Teatro sociale per curare una Palestina divisa


 
 
 
 
 
Assistiamo alla radicalizzazione del conflitto in Israele e Palestina ma è possibile immaginare e agire la politica in modo diverso?
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Assistiamo alla radicalizzazione del conflitto in Israele e Palestina ma è possibile immaginare e agire la politica in modo diverso? Hamudi Dabdoub, attore e teatroterapeuta palestinese, e Guido Veronese, membro di Psychologists for Human Rights ci parlano del ruolo dell’arte come catalizzatore del cambiamento sociale
Foto del Summer Camp 2013 (foto di Psychologist for Human Rights)
Summer Camp 2013 (foto di Psychologist for Human Rights)
di Silvia Hassouna
dal Workshop all’università di Milano-Bicocca
Milano, 2 maggio 2016, Nena News – Hamudi Dabdoub, del Freedom Theatre di Jenin fondato dall’attivista israeliana Arna Mer Khamis, ha recentemente tenuto un workshop di tre giorni con gli studenti dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Organizzato da Psychologists for Human Rights, il workshop era rivolto a psicologi, operatori sociali, attivisti culturali e studenti interessati ad approfondire le tecniche teatrali del Playback Theatre, esplorando la relazione tra movimento e stato psicologico e lavorando sulle rappresentazioni collettive attraverso improvvisazioni teatrali.
Psychologists for Human Rights si occupa di promuovere i diritti umani attraverso l’arte, l’istruzione, coinvolgendo le comunità palestinesi in difficoltà, soprattutto i giovani. Il workshop è parte di una più ampia scuola di teatro terapeutico partecipato, dove l’arte emerge come strumento di mobilitazione per la comunità e di elaborazione di traumi collettivi. Quando gli chiedo cosa si aspetta da questa esperienza con gli universitari italiani Hamudi risponde: “Vorrei insegnare ai ragazzi delle tecniche che li aiutino a esprimersi con il corpo e a divertirsi nel farlo. Spero anche che gli studenti s’interessino alla storia della Palestina, voglio che sappiano qualcosa della mia cultura”. Gli esercizi teatrali, incentrati sulla relazione con se stessi e con gli altri, esplorano l’avvicinamento all’altro, l’accettazione del disagio dell’esistere in uno spazio, il superamento di barriere relazionali. Nello spazio di tre giorni Hamudi ha imparato un po’ di italiano e gli studenti, inizialmente un po’ timidi, dicono di essersi sentiti sempre più coinvolti e di essere entrati in contatto con sensazioni nuove.
 Momenti del workshop nel campus dell'università degli studi di Milano-Bicocca (foto di Silvia Hassouna)
Momenti del workshop nel campus dell’università degli studi di Milano-Bicocca (foto di Silvia Hassouna)
Il Freedom Bus: superare le barriere spaziali attraverso l’arte e il movimento
Parlando con Hamudi scopro che è nato in un villaggio nei pressi di Akko, considerata a lungo la “chiave della Palestina” per la sua posizione fortificata e dominante (noi la conosciamo come Acri, o Tolemaide), e che Napoleone non riuscì mai a conquistarla e fece marcia indietro, stremato. Scopro anche che Hamudi ha studiato all’Università di Haifa e al Tel-Hai College in Israele, ha un Master in drammaterapia e lavora con tossicodipendenti, donne, bambini e famiglie in difficoltà. Quando gli chiedo della sua scelta di diventare attore, Hamudi risponde: “ho sempre sentito di volerlo fare, è un bisogno profondo, lo so da quando avevo 15 anni. Poi, quando ho incontrato a Nazareth gli attori del Freedom Theatre, ho deciso di unirmi a loro. Quello che facciamo è davvero emozionante”.
Il Freedom Theatre è nato nel campo profughi di Janin nel 2006. La storia di questa iniziativa è raccontata dal documentario olandese-israeliano “Arna’s children“, diretto dal figlio di Arna, Juliano Mer-Khamis. Negli ultimi quattro anni, il Freedom Theatre è stato attivo in Cisgiordania attraverso il Freedom Bus, che porta attori e musicisti palestinesi nei villaggi dei territori occupati, per incontrare le storie delle comunità e metterle in comune attraverso improvvisazioni teatrali. L’idea si ispira ai Freedom Riders, gli attivisti per i diritti civili che all’inizio degli anni ‘60 viaggiavano attraverso gli stati del sud negli USA. Hamudi racconta: “In Cisgiordania ci vuole un giorno intero per percorrere brevi distanze. Ogni volta che ci si sposta, si pensa: e se i soldati ci fermano? E spesso accade. Ingorghi ovunque e soldati ovunque. Ma quando arriviamo, stiamo con la gente del luogo e facciamo teatro. È un modo per dire alle persone che non sono sole, che è possibile raccontare, rielaborare e condividere le loro storie col mondo. La questione non è solo descrivere i problemi ma condividerli”. È un modo per produrre testimonianze e nuove narrazioni collettive che aiutino ad affrontare le conseguenze dell’occupazione, superando le barriere sociali e geografiche in Cisgiordania.
