Ramzy Baroud : Sinai
5 febbraio 2015
La penisola del Sinai si è spostata dai margini dell’organismo politico egiziano al centro indiscusso dato che l’uomo forte dell’Egitto – il presidente Abdul Fatah al-Sisi – si trova molto indebolito dall’aumento di un’insorgenza che sembra diventare più forte con il passare del tempo.
Il 9 gennaio, un’altra serie di attacchi letali e coordinati, hanno fatto a pezzi la fiducia dell’esercito egiziano, spingendolo ulteriormente in un percorso mortale di una guerra che si può vincere soltanto con sagacia politica, non con armi più potenti.
L’attacco più recente è stato un colpo a un senso di gratificazione durato poco, provato dal regime che credeva che la militanza in Sinai stesse declinando, grazie a una decisa reazione militare che era durata per mesi. Quando il 24 ottobre i militanti hanno compiuto un attacco in molteplici fasi contro un posto di controllo militare nel Sinai, uccidendo 31 persone e ferendone molte, le posizioni del governo e dei media erano molto prevedibili. Hanno dato la colpa agli “stranieri” di quello che era essenzialmente una sicurezza “fatta in casa” e una crisi politica.
Invece di esaminare di nuovo l’intero approccio dell’Egitto alla regione povera del Sinai settentrionale, l’esercito si è mosso per isolare ulteriormente Gaza che dal 2007 è sotto un assedio israelo-egiziano molto rigido.
Quello che è accaduto nel Sinai fin dallo scorso ottobre, è stato prevedibilmente devastante. E’ stato considerato da alcuni come pulizia etnica in nome della guerra al terrore. Migliaia di famiglie sono state costrette a lasciare le loro case e a vederle mentre venivano fatte saltare in aria a notte fonda, e di conseguenza il risentimento è aumentato.
E con il risentimento viene la sfida. Un residente del Sinai, Abu Mussalam ha riassunto l’atteggiamento della sua gente verso la violenza del governo: “Bombardano la casa; costruiamo una capanna. Bruciano la capanna; ne costruiamo un’altra. Essi Uccidono. Noi procreiamo.”
Tuttavia, malgrado un blackout dei media nel Sinai, la scena di devastazione creata dalla campagna militare diventava palpabile. “Usando le ruspe e la dinamite” l’esercito ha distrutto 800 case e ha dislocato fino a 10.000 persone, ha riferito il New York Times. Il portavoce di Sisi ha chiamato i quartieri demoliti “focolai” di terrorismo. Il piano a lungo discusso di una “zona cuscinetto” tra Egitto e Gaza, è stato portato a termine e a un livello più devastante di quanto ci si aspettasse.
Il giornale Jerusalem Post ha citato la pubblicazione egiziana Al-Yom a-Sab’a che ha riferito che “le forze di sicurezza lavoreranno per sgomberare la zona dei tunnel sotterranei che portano a Gaza e raderà al suolo qualsiasi edificio e struttura che potrebbe essere usata per nascondere attività di contrabbando.”
Non è stata però mai trovata alcuna collegamento con Gaza. La logica di tale collegamento, era sconcertante, tanto per cominciare. Attacchi di questo tipo è più probabile che peggiorino la brutta situazione di Gaza e che rendano più rigido l’assedio, dato che i tunnel servono come ancora di salvezza importante per i palestinesi assediati. Se gli attacchi hanno un messaggio politico, sarebbe un messaggio che serve gli interessi dei nemici di Gaza, cioè Israele e le fazioni palestinesi rivali, per esempio, ma non Hamas.
Ma non importa, Sisi che raramente si è fermato a considerare l’estrema povertà del Sinai e la negligenza quasi totale del Cairo, è stato svelto a puntare il dito. Poi ha invitato gli egiziani a ‘rendersi conto di quanto viene escogitato contro di noi. Tutto quello che ci succede ci è noto, ce lo aspettiamo e ne abbiamo parlato prima del 3 luglio,” ha detto, riferendosi al giorno che i militari hanno rovesciato Mohammed Morsi.
In un discorso trasmesso alla televisione, ha incolpato le “mani straniere” che stanno “tentando di prendere di contropiede l’Egitto”, promettendo di combattere l’estremismo in una campagna a lungo termine. Considerando la rabbia che ribolle e il dolore che provano gli egiziani, gli attacchi sono stati un’occasione per ottenere un mandato politico che permetterebbe a Sisi di intraprendere qualsiasi politica militare che vada bene per i suoi interessi nel Sinai, iniziando con una zona cuscinetto con Gaza.
