Gideon Levy: solo il boicottaggio può cambiare Israele


 
 
 
 
Aluf Benn's proposal for Israel's left to establish a base of domestic support for its positions is hopeless considering the brainwashing, ignorance, blindness, the…
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Internazionale 1152, 6/12 maggio 2016  
, Aluf Benn, invitava a non essere troppo ottimisti sull’efficacia di un boicottaggio contro Israele per la sua occupazione dei territori palestinesi. Sono d’accordo con Benn, ma in ogni caso non possiamo non riconoscere che la strategia Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è l’unico modo per cambiare le cose, l’ultima speranza per ottenere il cambiamento che anche Benn desidera. È l’unico mezzo per impedire a Israele di proseguire con i suoi crimini. L’alternativa è lo spargimento di sangue, che nessuno desidera.
Le sanzioni e il boicottaggio sono lo strumento più legittimo e nonviolento a disposizione (Israele chiede continuamente al mondo di usarlo contro i suoi nemici) e hanno dimostrato di essere estremamente efficaci. Anche chi nutre le stesse perplessità di Benn (e io condivido alcuni dei suoi dubbi) deve ammettere che il direttore non offre alcuna alternativa più realistica. Il suo appello alla sinistra israeliana non ha alcuna speranza di successo, considerando fino a che punto la società sia ormai caratterizzata dal lavaggio del cervello, dall’ignoranza, dalla cecità, dall’amore per la bella vita, dalla mancanza di opposizione e dall’aumento dell’estremismo.
Questa è una situazione criminale che deve essere risolta, non possiamo permetterci di restare immobili in attesa che l’opinione pubblica ci faccia la grazia di cambiare. Non lo farà mai di sua spontanea volontà, e non avrà nessun motivo di farlo finché non pagherà per i suoi crimini e sarà punita. Una nuova vetta di arroganza è stata raggiunta: permettere alla tirannia, all’abuso e all’oppressione di perdurare in nome della democrazia.
Nel suo articolo Benn ipotizza che il mondo possa imporre sanzioni contro Israele. In verità spesso
anch’io ho accarezzato questa ipotesi, che non è altro che l’espressione del profondo desiderio di qualcuno che osserva i peccati ogni giorno e vorrebbe vedere anche la punizione. Quando gli agenti della polizia di frontiera uccidono una donna incinta e suo fratello sostenendo che avevano “lanciato un coltello” e la società reagisce con uno sbadiglio annoiato, cresce il desiderio di punire questa società. Non è un desiderio di vendetta, ma un desiderio di cambiamento. Benn è convinto che il boicottaggio radicalizzerebbe ulteriormente Israele. Ma l’esperienza ci insegna che è vero il
contrario. Israele ha sempre fatto delle concessioni dopo aver pagato un prezzo elevato o davanti a una minaccia. È vero che Cuba e la Corea del Nord non si sono piegate alle sanzioni, ma è altrettanto vero che non si tratta di democrazie e che nei due paesi l’opinione pubblica ha un peso relativo.
Basandoci sulle esperienze passate possiamo ritenere che gli israeliani siano molto più viziati dei cubani o dei nordcoreani. Chiudiamo l’aeroporto internazionale di Tel Aviv per due giorni e poi vedremo quanti sono in favore dell’insediamento di Yitzhar. Imponiamo un visto per qualsiasi breve vacanza all’esterno e vedremo quanti continueranno a usare il motto nazionalista “la terra di Israele per il popolo di Israele”. Per non parlare delle ristrettezze materiali e della crisi economica che spingerebbero inevitabilmente Israele a chiedersi: vale davvero la pena soddisfare questo capriccio dell’occupazione? Siamo pronti a pagare di tasca nostra e a sacrificare il nostro stile di vita per regioni del paese che la maggior parte degli israeliani non ha mai visto e in cui non ha nessun interesse concreto?
Probabilmente la prima reazione a un boicottaggio sarebbe quella descritta da Benn: la società farebbe quadrato e prevarrebbe la linea dura. Ma presto comincerebbero le domande, poi le proteste. Gli israeliani del 2016 non sono fatti per vivere a Sparta e neanche a Cuba. Non accetterebbero di guidare auto degli anni cinquanta e fare la fila per la carne pur di mantenere l’insediamento di Esh Kadosh. Rinuncerebbero all’insediamento di Elkana pur di continuare ad andare in vacanza in Bulgaria, ed è un bene. E se questo dovesse significare che Elkana diventerà parte di un unico stato democratico binazionale, tanto meglio. L’ipotesi che un palestinese come Marwan Barghouti venga eletto a capo del governo non mi spaventa affatto.
Il movimento Bds non ha ancora cominciato ad avere effetti sulle nostre vite. Al momento non esiste una vera guerra economica, ma solo iniziative che stanno cambiando gradualmente il dibattito internazionale su Israele. Ai margini esistono forse elementi di antisemitismo, ma in sostanza si tratta di un movimento di protesta animato da persone che hanno una coscienza e vogliono fare qualcosa. Il declino economico che ne risulterebbe potrebbe arrivare presto, e non sarebbe necessariamente graduale. Nel Sudafrica dell’apartheid a un certo punto gli imprenditori sono andati dal governo e hanno detto: “Ora basta, non si può andare avanti così”. Anche in Israele potrebbe succedere qualcosa di simile. E questo mi dà speranza, perché non vedo nessuna alternativa.






