Israele non può imporre con la forza l’occupazione a coloro che hanno fame di libertà
Di Jonathan Cook
24 giugno 2014
Per più di un mese Israele ha cercato di liberarsi da un uncino che lo avrebbe agganciato fin dall’inizio. Due ragazzi, di 17 e 16 anni, sono stati uccisi durante le protesta della Giornata della Nabka (La Catastrofe) vicino a Ramallah, durante la quale i giovani hanno tirato debolmente pietre a una postazione militare israeliana distante e ben protetta.
Centinaia di ragazzi palestinesi hanno perso la vita nel corso degli anni alla fine del “puntamento” dell’arma di un cecchino Ma la morti di Nadim Nuwara e di Mohammed Abu Al Thahir a Beitunia sono state facilmente dimenticate. Israele è stato rapidamente messo all’angolo da un cumulo di prove fisiche e visive.
Le solite smentite di Israele – le morti sono state simulate, i filmati sono stati falsificati, i soldati israeliani non sono stati responsabili, i giovani hanno provocato i soldati, non sono state usate munizioni vere – si sono dimostrate false una per una. Lentamente Israele ha ammesso la sua responsabilità, se non altro cadendo in un silenzio forzato.
Una telecamera della CCTV (telecamera a circuito chiuso) posta sul muro esterno di una falegnameria, ha fornito la prova più schiacciante: ha catturato i momenti in cui i due ragazzi disarmati ognuno dei quali è stato colpito da un’ arma da fuoco con proiettili veri, in uno caso mentre si vedeva il giovane allontanarsi a piedi dalla zona della dimostrazione.
Però, invece che accettare il mondo come è adesso, Israele vuole conservarlo come era una volta. Crede che con la forza di volontà può tenere a debita distanza l’ondata della sua responsabilità nei territori occupati.
Non c’è stata alcuna ammissione di prova, nessuna ricerca dei soldati colpevoli e nessuna revisione delle sue politiche per il controllo delle folle o per l’uso degli spari con munizioni vere – non parliamo poi del continuare l’occupazione. Invece, la settimana scorsa 20 soldati sono arrivati a un negozio di Beitunia, hanno minacciato di incendiarlo, hanno arrestato il proprietario, Fakher Zayed, e gli hanno ordinato di
Levare la telecamera che causava così tanto disagio.
Secondo Israele, l’errore non sta in una società dove i soldati adolescenti possono scegliere di schiacciare con noncuranza un ragazzo palestinese come se fosse una mosca. Il problema è un negoziante palestinese che supponeva di potere entrare nel mondo moderno.
La nostalgia per una “epoca dorata” dell’occupazione è stata evidente anche la settimana scorsa, in un cambiamento di politiche. Israele ha arrestato centinaia di palestinesi durante la ricerca dei tre ragazzi israeliani che erano scomparsi fin dal 12 giugno. Le città palestinesi come Hebron sono state blindate per giorni e parecchi giovani palestinesi sono stati uccisi, mentre i soldati controllano meticolosamente la Cisgiordania.
Dato che la ricerca si è dimostrata inutile, il procuratore generale di Israele ha approvato la reintroduzione della famigerata procedura denominata “bomba a orologeria.”
Così facendo, ha riportato indietro l’orologio di 15 anni, a un periodo in cui Israele usava regolarmente la tortura contro i prigionieri. Forse allora Israele non era da sola a usare la tortura, ma era unica a sbandierare le sue celle per la tortura, insieme alle dichiarazioni di condotta democratica.
Soltanto nel 1999 la corte suprema del paese limitava severamente la pratica, concedendo una deroga a chi conduceva gli interrogatori: una persona sospetta poteva essere torturata soltanto se era una “bomba a orologeria”, cioè se nascondeva informazioni riguardanti un attacco, che, se rivelate immediatamente, potevano salvare delle vite.
Ora il procuratore generale di Israele è stato d’accordo che i politici, giornalisti e attivisti palestinesi raccolti nei recenti arresti di massa, saranno trattati come “bombe a orologeria”. Le celle israeliane per la tortura sono di nuovo al lavoro.
Gli israeliani sono stati cullati in un falso senso di sicurezza dalla promessa di semplici soluzioni tecniche infinite ai problemi sempre crescenti causati dall’occupazione.
Questa settimana, il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha sperato di trovare un’altra “ricetta” per i palestinesi che si rifiutano di rimanere inerti davanti alla loro oppressione.
Netanyahu sta affrettando una legge per attuare l’alimentazione forzata per più di 100 prigionieri palestinesi che fanno lo sciopero della fame da due mesi. I detenuti richiedono che Israele metta fine alla pratica comune di tenere in carcere per mesi e talvolta per anni, dei prigionieri senza accuse, in quella che è blandamente definita “detenzione amministrativa”. *
Questi prigionieri, ignari dei loro reati, non sono in grado di crearsi una difesa. E dato che diventa sempre più chiaro alla società palestinese che Israele non concederà mai la condizione di stato alla Palestina, le cose che una volta erano a mala pena tollerate sono ora considerate insopportabili.
La settimana scorsa, due capi della Associazione Medica Mondiale (WMA) hanno esortato Israele a fermare la proposta di legge, che con una doppia normativa di costrizione richiederà che i medici debbano sedare e usare l’alimentazione forzata con i prigionieri per interrompere il loro sciopero della fame.
La WMA ha chiamato questa pratica: “equivalente alla tortura”. La legislazione viola non soltanto l’autonomia dei prigionieri, ma i giuramenti fatti dai dottori di operare per il bene dei loro pazienti.
Il giornale liberale israeliano Haaretz, ha avvertito che Israele si stava buttando a capofitto verso un “nuovo abisso rispetto alle violazioni dei diritti umani.” E tutto questo per impedire che la realtà ferisca la coscienza israeliana: cioè che i palestinesi preferirebbero rischiare di morire piuttosto che sopportare le costanti offese di una vita di occupazione aggressiva.
Gli israeliani devono ancora rendersi conto che la diga presto dovrà esplodere. Credono ancora che una “ricetta” tecnica sia il modo di risolvere i dilemmi etici continuamente evidenziati” dalla più lunga occupazione dei tempi moderni.
Le soluzioni tecniche di Israele funzionano solo in parte. Confinano i palestinesi in spazi sempre più piccoli: la prigione di Gaza, la città blindata, la cella per la tortura, o l’ambulatorio del medico dove può essere inserito un tubo per l’alimentazione.
Però la brama di auto-determinazione e di dignità sono più che problemi tecnici. Non si può alimentare a forza un popolo per calmare la sua fame di libertà.
Le occupazioni aggressive – specialmente quelle dove non c’è in vista alcuna speranza o alcuna fine – generano forme di resistenza sempre più creative e gravose, come dimostrano gli scioperi della fame. Un atto fisico di resistenza può essere temporaneamente vanificato, ma lo spirito che c’è dietro non può essere smorzato tanto facilmente.
*http://it.wikipedia.org/wiki/Detenzione_amministrativa_(Israele)
Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il Giornalismo. I suoi libri più recenti sono: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [La Palestina che scompare: gli esperimenti di Israele di disperazione umana] (Zed Books). Il suo nuovo sito web è: www.jonathan-cook.net.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata la prima volta su The National, di Abu Dhabi.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znet/article/israel-can-t-force-feed-occupation-to-those-who-hunger-for-freedom
Originale : non indicato
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
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