Amira Hass: Su una scala da 1 all’orrore: atrocità di alto grado in Medio Oriente
Di Amira Hass
27 agosto 2013
Mentre aumentano le notizie di orrori che arrivano dalla Siria e dall’Egitto, perché ci si dovrebbe preoccupare per la difficile situazione di una palestinese vedova e madre di sei figli (tutti minorenni e residenti in Israele) che ha davanti la prospettiva della deportazione, sebbene viva da quasi 20 anni a Gerusalemme Est? Qualcuno che la settimana scorsa ha letto il mio articolo su Nahil Rajbi, di 38 anni, nata a Hebron e vissuta a Gerusalemme est dal 1995, mi ha detto: “Dedichi troppo tempo a delle piccolezza” (“Il tribunale garantisce alla vedova di Gerusalemme est un rinvio all’ultimo minuto della deportazione ,” Haaretz, 22 agosto 2013). L’osservazione non era ostile o sprezzante; era semplicemente un’espressione di sorpresa.
Il caso di Rajbi andava al di là delle esatte parole della legge, come si dice. Un ufficiale della polizia di confine non l’ha deportata immediatamente anche se un ufficiale importante dell’Anagrafe gli aveva dato il via libera. Invece ha preso in considerazione il fatto che Rajbi ha sei figli, di età compresa tra i 5 e i 17 anni, e le ha dato una moratoria di tre giorni per darle tempo di opporsi all’ordine di deportazione. Un gruppo israeliano per i diritti umani, Hamoked : Centro per la difesa dell’individuo – a cui si rivolgono naturalmente in tali occasioni – ha presentato una petizione urgente all’Alta Corte di Giustizia a suo nome. Il giudice Yoram Danziger non ha emesso un’ingiunzione temporanea contro la deportazione, ma il Dipartimento delle petizioni dell’Alta Corte del ministero della Giustizia ha capito dalle parole usate nella sua sentenza che stava realmente dando istruzioni alle autorità di sospendere l’ordine di deportazione; lo spirito della sua decisione ha influenzato anche le linee guida date alla polizia e all’Anagrafe.
Ci sono coloro i quali che dicono che la paura di Rajbi di essere deportata della sua casa nella Città vecchia di Gerusalemme è sovrastata dalla sofferenza dei milioni di bambini siriani che sono diventati profughi. Alcune arriverebbero perfino a dire che la storia della dominazione di Israele sulla Palestina è sovrastata dal massacro incomprensibile che sta avvenendo nella regione. Secondo quella logica, gli uomini possono dire alle donne in Israele e in Italia di non lamentarsi della discriminazione tra i sessi perché le loro sorelle in Africa subiscono ancora la pratica della mutilazione degli organi genitali femminili, mentre in India la scelta di abortire se il feto è di una bambina, è ancora diffusa.
Gli ebrei occidentalizzati possono dire agli Ebrei arabi e agli ebrei Sefarditi che dovrebbero smettere di lamentarsi perché stanno molto meglio degli abitanti delle favelas in Brasile.
Le ingiustizie, le atrocità di alto livello e la discriminazione su una scala di orrori, è soltanto un’altra tecnica usata da coloro che stanno al potere per conservare tale potere, per giustificare i loro privilegi eccessivi e per screditare qualsiasi lotta pubblica o civile per l’uguaglianza.
Il problema non è, quindi se il caso di Rabji sia messo in ombra da qualcosa di più orribile, ma piuttosto quali leggi e procedure stabilite dai giuristi di Israele la fanno considerare una criminale.Il problema non è se la situazione in Siria sia terrificante, ma piuttosto perché altri uomini e donne palestinesi sono nella stessa situazione di Rajbi, di dover affrontare la minaccia di deportazione e di essere isolati dalle loro famiglie che sono a Gerusalemme.
