Christophe Lafontaine Israele espelle lavoratrici irregolari con i figli

Sono soprattutto lavoratrici filippine dal permesso di soggiorno ormai scaduto al centro di una campagna di espulsioni messa in atto nelle ultime settimane dalle autorità israeliane. Proteste e distinguo.
«Ho vissuto tutta la mia vita in Israele». «Bibi (soprannome comunemente dato al primo ministro israeliano – ndr) non abbiamo altro posto dove andare, per favore lasciaci restare!». Slogan come questi sono stati letti durante le manifestazioni della scorsa settimana di fronte agli uffici del ministero dell’Interno a Tel Aviv, all’aeroporto Ben Gurion o a Gerusalemme, di fronte alla residenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, contro l’arresto – in vista dell’espulsione dal territorio israeliano – di diverse lavoratrici filippine e dei loro figli nati e cresciuti nel Paese. I visti di lavoro un tempo ottenuti sono ormai non più validi, sia per il superamento della scadenza, sia perché le donne sono rimaste incinte e hanno partorito. Secondo le norme israeliane vigenti in casi simili i permessi di soggiorno si estinguono automaticamente.
Diverse manifestazioni di protesta hanno già avuto luogo negli ultimi mesi, in particolare a febbraio, quando è stato organizzato uno «Shabbat filippino» che ha riunito oltre un migliaio di persone, tra le quali anche bambini che frequentano il catechismo presso il vicariato per i cattolici di lingua ebraica del Patriarcato latino di Gerusalemme.
La campagna d’estate
Secondo la stampa locale, l’Autorità israeliana per la popolazione e l’immigrazione ha in programma di espellere quest’estate un centinaio di persone e ha così iniziato i primi arresti una decina di giorni fa. È del 29 luglio la prima espulsione di una donna filippina, rimasta illegalmente in Israele dopo la scadenza del suo visto per motivi di lavoro. La signora è stata rimandata nelle Filippine con il suo bambino di 11 mesi. Il 30 luglio un tribunale ha respinto l’appello di un’altra cittadina filippina che si opponeva all’espulsione con i suoi due figli di 10 e 5 anni. La piccola famiglia ha 45 giorni per lasciare il suolo israeliano. Il ricorso in tribunale aveva la valenza di test per le decine di altri lavoratori stranieri e i loro figli per i quali si prospetta l’espulsione. Il rischio di dover partire non è più solo una minaccia; si sta materializzando. Da parecchio tempo, osservano i media israeliani, le autorità competenti non procedevano alle espulsioni.
La maggior parte di questi lavoratori – presenti anche in altre nazioni prospere del Medio Oriente – sono rimasti in Israele in media per oltre 15 anni, trovando impiego (regolare o meno) soprattutto come badanti o collaboratori domestici. In Israele se ne contano circa 60 mila, per lo più donne. La metà proviene dalle Filippine, secondo i dati del ministero degli Esteri filippino, e per tre quarti sono cristiani. L’altra metà proviene da Nepal, India, Sri Lanka, Moldavia e altri Paesi dell’Europa orientale.
Sradicati
Pur con i visti scaduti, molte donne sono rimaste in Israele con i bambini che hanno dato alla luce qui. Nonostante i natali in Israele, questi minori sono privi di status legale nel Paese e rischiano l’espulsione con le loro madri. Sono piccoli inseriti nel sistema scolastico israeliano grazie al quale hanno imparato l’ebraico come lingua madre. Non sanno praticamente nulla del Paese d’origine delle loro madri (o genitori). Al trauma dell’arresto e dell’espulsione, per loro si aggiunge quello dello sradicamento proprio mentre sbocciano alla vita.
Già in primavera i funzionari dell’immigrazione hanno avvisato le persone titolari di visti scaduti di prepararsi all’espulsione imminente, fissata al più tardi per l’estate, una volta terminato l’anno scolastico dei loro figli.
Nel 2006 e nel 2009, il ministero dell’Interno aveva già minacciato di espellere centinaia di bambini nati in Israele i cui genitori avevano superato le scadenze del visto per motivi di lavoro. Ne era nata una protesta pubblica che nel 2010 aveva portato alla decisione di concedere, per ragioni umanitarie, a un migliaio di bambini nati prima del 2004, e quindi in età scolare, uno titolo legale di residenza che consentisse loro di restare nel Paese. Una volta cresciuti, molti di quei ragazzi hanno prestato il servizio di leva, ottenendo così la cittadinanza israeliana, riferisce il quotidiano The Times of Israel. Da allora non è più stata presa alcuna decisione simile. «I bambini [stranieri] che all’epoca erano troppo piccoli per beneficiare di quelle misure ora chiedono un analogo riconoscimento per non essere espulsi verso un Paese che non hanno mai visto prima», sottolinea il quotidiano Haaretz. Molti di loro sono «ragazzi e ragazze di 11 o 12 anni» che «hanno paura e chiedono il diritto di vivere qui, come tutti gli altri. Sperano di dare il meglio di sé nel Paese in cui sono nati», annotava lo scorso febbraio il vicariato per i cattolici di lingua ebraica.
Si schierano i politici
Al di là delle proteste di piazza, ci sono politici – come l’ex primo ministro Ehud Barak e alcuni sindaci dei comuni dove vivono i filippini arrestati di recente – che si oppongono a questa ondata di espulsioni. Il capo del partito di sinistra Meretz, Nitzan Horowitz, ha commentato gli arresti su Twitter: «Questi bambini sono nati qui e il loro unico “crimine” è quello d’esser stati partoriti da una madre filippina». Il Jerusalem Post riferisce che i parlamentari di Meretz si dicono pronti ad «aprire le loro abitazioni private a qualsiasi bambino filippino o famiglia filippina minacciata di espulsione dal Paese». I deputati fanno affidamento sull’immunità di cui godono per impedire che bambini e genitori vengano arrestati dalla polizia.
Più sorprendentemente ancora, Rafi Peretz, ministro della Pubblica Istruzione e leader del partito La casa ebraica (un raggruppamento nazionalista di destra di matrice religiosa) ha chiesto, tramite il suo capo di gabinetto, al ministro dell’Interno «di prendere seriamente in considerazione» la possibilità di lasciare che i bambini rimangano in Israele, considerando che sono ormai integrati nella società israeliana da molti anni. «Ciò non contraddice il fatto – chiosa Peretz – che dobbiamo trovare buone soluzioni per farli uscire dal Paese. Finché sono qui, però, dobbiamo prenderci cura del loro benessere, soprattutto per bambini e neonati». Il punto di vista di Rafi Peretz contrasta con quello del numero due del suo partito, Bezalel Smotrich, che ha ribadito il suo sostegno agli sfratti.
L’organizzazione Bambini uniti di Israele (United Children of Israel), formata da lavoratori migranti e madri filippine, ha raccolto messaggi di sostegno da parte di membri della società civile – spesso anziani o persone non autosufficienti – che ricorrono ai servizi di personale filippino (in prevalenza donne, ma anche uomini) il quale, secondo l’opinione di molti israeliani, svolge un lavoro quotidiano molto utile ed apprezzato
31 luglio 2019  Christophe Lafontaine

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