In attesa dei corpi dei soldati morti, all’aeroporto militare del Caito, Almaza, Sisi ha parlato di una ‘grande guerra’ che il suo esercito sta combattendo nel Sinai. “Questi incidenti violenti sono una reazione ai nostri tentativi di combattere il terrorismo. Il tributo pagato durante i mesi passati è stato molto alto, e ogni giorno ci sono molti terroristi che vengono uccisi e centinaia di loro sono stati già liquidati.”
Senza molto controllo del Sinai e con occasionali notizie di orrori che trapelano dal deserto di 60.000 kmq, sigillato ermeticamente, e l’ammissione circa ‘dozzine di persone uccise ogni giorno,’ il Sinai sta ruotando su se stesso in un circolo vizioso.
Il risentimento del governo in Sinai risale a molti anni fa, ma ha raggiunto un picco fin dalla cacciata del presidente Morsi. E’ vero che il solo anno che è stato al potere ha visto anche molta violenza, ma non allo stesso livello di quella di oggi.
Fin dalla rivoluzione del 2011, l’Egitto è stato governato da quattro regimi diversi: il Supremo consiglio militare, l’amministrazione di Mohamed Morsi, un governo di transizione guidato da Adli Mansour, e infine il ritorno dei militari sotto Abdul Fatah al-Sisi. Nessuno è riuscito a controllare la violenza nel Sinai.
Tuttavia Sisi insiste nell’usare la violenza, compresi gli attacchi più recenti che hanno colpito tre diverse città allo stesso momento: Arish, Sheojh Zuwaid e Rafah – per un piccolo vantaggio politico. Ha incolpato ancora una volta la Fratellanza Musulmana (FM) senza fornire molte prove. La FM, a sua volta ha rilasciato una breve dichiarazione rimproverando la negligenza e la brutalità del governo nel Sinai riguardo alla violenza che promette di aumentare.
In seguito alle uccisioni in ottobre, ho scritto: “Se le intenzioni sono realmente quelle di limitare gli attacchi nel Sinai, le soluzioni militari decise di impulso ci si ritorceranno contro.” Anche altri hanno suonato l’allarme che la soluzione della sicurezza non funzionerà.
Quello che avrebbe dovuto essere buon senso – dopo tutto i problemi del Sinai sono complessi e prolungati – è stato messo da parte nella fretta di fare la guerra. La follia dell’azione militare negli scorsi mesi si sta cogliendo forse a livello internazionale, ma certamente non a quello locale.
Quella negazione si sente in molti dei media egiziani. Un importante esperto militare, Salamah Jawhari, ha dichiarato alla televisione che “i terroristi del Sinai sono clinicamente morti” e la prova sono gli attacchi ben coordinati del 29 gennaio. Secondo la sua logica, gli attacchi che hanno avuto come obiettivo tre città importanti simultaneamente erano ‘sparpagliati’, quindi la ‘morte clinica’ dei militanti. Incolpava il Qatar e la Turchia per l’appoggio ai militanti di Ansar Bait al-Maqdis, (i Partigiani di Gerusalemme) che a novembre promettevano fedeltà al cosiddetto ‘Stato Islamico’ (IS), annunciando il loro nuovo nome: ‘La Provincia del Sinai’.
Il massiccio ritorno dei militanti del Sinai e il cambiamento di tattica indicano che
la guerra in Sinai si sta dirigendo verso una fase non vista fin dalla rivoluzione, di fatto fin dall’ascesa della militanza nel Sinai iniziata con i bombardamenti letali dell’ottobre 2004, seguiti dagli assalti ai turisti nell’aprile 2005 nella località di vacanza di Sharm el-Sheikh nello stesso anno, e contro la città di Dahab, nel 2006. I militanti sono molto più rincuorati, arrabbiati e organizzati.
L’audacia dei militanti sembra coerente con il senso di disperazione provato dalle tribù del Sinai, che sono presi in una ‘guerra al terrore’ devastante e politicamente motivata. Il problema rimane: quanto tempo ci vorrà prima che il Cairo capisca che la violenza non può risolvere quelli che sono problemi fondamentalmente politici e socio-economici? Questo è vero al Cairo come lo è nella città di Arish, nel Sinai.
Nella foto: il Sinai visto dal satellite.
Ramzy Baroud – www.ramzybaroud.net è un opinionista che scrive sulla stampa internazionale, è consulente nel campo dei mezzi di informazione, autore di vari libri
e fondatore del sito PalestineChronicle.com. Attualmente sta completando i suoi studi per il dottorato all’Università di Exeter. Il suo libro più recente è: My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story (Pluto Press, Londa). [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia di Gaza che non è stata raccontata].