Il marito di Rajbi, un palestinese residente a Gerusalemme, era epilettico, tossicodipendente e alcolista; trascurava le faccende burocratiche, come presentare una domanda per la riunificazione della famiglia. Lo ha fatto soltanto nel 2006, anche se lui e Nahil si erano sposati nel 1994. La richiesta è stata approvata nel giugno 2012 e a Rajbi è stato garantito un permesso per stare a Gerusalemme, valido un anno. La legge di Israele limita ai compagni/e palestinesi di cittadini e residenti israeliani l’ottenimento dello status di residente permanente o la cittadinanza, cosicché l’approvazione per la riunificazione della famiglia in questi casi assume la forma di un permesso rinnovabile per un anno di residenza/soggiorno. Quando il marito di Rajbi è morto lo scorso gennaio, il suo permesso è automaticamente scaduto.
C’è un secondo comitato speciale che tratta con i non ebrei, come Russi e Australiani, che hanno sposato cittadini/e israeliani/e sono diventati vedove o vedovi o che hanno divorziato dai loro compagni/e prima di avere la garanzia di status di residenza permanente o cittadinanza. Questo è, come dice il titolo, “il Comitato consultivo inter-ministeriale per garantire lo status di residenza in Israele per motivi umanitari.” I membri del comitato consistono del direttore generale dell’Autorità per la Popolazione, l’Immigrazione e i confini che né anche il presidente; rappresentanti dei ministeri degli Esteri, della Sanità e degli Affari sociali; e rappresentanti dell’Istituto nazionale delle Assicurazioni, la Polizia israeliana e un’unità di collegamento semi-segreta che si chiama Nativ (che incoraggia l’immigrazione ebraica a Israele dalla ex Unione Sovietica). Le procedure operative del comitato sono delineate su cinque pagine di dimensione A4, il suo numero di procedura nei registri dell’ dell’Autorità per la Popolazione, l’Immigrazione e i confini è 5.2.0022. Per definizione, essa consiglia il direttore generale dell’Autorità, che, come osservato sopra, è anche presidente del comitato.
In quanto palestinese, Rajbi si è dovuta rivolgere a un altro comitato, a cui ha fatto appello in marzo attraverso il Centro per la Difesa dell’Individuo. Questo comitato è il “Comitato Pubblico per il riesame delle domande per il permesso di residenza/soggiorno temporaneo per Speciali motivi umanitari.” Il comitato è presieduto da qualcuno qualificato per fare il giudice del tribunale distrettuale ed è nominato dal ministro dell’interno. Altri membri comprendono rappresentanti del Ministero della Difesa e del Servizio di sicurezza Shin Bet, un rappresentante del Ministero dell’Interno nominato da quel ministero, e un rappresentante del pubblico che è nominato congiuntamente dai ministri della giustizia e dell’interno. Anche in questo caso, le procedure operative del comitato sono esposte su cinque pagine di dimensione A4: il numero di procedura del comitato è 5.2.0039. Come è stato osservato qui sopra, il comitato consiglia il ministro degli Interni e si occupa soltanto di domande per la residenza temporanea, o per un permesso di residenza/soggiorno.
La domanda al comitato inter-ministeriale (per i non-ebrei nati in Australia o in Russia) deve essere sottoposto di persona a uno delle molte sedi dell’Autorità per la popolazione, l’immigrazione e di confine. La sezione A.2 di un’altra delle procedure dell’autorità, 5.1.0001, dichiara che “fino a quando non si è presa una decisione riguardante la domanda o l’appello, il richiedente/appellante non sarà deportato dal paese,” a condizione che domanda/appello sia stata sottoposta a una delle sezioni dell’autorità.
Invece la richiesta al secondo comitato, cioè il comitato consultivo pubblico che consiglia il ministro dell’interno, deve essere inviata per email al Government Compound, 125 Menachem Begin Road, Tel Aviv. Quindi la sezione A-2 nella procedura 5.1.0001 non si applica ai palestinesi. Questo tecnicismo è quello che ha permesso alle autorità di minacciare di deportazione Rajbi da Gerusalemme, prima di tutto. Dal momento che la politica del governo di Israele è motivata dal desiderio di limitare il numero di palestinesi a Gerusalemme e a Israele vero e proprio, mi prendo le libertà di dire che questo tecnicismo era stato chiaramente premeditato.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte:http://www.zcommunications.org/on-a-scale-of-1-to-horror-ranking-atrocities-in-the-middle-east-by-amira-hass
Originale: Haaretz
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY – NC-SA 3.0
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