Il teatro come strumento di cambiamento sociale non è un concetto nuovo, risale anzi alla Grecia antica. In questo campo, tra le figure più influenti del secolo scorso va ricordato Augusto Boal, scrittore e politico brasiliano che nel 1960 ha fondato il Teatro dell’oppresso (Teatro do Oprimido). Come spiega Guido Veronese: “se si riesce a rielaborare la storia di una persona o di un paese attraverso la recitazione, si è in grado di trarne un nuovo significato. Rielaborare la propria storia e trasformarla in una storia universale è un modo per resistere. Le persone ritrovano, nonostante le continue violazioni dei loro diritti, una sorta di nuova agency. Per noi europei questi progetti rappresentano la possibilità di riflettere sulla nostra realtà sociale e politica: guardando alle difficoltà di altre persone capiamo che anche noi possiamo cambiare”.
 Momenti del workshop nel campus dell'università degli studi di Milano-Bicocca (foto di Silvia Hassouna)
Momenti del workshop nel campus dell’università degli studi di Milano-Bicocca (foto di Silvia Hassouna)
I campi estivi in Cisgiordania
Quando ha conosciuto Hamudi, nel 2010, Guido organizzava già da due anni Summer Camps di arte terapia a Tulkarem. I Summer Camps erano tenuti in inglese e la comunicazione con i partecipanti avveniva grazie all’aiuto di un mediatore. Guido racconta: “Ci siamo conosciuti tramite un amico comune. Sono rimasto impressionato dal modo in cui Hamudi e il suo gruppo lavoravano e interagivano con le persone. Così abbiamo deciso di collaborare. Hamudi e il suo gruppo ci hanno aiutato a superare le barriere culturali e linguistiche che ci dividevano dalle comunità palestinesi. Abbiamo lavorato insieme in tre campi estivi: a Tulkarem, a Betlemme e a Gerico. Ci concentriamo sul rapporto tra Trauma-Narrazione-Resilienza così che i partecipanti riescano a esprimere sogni e aspirazioni. L’anno scorso siamo stati nel campo profughi di Dheisheh a sud di Betlemme, il tema è stato Terra e Sogni” Hamudi aggiunge: “Cantiamo e facciamo esercizi teatrali. Di solito i ragazzi continuano a venire, e giorno dopo giorno si sentono sempre più coinvolti. Le famiglie sono felici di mandare i propri figli e li incoraggiano”. I Summer Camps sono organizzati in collaborazione con ONG locali in contatto con le famiglie dei campi profughi. Il prossimo campo estivo si terrà quest’estate a Gerico, dal 1° al 14 agosto.
Resistenza culturale
Cosa vuol dire esattamente fare resistenza culturale e come si fa? Secondo Hamudi si tratta di trovare il proprio modo di resistere, un modo personale e diverso per ciascuno: “I palestinesi continueranno a resistere all’occupazione; alcune persone resistono con la musica, con l’arte, qualcun altro lanciando sassi. Anche restare dove si è, è un modo per resistere. Che cosa può fare un artista? Resistere attraverso la propria arte. Il teatro è un modo per dire alla gente: questo è ciò che siamo, questa è la nostra cultura, aiutateci a fermare questo apartheid. Il teatro è terapeutico, è un modo per liberare se stessi e sentirsi più potenti. Sento che stiamo aiutando le persone in modo dinamico. Quando mettiamo in scena le storie delle persone assieme alle persone, le aiutiamo a far fronte al dolore attraverso il movimento, la recitazione, le urla, le rielaborazioni narrative e cerchiamo di sconfiggere lo schiacciante senso di frustrazione e oppressione”.
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È ormai evidente che le sorti del conflitto Israelo-Palestinese si determinano prevalentemente sul piano mediatico, dove una narrativa pro-Palestina e una pro-Israele si scontrano continuamente. È dunque possibile pensare un’altra politica? Sì, se sosteniamo la cultura come elemento identitario e fondativo e lasciamo spazio all’auto-espressione, facendo ciò che amiamo (malgrado tutto). Hamudi non indugia su discorsi di politica ma preferisce parlare di ciò che sa e ama fare. Sulla situazione politica in Israele dice solo questo: “Siamo incastrati in un sistema politico che ci mette l’uno contro l’altro. Non credo nelle persone cattive, credo però che ci siano cattivi politici, cattiva informazione mediatica e corruzione. Se le persone sono messe nella giusta condizione, agiranno per il bene. La situazione cambierà: la storia ci insegna che da sempre, in tutto il mondo, i popoli soffrono, e che le cose possono cambiare e cambieranno”.
Questo maggio (dal 12 al 16) Ben Rivers, membro fondatore del Freedom Bus e co-fondatore della scuola araba del Playback Theatre di Beirut, terrà un workshop a Milano alla Casa della Carità sulle tecniche proprie del Playback Theatre e l’improvvisazione, le iscrizioni sono aperte. Nena News
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