Marco Revelli La morte dell’anima e lo sguardo dell’hater


La morte dell’anima e lo sguardo dell’hater






Un’immagine mi ha colpito di recente, come una mano che ti afferra alla gola, o uno schiaffo che risveglia bruscamente. È un volto terribilmente nudo. Privo di emozioni. È posto leggermente obliquo, piegato verso il basso. Il capo, coperto da un cappellaccio scuro attraversato da una freccia e ornato da un distintivo d’argento, spicca sullo sfondo ocra al di sopra di una casacca rossa su cui è appuntata una spilla a forma di balestra. Le labbra sono una linea sottile. Una leggera barba vela la guancia destra. Il naso carnoso ha una volgarità plebea. Ma è soprattutto lo sguardo che colpisce, parzialmente velato dalle palpebre appesantite: è uno sguardo inerte, senza traccia di bagliori, come se guardasse il nulla o, peggio, una cosa indifferente: “un” nulla. Da esso non trapela alcun segno, non solo di misericordia, ma di qualsiasi sentimento. È come se provenisse da un luogo vuoto, deserto di ogni interiorità. Come dire? «Da una cosa».
Il quadro, di piccole dimensioni (appena 28 centimetri per 21) è esposto nella sala 81 del Prado a Madrid col titolo “El ballestero“, ed è attribuito a Hieronymus Bosch, il pittore che, come ha scritto frate José de Sigüenza – uno che se ne intendeva, storico, poeta, teologo, inquisitore, primo priore del monastero dell’Escorial dove erano ospitati molti dipinti di Bosch – «solo, ebbe l’ardire di dipingere l’uomo come è dal di dentro» mentre tutti gli altri si limitavano «a ritrarlo come è dall’esterno». Ed è questa osservazione che mi ha fatto capire perché quell’immagine non solo mi avesse colpito così profondamente, ma continuasse a perseguitarmi come un’ossessione, persino nel sonno: perché era la rappresentazione fisica, materializzata, di quell’entità astratta eppure così potente, che chiamiamo odio. Anzi, di un particolare tipo di odio (potremmo forse considerarlo “puro”): l’odio secco (senza “umori”). Scevro da passioni “umane” e da motivi dichiarabili.  Come dire?  L’odio come stato naturale dell’essere. Non l’odio della vittima verso il suo aggressore. O l’odio dell’amato tradito: l’odio che confina con l’amore, o meglio come risvolto dell’amore, l’odio “nella” relazione (l’odio dell'”umano troppo umano”). Ma l’odio senza soggetto (senza interiorità da parte di chi lo prova). L’odio come “cosa”. O condizione reificata (tra “cose”): l’odio senza relazione… È l’odio che il Male prova verso il Bene per il solo fatto della diversità. Che la bruttezza prova per la bellezza. Che l’ottusità prova per l’intelligenza. Che il vuoto prova per la pienezza, per il solo fatto che quella è ciò che gli manca. È l’odio che vediamo ritornare carsicamente oggi (di qui la ragione della mia ossessione: quello sguardo è lo stesso che ci restituiscono i nostri monitor quando vi compare il volto “nudo” di Matteo Salvini tra i tanti politici haters come lui, e che incontriamo ogni giorno per strada nelle sue infinite rizomatiche incarnazioni).
Studi successivi, con la tecnica dell’analisi dendrocronologica (volta a misurare con certezza la datazione del supporto ligneo) attribuiranno “El ballesteroalla scuola di Bosch più che direttamente al Maestro, ma gli stessi studi permettono di risalire al prototipo di quel volto, questo sì attribuibile con certezza a Bosch, e ben visibile nella celebre Incoronazione di spine (detta anche Cristo deriso) esposta alla National Gallery di Londra e databile al 1485: il balestriere è uno dei quattro sgherri che circondano Cristo (è quello in alto a destra) e gli impongono deridendolo l’umiliazione della corona di spine. Indossa lo stesso cappellone di laniccio nero, su cui è appuntato un rametto di quercia anziché lo stemmino, ha anch’egli il capo leggermente piegato verso il basso, verso la sua vittima a cui cinge con un braccio le spalle e che osserva con la stessa espressione vuota, d’indifferenza assoluta, attraverso le medesime palpebre pesanti, a labbra serrate (unica differenza: porta al collo un collare chiodato, come i mastini feroci e la tunica è nera) mentre tiene nell’altra mano un bastone. Al di sotto di lui, sempre sul lato destro, un aguzzino alza le braccia per chiudere il sudario, mentre sul lato sinistro un giannizzero dal braccio coperto dalla corazza pone sul capo del Cristo la corona di spine e, più sotto, un quarto uomo, più anziano, lo guarda «con fissità malsana».
