarono o favorirono la progressiva e impetuosa cresciuta del numero delle aree in cui sorgevano questi avamposti. Vi confluivano persone mosse da scopi assai diversi. Alcuni per esaudire la profezia biblica di Amos: “torneranno i figli d’Israele, e cercheranno il signore loro Dio, e Davide, loro re, e trepidi si volgeranno al Signore e ai suoi beni, alla fine dei giorni”. Altri, assai più prosaicamente, per usufruire dei benefici fiscali concessi. La prossimità dei villaggi palestinesi agli insediamenti creò fin dall’inizio tensioni, scaramucce, quando non veri scontri. Senza che questo potesse dissuadere dal progressivo aumento delle comunità, edificate sempre più in profondità nella Giudea e della Samaria, i nomi storici della Cisgiordania. Comunità collegate da strade in cui è permesso l’accesso ai soli ebrei e protette da un massiccio apparato di sicurezza garantito da Tsahal, l’esercito israeliano.

Forte della propria crescita esponenziale, il movimento dei coloni ha cominciato ad influenzare pesantemente i governi. E ha espresso leader capaci di mietere consensi come Avigdor Liberman, originario della Moldavia, ex buttafuori di locali notturni, fondatore di Israel Beytenu, il partito di destra popolare soprattutto tra il milione di immigrati russofoni, già pluriministro, tra l’altro, degli Esteri, della Difesa e degli Affari Strategici. O Naftali Bennett, il ricchissimo figlio di ebrei liberal di San Francisco, ex capo dello staff di Netanyahu, poi uscito dal Likud per fondare una sua formazione, la Casa Ebraica, e dunque diventare titolare di due dicasteri chiave come quello dell’Economia e dei Servizi Religiosi.

La ramificazione a pelle di leopardo delle colonie ha reso sempre più complicato arrivare a un trattato di pace nella Terra Santa martoriata perché si è consolidata, sul terreno, una situazione di fatto in grado di ricattare qualunque esecutivo e di impedire ogni mediazione.

L’ultimo premier che cercò di bloccare la proliferazione delle colonie e anzi di smantellarle fu quello all’apparenza meno pronosticabile: il guerriero Ariel Sharon. Preoccupato della forte crescita demografica dei palestinesi e desideroso di arrivare finalmente a un accordo che desse a Israele dei confini certi oltre alla tanto agognata sicurezza, promosse, nel 2005, il ritiro unilaterale di 7.000 coloni dalla Striscia di Gaza. Settemila coloni che vivevano, si può immaginare tra quale protezione militare, in un mare di un milione e mezzo di arabi. L’iniziativa provocò lo psicodramma collettivo per una parte di connazionali che lo considerarono senza mezze misure un traditore. Arrivarono, da tutto il mondo, migliaia di manifestanti messianici, solidali con le persone che dovevano essere sgomberate. Le operazioni si svolsero in un clima di tensione tra fratelli ma alla fine riuscì.

L’idea di Sharon era semplice. Se si voleva conservare l’ebraicità dello Stato si doveva garantire il fatto che questo fosse più piccolo rispetto a quello vagheggiato dagli estremisti e che dovrebbe svilupparsi tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Più piccolo ma etnicamente omogeneo. Per completare il suo progetto subito dopo l’operazione Gaza annunciò un piano per il ritiro di 70 mila coloni dagli insediamenti della Cisgiordania più lontani dalla linea verde del 1967, salvo mantenere il controllo su Ariel e sulle colonie nei dintorni di Gerusalemme e di Hebron. I palestinesi sarebbero stato ricompensati con degli scambi territoriali. Al solo accenno di questa ulteriore “dolorosa concessione”, come venne definita, si scatenarono le polemiche.

Sharon era determinato ad andare fino in fondo: sapeva di essere l’unico leader, grazie al suo prestigio, in grado di poter guidare un’operazione tanto complicata. Uscì per questo dal Likud che osteggiava l’iniziativa e fondò un nuovo partito di ispirazione centrista, Kadima (significa “Avanti”). Un mese dopo fu colpito da un ictus e in seguito da un’emorragia cerebrale, entrò in coma senza mai più riprendersi, fino alla morte nel gennaio del 2014.

Scomparso Sharon dalla scena politica, il piano di ritiro dalla Cisgiordania non fu mai più preso un considerazione. La soluzione dei due Stati che aveva abbracciato accantonata. Domina lo status quo, l’occupazione perenne dei territori. Sulla quale ora Donald Trump ha messo il suo sigillo.

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