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znet/article/sinai
Originale: non indicato
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
Sinai
La penisola del Sinai si è spostata dai margini dell’organismo politico egiziano al centro indiscusso dato che l’uomo forte dell’Egitto – il presidente Abdul Fatah al-Sisi – si trova molto indebolito dall’aumento di un’insorgenza che sembra diventare più forte con il passare del tempo.
Il 9 gennaio, un’altra serie di attacchi letali e coordinati, hanno fatto a pezzi la fiducia dell’esercito egiziano, spingendolo ulteriormente in un percorso mortale di una guerra che si può vincere soltanto con sagacia politica, non con armi più potenti.
L’attacco più recente è stato un colpo a un senso di gratificazione durato poco, provato dal regime che credeva che la militanza in Sinai stesse declinando, grazie a una decisa reazione militare che era durata per mesi. Quando il 24 ottobre i militanti hanno compiuto un attacco in molteplici fasi contro un posto di controllo militare nel Sinai, uccidendo 31 persone e ferendone molte, le posizioni del governo e dei media erano molto prevedibili. Hanno dato la colpa agli “stranieri” di quello che era essenzialmente una sicurezza “fatta in casa” e una crisi politica.
Invece di esaminare di nuovo l’intero approccio dell’Egitto alla regione povera del Sinai settentrionale, l’esercito si è mosso per isolare ulteriormente Gaza che dal 2007 è sotto un assedio israelo-egiziano molto rigido.
Quello che è accaduto nel Sinai fin dallo scorso ottobre, è stato prevedibilmente devastante. E’ stato considerato da alcuni come pulizia etnica in nome della guerra al terrore. Migliaia di famiglie sono state costrette a lasciare le loro case e a vederle mentre venivano fatte saltare in aria a notte fonda, e di conseguenza il risentimento è aumentato.
E con il risentimento viene la sfida. Un residente del Sinai, Abu Mussalam ha riassunto l’atteggiamento della sua gente verso la violenza del governo: “Bombardano la casa; costruiamo una capanna. Bruciano la capanna; ne costruiamo un’altra. Essi Uccidono. Noi procreiamo.”
Tuttavia, malgrado un blackout dei media nel Sinai, la scena di devastazione creata dalla campagna militare diventava palpabile. “Usando le ruspe e la dinamite” l’esercito ha distrutto 800 case e ha dislocato fino a 10.000 persone, ha riferito il New York Times. Il portavoce di Sisi ha chiamato i quartieri demoliti “focolai” di terrorismo. Il piano a lungo discusso di una “zona cuscinetto” tra Egitto e Gaza, è stato portato a termine e a un livello più devastante di quanto ci si aspettasse.
Il giornale Jerusalem Post ha citato la pubblicazione egiziana Al-Yom a-Sab’a che ha riferito che “le forze di sicurezza lavoreranno per sgomberare la zona dei tunnel sotterranei che portano a Gaza e raderà al suolo qualsiasi edificio e struttura che potrebbe essere usata per nascondere attività di contrabbando.”
Non è stata però mai trovata alcuna collegamento con Gaza. La logica di tale collegamento, era sconcertante, tanto per cominciare. Attacchi di questo tipo è più probabile che peggiorino la brutta situazione di Gaza e che rendano più rigido l’assedio, dato che i tunnel servono come ancora di salvezza importante per i palestinesi assediati. Se gli attacchi hanno un messaggio politico, sarebbe un messaggio che serve gli interessi dei nemici di Gaza, cioè Israele e le fazioni palestinesi rivali, per esempio, ma non Hamas.
Ma non importa, Sisi che raramente si è fermato a considerare l’estrema povertà del Sinai e la negligenza quasi totale del Cairo, è stato svelto a puntare il dito. Poi ha invitato gli egiziani a ‘rendersi conto di quanto viene escogitato contro di noi. Tutto quello che ci succede ci è noto, ce lo aspettiamo e ne abbiamo parlato prima del 3 luglio,” ha detto, riferendosi al giorno che i militari hanno rovesciato Mohammed Morsi.
In un discorso trasmesso alla televisione, ha incolpato le “mani straniere” che stanno “tentando di prendere di contropiede l’Egitto”, promettendo di combattere l’estremismo in una campagna a lungo termine. Considerando la rabbia che ribolle e il dolore che provano gli egiziani, gli attacchi sono stati un’occasione per ottenere un mandato politico che permetterebbe a Sisi di intraprendere qualsiasi politica militare che vada bene per i suoi interessi nel Sinai, iniziando con una zona cuscinetto con Gaza.