Il “personaggio del Prado” è dunque un crocifissore di Cristo. Uno dei suoi derisori. Esso comparirà anche, come particolare, in altre opere di Bosch, sicuramente nella Salita al Calvario di Madrid, datata 1498 (sta subito dietro all’uomo con la corda, con lo stesso copricapo e lo stesso stemma), e forse, minuscolo, è riconoscibile nell’uomo solo affacciato dal posteriore squarciato dell’Uomo-albero del Giardino delle delizie… Ma è sicuramente l’Incoronazione di spine la “sua” opera: quella in cui trova il suo ruolo e si rende evidente la sua “natura”, costituendosi come prototipo di un’infinità di riproduzioni “di scuola”, nelle quali, tutte, “quel” volto ritorna, con gli stessi tratti e gli stessi colori del “ritratto” del Prado, dal Trittico della passione di Valencia al celebre Christ crowded with thorns with donor di Anversa, in copia anche a Filadelfia, Huston, Bruxelles, Digione, Berna, fino al medaglione di Rio. In quella composizione straordinaria per potenza evocativa Bosch non aveva inteso solo riprodurre un episodio della “storia sacra” – un singolo caso, estremo, di malvagità umana – ma rappresentare una condizione universale del mondo, o meglio del suo tempo “caduto”, pervaso da un male generale che sembra aver spento “l’umano”, disseccate le fonti…
Lo descrivono, quel vuoto “cosmico” creatosi tra l’uomo e l’uomo, la disposizione delle figure, il gioco dei colori e della luce, la disseminazione sapiente dei simboli e, appunto, la posa e soprattutto gli sguardi dei “protagonisti”. Si pensi all’espressione del Cristo, intensa nella sua serenità – destinata com’è a «rivelare i tratti divini della figura umana creata a immagine e somiglianza di Dio (Genesi I, 26-27)» –, per differenza da quella dei suoi aguzzini (che quel soffio divino dell’umano hanno perduto), inerte pur nell’aggressiva ostilità: «Cristo – è stato annotato da uno dei più stimati interpreti dell’opera pittorica di Bosch, Stefan Fischer – è passivo all’esterno e attivo all’interno, mentre le sue guardie sono attive all’esterno ma interiormente morte» [Hieronymus Bosch. L’opera completa]. È la perfetta rappresentazione iconica di una “umanità ideale” presa in ostaggio dal suo stesso lato oscuro, dalla sua “Ombra” direbbe Carl Gustav Jung. Al medesimo modo la disposizione spaziale della composizione, costruita da una raffinata regia nella polarizzazione tra il centro interamente occupato dal Salvatore mentre i suoi persecutori presidiano in cerchio tutte le parti periferiche, parla di una drammatica scissione dell’umano (o “dall’umano”): quella del Cristo è l’unica figura posta frontalmente, mentre gli altri quattro sono ritratti o di profilo o in posizione obliqua; quello di Gesù è il solo sguardo “diritto”, volto a guardare negli occhi l’osservatore del dipinto andando “oltre” il quadro, quasi a cercare, nella sua solitudine, lo sguardo di un’umanità postera, futura e diversa da quella – irrimediabilmente perduta – dei contemporanei, mentre gli occhi dei suoi derisori sono sfuggenti, non si lasciano interrogare, men che meno “incontrare”…  Il colore infine: il bianco del sudario, brillante e caldo, stacca rispetto alle tinte contrastanti (verde-rosso-blu) e opache dei bruti che lo circondano [è ancora Fischer a sottolinearlo], quasi che la luce dell’empatia tra l’uomo e l’uomo fosse tutta rifluita fuori da essi, verso la figura centrale, l’unico essere “umano” rimasto (l’Ecce Homo!), quello destinato a salvarne – in croce – la traccia…