Haaretz Editor-in-Chief Aluf Benn calls on us not to get too enthusiastic about the effects of a boycott of Israel (Haaretz, April 28). I agree with him, but even if we are not enthusiastic about it we have no choice but to recognize that boycott, divestment and sanctions is the only game in town, the last hope for the change that Benn also wants. This is the only means to stop Israel from persisting in its crimes. The only alternative is bloodshed, which no one wants.

Sanctions and boycott are the most non-violent, legitimate means there are (Israel constantly preaches to the world to use them against its enemies) and have been proven effective. Even people who share Benn’s reservations, and I share some of his doubts, must concede that he doesn’t offer a more certain alternative. His proposal for the left to establish a base of domestic support for its positions is hopeless considering the brainwashing, ignorance, blindness, the good life, lack of opposition and increasing extremism of Israeli society.

Because this is a criminal situation, which must not be allowed to persist, we cannot leave it alone until public opinion has the good grace to change. It will never do so of its own accord, it has no reason to do so as long as it is not paying for its crimes and being punished for them. People who claim this have reached a new height of Israeli chutzpah: to allow tyranny, abuse and oppression to go on in the name of democracy.

Benn begins his article by describing a fantasy – that the world imposes sanctions on Israel. The truth is that this is sometimes my fantasy, a manifestation of a primeval desire of someone who sees the sins every day and yearns to see the punishment. When Border Police personnel execute a pregnant woman and her brother claiming that they “threw a knife,” and society yawns in boredom, the desire awakens to shake and punish it. This is not a desire for revenge, but rather for change. Benn believes that a boycott will make Israel harden its position. The past has shown that the opposite is true. Israel has always made the few concessions it did after it paid a heavy price, or in the face of an overt threat.

It is true that North Korea and Cuba did not surrender to boycotts, but they are not democracies and public opinion in those countries carries little weight. The Israelis, based on the experience of the past, are much more spoiled. Close down the international airport for two days and let’s see who’s for the settlement of Yitzhar; demand a visa for every little vacation abroad and let’s see who will say “the Land of Israel for the People of Israel.” And we haven’t even begun to talk about ongoing conditions of shortages and economic crisis that will require Israel to finally ask: Is all this really worthwhile to satisfy an appetite for real estate, is all this worthwhile for the caprice of the occupation, are they prepared to pay out of their own pocket and lifestyle for regions of the country that most people have never even seen and have no real interest in their fate?

The first response to the boycott will be the one Benn describes: Masada, banding together, taking a harder line. But in the blink of an eye the questions will start mounting, followed by protest. Israelis of 2016 are not built to live in Sparta, not even in Cuba, to drive around in cars from the 1950s and stand in long lines for meat in order to keep the settlement of Esh Kadosh in existence. They will sell Elkana to keep Varna, and that’s a good thing. And if that leaves Elkana in a single democratic state, even better. Marwan Barghouti as prime minister of a democratic government doesn’t scare me, Benn.

BDS has not yet begun to lick at our lives here. Meanwhile there is no real economic warfare, rather only movements that are only gradually changing international discourse about Israel. On the edges there are perhaps some elements of anti-Semitism, but it is basically a protest movement by people of conscience who want to do something. Economic decline as a result of it might occur quickly, not necessarily gradually. In South Africa the business community came to the government and said: Enough, this cannot go on. That could happen here too. That actually imbues me with great hope, Benn, I don’t see any other alternative.





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