In attesa dei corpi dei soldati morti, all’aeroporto militare del Caito, Almaza, Sisi ha parlato di una ‘grande guerra’ che il suo esercito sta combattendo nel Sinai. “Questi incidenti violenti sono una reazione ai nostri tentativi di combattere il terrorismo. Il tributo pagato durante i mesi passati è stato molto alto, e ogni giorno ci sono molti terroristi che vengono uccisi e centinaia di loro sono stati già liquidati.”
Senza molto controllo del Sinai e con occasionali notizie di orrori che trapelano dal deserto di 60.000 kmq, sigillato ermeticamente, e l’ammissione circa ‘dozzine di persone uccise ogni giorno,’ il Sinai sta ruotando su se stesso in un circolo vizioso.
Il risentimento del governo in Sinai risale a molti anni fa, ma ha raggiunto un picco fin dalla cacciata del presidente Morsi. E’ vero che il solo anno che è stato al potere ha visto anche molta violenza, ma non allo stesso livello di quella di oggi.
Fin dalla rivoluzione del 2011, l’Egitto è stato governato da quattro regimi diversi: il Supremo consiglio militare, l’amministrazione di Mohamed Morsi, un governo di transizione guidato da Adli Mansour, e infine il ritorno dei militari sotto Abdul Fatah al-Sisi. Nessuno è riuscito a controllare la violenza nel Sinai.
Tuttavia Sisi insiste nell’usare la violenza, compresi gli attacchi più recenti che hanno colpito tre diverse città allo stesso momento: Arish, Sheojh Zuwaid e Rafah – per un piccolo vantaggio politico. Ha incolpato ancora una volta la Fratellanza Musulmana (FM) senza fornire molte prove. La FM, a sua volta ha rilasciato una breve dichiarazione rimproverando la negligenza e la brutalità del governo nel Sinai riguardo alla violenza che promette di aumentare.
In seguito alle uccisioni in ottobre, ho scritto: “Se le intenzioni sono realmente quelle di limitare gli attacchi nel Sinai, le soluzioni militari decise di impulso ci si ritorceranno contro.” Anche altri hanno suonato l’allarme che la soluzione della sicurezza non funzionerà.
Quello che avrebbe dovuto essere buon senso – dopo tutto i problemi del Sinai sono complessi e prolungati – è stato messo da parte nella fretta di fare la guerra. La follia dell’azione militare negli scorsi mesi si sta cogliendo forse a livello internazionale, ma certamente non a quello locale.
Quella negazione si sente in molti dei media egiziani. Un importante esperto militare, Salamah Jawhari, ha dichiarato alla televisione che “i terroristi del Sinai sono clinicamente morti” e la prova sono gli attacchi ben coordinati del 29 gennaio. Secondo la sua logica, gli attacchi che hanno avuto come obiettivo tre città importanti simultaneamente erano ‘sparpagliati’, quindi la ‘morte clinica’ dei militanti. Incolpava il Qatar e la Turchia per l’appoggio ai militanti di Ansar Bait al-Maqdis, (i Partigiani di Gerusalemme) che a novembre promettevano fedeltà al cosiddetto ‘Stato Islamico’ (IS), annunciando il loro nuovo nome: ‘La Provincia del Sinai’.
Il massiccio ritorno dei militanti del Sinai e il cambiamento di tattica indicano che
la guerra in Sinai si sta dirigendo verso una fase non vista fin dalla rivoluzione, di fatto fin dall’ascesa della militanza nel Sinai iniziata con i bombardamenti letali dell’ottobre 2004, seguiti dagli assalti ai turisti nell’aprile 2005 nella località di vacanza di Sharm el-Sheikh nello stesso anno, e contro la città di Dahab, nel 2006. I militanti sono molto più rincuorati, arrabbiati e organizzati.
L’audacia dei militanti sembra coerente con il senso di disperazione provato dalle tribù del Sinai, che sono presi in una ‘guerra al terrore’ devastante e politicamente motivata. Il problema rimane: quanto tempo ci vorrà prima che il Cairo capisca che la violenza non può risolvere quelli che sono problemi fondamentalmente politici e socio-economici? Questo è vero al Cairo come lo è nella città di Arish, nel Sinai.
Nella foto: il Sinai visto dal satellite.
Ramzy Baroud – www.ramzybaroud.net è un opinionista che scrive sulla stampa internazionale, è consulente nel campo dei mezzi di informazione, autore di vari libri
e fondatore del sito PalestineChronicle.com. Attualmente sta completando i suoi studi per il dottorato all’Università di Exeter. Il suo libro più recente è: My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story (Pluto Press, Londa). [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia di Gaza che non è stata raccontata].
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znet/article/sinai
Originale: non indicato
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
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