Dunque è così. Lo sguardo di un Matteo Salvini e dei tanti e tanti come lui oggi, dei costruttori di muri, dei sigillatori di porti, dei dipanatori di filo spinato (di quelle stesse spine di quell’originaria corona di dolore), degli inquisitori della solidarietà e dei persecutori di chi salva, è lo stesso dei crocifissori di Cristo, dei suoi derisori e incoronatori di spine, insomma, degli spregiatori della “umanità dell’uomo”, come li vide un pittore visionario alla fine del XVI secolo. In un tempo, cioè, solo in apparenza abissalmente lontano dal nostro, in realtà ricco di assonanze, a cominciare dal suo essere un “tempo sospeso” tra due mondi (“e tra due ere”, canterebbe Guccini): tra un’età feudale ormai esaurita e una modernità non nata. Tra il mondo statico nella sua dimensione di hortus conclusus a scorrimento lento e ciclico che era ormai finito e l’universo dalla spazialità esplosa e dalla temporalità lineare della neu-zeit, del moderno non ancor incominciato, cosicché nella terra di nessuno apertasi tra quel “non più” e “non ancora” poteva irrompere tutto il repertorio del lato oscuro dell’umanità, con la potenza pervasiva dell’Ombra a lungo controllata dal Cristianesimo e ora libera di serpeggiare contagiosa come i bacilli della peste diffusa dalle guerre secolari.
Può sembrare visionario e allucinatorio – psicotico – il «mondo di Hieronymus Bosch, popolato di mostriciattoli e di demoni, streghe e fattucchiere, mostruose creature del male e bizzarre metamorfosi di una natura sconvolta, quasi che la cifra dell’artista fosse l’esasperato uso di “grottesco” e “drolerie” per soddisfare un  gusto popolare e plebeo. Ma in realtà, la sua, è la rappresentazione terribilmente fedele (e “alta”) di un immaginario condiviso ed egemonico in un mondo in cui il male (il “disordine”) è giunto a contaminare capillarmente ogni interstizio della vita e, appunto, “niente è più vero” e “tutto vacilla”: la corruzione giunge a conquistare il cuore stesso dell’istituzione posta a guardia della virtù (la Chiesa), il sapere si perverte e tradisce chi lo coltiva,  il peccato sembra governare le città mentre le cose si ibridano con le persone, l’animalità con l’umanità, il celestiale con l’infero, nella disseminazione di uomini dal corpo d’insetto (i cosiddetti grillen), bestie dal corpo di strumento musicale, abitazioni dalle sembianze corporee, demoni col saio monacale e monaci dal ghigno demoniaco. È il mondo in cui non si distinguono più le persone dalle cose. Anzi ognuno tratta ogni altro come “cosa”. È, in questo, assai simile al mondo in cui siamo tornati a precipitare oggi. Anche questo – “nostro” – mondo, sospeso tra un non più e un non ancora. Anche questo ammalato di “indifferenza”, non solo nel senso dell’assenza di “Sentimento” ma in quello di assenza di “confine”, di delimitazione tra umano e disumano, oggetto e soggetto, cosa e persona. Affetto da quella medesima sindrome terminale che porta a trattare ogni altro essere vivente come materiale inerte da usare e gettare o distruggere e smaltire.
