Robert Fisk Ritornare sulla scena di un crimine di guerra: tra le misere catapecchie di Sabra e Shatila, brilla la speranza

29 febbraio 2016
Sabra e Shatila sono state lo scenario di crimini di guerra. Nel settembre 1982, gli cristiani libanesi alleati di Israele – osservati dalle truppe israeliane che avevano circondato i campi profughi palestinesi – massacrarono   1.700 civili. E’ stato un luogo di orrore e, molto più tardi, di memoria.  La fossa comune  si trova ancora sotto una marea di fango e dietro gruppo   di alberi dove i rifugiati siriani vendono camicie e DVD a poco prezzo. I nomi di Sabra e Shatila sono però oggi associati a una vergogna che nessuno si sarebbe immaginato 34 anni fa.
Lo spaccio  di droga ha ora contaminato i campi – a opera più dei siriani che dei palestinesi – e ci sono stati omicidi e, cosa più tragica di tutte,  prostituzione. Nessuno a Sabra e Shatila nasconde il proprio dolore. Il massacro, il dolore dei sopravvissuti, gli anni di infelicità e l’assedio da parte delle milizie sciite del movimento Amal, che hanno ucciso più palestinesi che israeliani, non hanno stroncato  i palestinesi, ma non ci vuole molto oggi a comprendere la profondità della loro disperazione.
“Che cosa vi aspettate quando una popolazione di rifugiati vive in questa povertà e ha sempre meno denaro?” mi ha chiesto uno dei capi locali del campo, mentre camminavamo negli stretti vicoli – così stretti che le spalle sfregano i muri  su entrambi i lati. “I libanesi non permettono ai palestinesi di lavorare fuori dai campi profughi,  il denaro che invia l’ONU diminuisce sempre di più, alcuni hanno famiglie all’estero che mandano loro dei soldi. Altri non ce le hanno.
L’umo aveva ragione. Dove vivono i rifugiati, arrivano la mafia, i trafficanti di persone, i crudeli e gli avidi prosperano in mezzo al dolore, proprio come in Bosnia dopo la guerra del 1991-1995. I palestinesi arrivarono a Sabra e Shatila nel 1948. Ci sono voluti 70 anni e il massacro del 1982 prima che la vergogna delle droga e della prostituzione toccasse questo luogo. E non è di una portata tale da attirare l’attenzione. Soltanto pochissime donne palestinesi hanno lasciato i campi – devono andarsene per amore dell’onore familiare – si sono spostate in qualche altro posto in Libano, a Jounieh, a nord di Beirut, secondo un funzionario politico nei campi. Essendo stato testimone del massacro del 1982, sono tornato spesso in questo luogo di memorie e di fantasmi, per parlare con i pochi sopravvissuti. Sabra e Shatila sono
appena  a due miglia dalla mia casa di Beirut. C’erano cinquemila palestinesi nei campi nel 1982, forse soltanto 3.000 oggi. Ma un articolo su uno dei giornali locali di  Beirut aveva attirato la mia attenzione. Riferiva che un palestinese di mezza età era stato freddato da due islamisti in motocicletta. Questo significava che il culto dell’Isis aveva infettato perfino Sabra a Shatila? In questo caso, l’Isis era a Beirut.
Nel momento in cui arrivai, mi dissero, no, la notizia del giornale non era vera. Il governo libanese aveva sostenuto che gli assassini erano islamisti, allo scopo di accrescere il loro prestigio dato che avevano arrestato uno degli assassini.  I governi arabi si mettono in fila per dire al mondo in questi giorni che loro combattono l’Isis – nella speranza che l’Occidente darà loro più eserciti e più armi. Ma, anche questa notizia ho scoperto che non era vera.Ahmad Hazineh era un uomo buono e per bene. Non un criminale. Di fatto aiutava a rifornire la sua gente di acqua potabile ed elettricità per una somma pateticamente piccola, ma si mise nei guai con la mafia locale che voleva che raccogliesse più denaro contante dai palestinesi. Ahamad si rifiutò e la mafia lo uccise.
Quando, però, Suehil Natour del Fronte Democratico ed io cominciamo ad aggirarci furtivamente nelle strade  maleodoranti, ci siamo trovati davanti alla rabbia del genere più  schietta . Un uomo di mezza età vide la mia macchina fotografica, balzò fuori dalla sua porta di metallo, con la faccia scura e rugosa.
“Come osate voi due farci delle fotografie?”  urlava, con un altro uomo vicino a lui, tremante di rabbia. “Come osate umiliarci? Sapete che questo posto è pieno di topi e di enormi ratti, che noi viviamo in questa merda e in queste fogne e in questa puzza e che ci sono ladri e droga e prostituzione?” Usò davvero la parola “prostituzione. Comprese  la vergogna. Urlava così forte che Suheil cercò di trattenerlo mettendogli una mano sulla spalla, ma la scostò bruscamente.
Suheil aveva però notato qualche altra cosa. Un poster dedicato a un “martire” palestinese, un uomo ucciso di recente, Ahmad Hazineh, noto anche come Abu Wassem, la cui casa – per una straordinaria coincidenza era vicina a noi – proprio vicino all’uomo che urlava e alla sua compagna. E c’era in piedi, sull’entrata,  una giovane donna, che ascoltava tristemente questo  accesso rabbia urlata nella casa accanto.      .
“Le persone qui sono molto arrabbiate,” disse sorridendo,. “Sì, Ahmad Hazineh era mio padre. E’ morto il 28 gennaio, proprio un mese fa. Era un uomo buono. Aiutava tutti. La mafia lo ha ucciso. Sì, ci sono droga e prostituzione nei campi. Mio padre, però si prendeva cura di mio fratello, di mia sorella e di me e ogni giorno mi diceva che devo essere istruita. Mi mandò a studiare in Inghilterra. Sono stata a Londra e a Newcastle.
E Nirmeen Hazineh, con i capelli scuri e ancora sorridente, parlò di nuovo dell’amore per per suo padre e vide come i nomi “Londra” e Newcastle” – dove, più di mezzo secolo fa, ero un giovane reporter praticante  per il giornale locale – ci avevano commosso. Fu come  se una bella luce fosse stata improvvisamente accesa in mezzo  alle ripugnanti  baracche  di Sabra e Shatila, una luce più intensa di qualunque lampada che suo padre avrebbe potuto accendere quando forniva l’elettricità alla gente. L’inglese di Nirmeen era impeccabile. Parlava della sua speranza per giorni migliori. C’era ancora un po’di giustizia, diceva. Uno dei presunti assassini di suo padre era stato arrestato, un uomo che era ora nella prigione di Roumieh, a nord di Beirut.
Mohamed al-Kasar è stato accusato dell’omicidio e attende il processo. E, naturalmente ho ricordato crudelmente che nessuno dei miliziani cristiani che, davanti agli israeliani, uccisero 1700 dei compagni palestinesi di Nirmeen, era stato mai accusato di nessun crimine. Mi sono poi reso conto che Nirmeen aveva soltanto 26 anni, che il massacro era avvenuto molto più di 7 anni prima della sua nascita, e che, per aver mantenuto per così tanto tempo  la loro identità e la loro  capacità di reagire  in questo luogo abietto per così, i palestinesi devono sopravvivere.



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