È quanto uno psicanalista nostro contemporaneo dallo sguardo profondo quasi come quello di Hieronimus – Luigi Zoja – ha chiamato La morte del prossimo, vedendo in essa il passo successivo alla nietzscheana “morte di dio”, e ricollegandola, come già si è visto a proposito della rappresentazione crudele di Bosch, allo sguardo e agli “occhi degli altri”. «Dopo la morte di Dio, – scrive infatti, – la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli sta vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società guardare i morti causa turbamento». In realtà il prossimo aveva incominciato a morire assai presto, pochi, pochissimi anni dopo la proclamazione filosofica della morte di Dio, nel secondo decennio del Novecento, con la strage industrializzata della Grande guerra, e ancora, un quarto di secolo più tardi, con l’apertura dei cancelli di Auschwitz, fabbrica meccanizzata della morte di massa, dove mai come prima gli uomini furono “lavorati” come cose. E dove con il medesimo sguardo inerte dei derisori di Cristo si praticò l'”odio secco” – l'”odio senza soggetto” o senza la coscienza di questo – predicato da Hitler quando nel suo Mein Kampf scriveva che «dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con la coscienza pulita, dobbiamo distruggere in maniera tecnico-scientifica», come negli inceneritori si smaltiscono “scientificamente” i rifiuti, o negli altoforni si fondono i rottami. La si vide, la si toccò e la si patì dunque, come una nuova peste nera, quella morte del prossimo. Ma si pensò che quello fosse un unicum, un terribile incidente della Storia: una sorta di caso d’eccezione, irripetibile nella sua abissale inumanità. Invece ce la ritroviamo di fronte – e dentro – quella indifferenziazione tra persone e cose che si fa indifferenza per l’altro – ogni altro – e costituisce la curvatura interiore della morte del prossimo, oggi, peste silenziosa, senza più nemmeno il frastuono del delirio ideologico, al polo opposto dell’eccezione, come normalità. Stato normale dell’essere. Zoja ci dice appunto che «col volgere del secolo XX in secolo XXI» si è superata anche la seconda soglia dopo quella della morte di Dio, si è consumata pienamente la morte del prossimo: l’«uomo metropolitano» – non l’uomo accecato da ideologie perverse, non l’uomo travolto da una qualche utopia negativa, ma l’uomo “normale” che abita lo spazio centrale dell’universo contemporaneo, quello in cui risiede egemone lo spirito del mondo – «si sente sempre più circondato da estranei». Non porge più lo sguardo all’altro – non lo “guarda” come fosse un uomo – e non è “visto” (come tale) dall’altro. È l’uomo che ha smarrito anche l’ultimo briciolo di empatia. Che ha fatto dell’egoismo da vizio che era una virtù teologale.

Difficile dire dove e quando abbia avuto inizio quella “lunga marcia” dell’estraneità egoistica ed egocentrica verso la sua attuale egemonia (intesa, per citare Luciano Gallino, come «potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti»). Forse già nel 1947, come scrive lo stesso Gallino, sulle pendici di «una montagnola svizzera», il Mont Pelerin, dove un gruppetto di economisti allora relativamente controcorrente (Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Maurice Allais…) aveva fondato la Mont Pelerin Society (MPS), un think tank votato all’affermazione di un credo assoluto incentrato sulla minimizzazione dell’intervento dello Stato, sulla piena libertà di circolazione dei capitali e soprattutto su un individualismo atomistico e assoluto che riduce l’uomo a mero soggetto economico e ne cancella il legame sociale in nome della competitività per l’utile. O forse nel 1987 quando Margareth Thatcher, sintetizzando quel dogma, proclamò che la società non esiste, esistono solo individui («There is no such thing as society. There are individual men and women»), e disvelò ufficialmente e pubblicamente il nuovo statuto del mondo entrato ormai compiutamente nell’epoca della “finanziarizzazione”: di quella forma estrema e probabilmente terminale del capitalismo in cui (è ancora Gallino che parla) domina la «ricerca ossessiva di sempre nuovi campi della vita sociale, dell’esistenza umana e della natura da trasformare il più rapidamente possibile in denaro».
Allo stesso modo si potrebbe ragionare a lungo sulle cause di questa (nuova) caduta agli inferi dell’in-humanitas. Zoja ad esempio insiste molto sull’immane impatto sulla condizione umana della rivoluzione tecnologica di fine millennio, intreccio di informatica e telecomunicazioni, rappresentazione digitale e velocità comunicativa. In sostanza virtualità e accelerazione, la prima a rendere presente l’assente (il lontano), la seconda a rendere assente il presente (il prossimo), con gli inevitabili corollari: l’inflazione della distanza, la smaterializzazione dei corpi, la saturazione dello spazio di prossimità da parte di icone più che di persone, il sovraccarico di stimoli che si trasforma in azzeramento dell’emozione, l’assunzione della tecnica a pressoché esclusivo fattore di mediazione tra gli uomini. E in un mondo in cui la quasi totalità delle relazioni umane è mediata dalla Tecnica «il prossimo smette presto di consegnarci sfumature umane, e quindi di emozionare». Finisce per apparire un avatar come gli altri, sia che si accoppii in ogni posizione su youporn o che crepi sgozzato da un tagliagole di Daesh in un sito jihadista o ancora che affoghi a qualche miglia dalle nostre coste tra i relitti di un barcone. Lo spettacolo indifferenziato della passione del prossimo (le infinite ostensioni di sé degli altri e le infinite salite al calvario del prossimo) si traduce – per la smaterializzazione del contesto – nella comune indifferenza. Nell’estinzione della com-passione. E se ancora nel cuore nero del Novecento poteva accadere che presenziando a un massacro Himmler si sentisse male, oggi nessuno si stupirebbe se un ministro della Repubblica, di fronte all’immagine in diretta di un naufragio, non trovasse altro di meglio che sparare un tweet d’irrisione dei “taxisti del mare”… Oppure, nella ricerca delle cause, si può puntare il dito sulla epocale sconfitta del lavoro, che si è consumata quasi silenziosamente negli ultimi decenni del secolo scorso, con la “reconquista” da parte del padronato del territorio sociale perduto nel precedente ciclo economico e conflittuale (il cosiddetto ciclo fordista) e con la cancellazione non solo delle conquiste sociali ottenute dai lavoratori ma della stessa immagine del Lavoro come forma di status, titolo di legittimazione della cittadinanza, struttura materiale di una relazionalità cooperativa. Quel ruolo è stato azzerato dai grandi processi di smaterializzazione della produzione sociale, dalla decostruzione dei giganteschi stabilimenti industriali, dalla delocalizzazione dei processi, dalla polverizzazione della forza-lavoro. E sostituito da un’altra entità, più astratta, meno coesiva, ma anche più pervasiva. Non più il Lavoro ma il Denaro è diventato il grande mezzo di mediazione tra gli individui, il numeratore del loro valore e il marcatore delle loro (effimere) reciproche relazioni. E anche questo è un pezzo di quel dispositivo non solo ideologico, ma pratico-operativo, che chiamiamo per semplicità neo-liberismo. O finanz-capitalismo.
Sta di fatto che con l’affermazione di quel paradigma non solo economico ma antropologico-culturale nella forma del «pensiero unico» si è compiuta la piena decostruzione del «soggetto umano» con la radicale riduzione della «persona» all’«individuo», per dirla con Emmanuel Mounier, laddove, nel lessico della corrente di pensiero da lui fondata e chiamata appunto «personalismo», per «persona» si intende l’uomo «in relazione» – l’uomo integrato nella rete dei suoi rapporti sociali nel quadro di una consapevole reciprocità – mentre l’«individuo» è, appunto, l’uomo (non più pienamente tale) nella sua incomunicante solitudine, condannato alla dura pena di un’esistenza alienata («la desolazione dell’uomo senza dimensione interiore, incapace di incontri») e alla mediocrità spirituale («l’uomo che ha perso il senso dell’Essere e che si muove solo fra cose, e cose utilizzabili, private del loro mistero»). Un’esperienza “estrema”, o comunque liminare, per il Mounier degli anni Trenta e per i combattivi collaboratori di “Esprit”, convinti che quella fosse una battaglia ancora tutta da combattere e da poter vincere. L’esperienza “quotidiana” dell’uomo comune oggi, che considera la propria alienazione normalità e la propria mediocrità spirituale vita.
Lo sguardo inerte del “ballestero” che ci osserva da tutti i monitor e ci rimbalza dagli occhi sfuggenti del nostro prossimo morto ci dice che quella battaglia è stata combattuta e persa. Che nel mondo dell’individualismo assoluto prodotto dalla controrivoluzione neo-liberista l’antropologia prevalente – per lo meno la più pervasiva – è quella dei derisori di Cristo. E che se non si saprà ricostruire una sia pur embrionale e rizomatica rete di “persone” – donne e uomini capaci di relazione –; se non si saprà, cioè, spezzare il maleficio di quel paradigma letale che ha disseccato le fonti interiori della socialità e del legame oltre che le basi materiali di un’economia sostenibile – questi potrebbero essere davvero “gli ultimi giorni dell’umanità”.

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