La Terza Intifada è inevitabile.



La Terza Intifada è inevitabile.
Il catalizzatore del momento potrebbero essere gli atti di vandalismo su di un’altra moschea da parte di coloni ebrei o la costruzione di nuove unità abitative nelle colonie.
di Nathan Thrall 
All’inizio di questo mese, ad un incontro privato con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi consiglieri sulla sicurezza, un gruppo di esperti del Medio Oriente ed ex funzionari dell’intelligence hanno avvertito sull’imminenza di una terza Intifada. Il catalizzatore del momento, hanno riferito, potrebbe essere la devastazione di un’altra moschea da parte di coloni ebrei, come quella incendiata giovedì, o la costruzione di nuove unità abitative nelle colonie. Qualsiasi sia la miccia, la fonte implicita dello stato di agitazione nella West Bank è data dall’opinione generale che il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, sia giunto a un vicolo cieco.
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La strategia politica di Abbas si basava sul concetto che la cooperazione nel campo della sicurezza tra l’Autorità Palestinese e il governo israeliano avrebbe fatto sentire Israele più sicuro e avrebbe rimosso la sua principale giustificazione del protrarsi dell’occupazione della West Bank, aprendo di conseguenza la strada per uno Stato di Palestina. Ironia della sorte, a causa del successo dei suoi sforzi, molti israeliani si sono presi il lusso di dimenticare che tuttora c’è uno stato di occupazione. 
E’ grazie alla pace finanziata dagli americani e dagli europei grazie alla quale il governo di Abbas si è conservato nella West Bank, che gli israeliani sono giunti a pensare di poter mangiare la torta e di averla pure. La maggioranza dei cittadini intervistati all’inizio di quest’anno ha dichiarato che lo stato potrebbe restare ebraico e democratico senza rinunciare ad alcuna parte della West Bank. Anni di pace e di tranquillità a Tel Aviv hanno permesso a centinaia di migliaia di israeliani di scendere in strada la scorsa estate per protestare contro il prezzo elevato della ricotta, dell’affitto e degli asili nido, senza dire una parola sui palestinesi della West Bank. La questione ha cessato di essere una delle preoccupazioni principali della sicurezza di Israele. Netanyahu avrebbe dovuto essere un suicida politico o, in via eccezionale, una persona lungimirante per abbandonare unostatus quo del quale un’ampia maggioranza appare soddisfatta. 
Al contrario, i palestinesi vedono oggi la loro leadership sbattere la testa contro un muro, nella speranza immotivata che un atteggiamento un po’ più condiscendente avrebbe portato a uno stato indipendente. Di conseguenza, è stato risolto il dilemma che si protrae ormai da lunga data sul modo di raggiungere la liberazione nazionale – fornendo sicurezza a Israele o affrontandolo. I palestinesi di tutte le tendenze politiche non stanno più discutendo se rendere il costo dell’occupazione più elevato, ma come. 
Negli anni ’90, Abbas è stato uno degli architetti chiave del processo di pace di Oslo, il quale prevedeva un graduale ritiro di Israele dalla West Bank fino a giungere a un accordo di pace permanente (anche se non necessariamente a uno Stato palestinese). Oggi, è forse rimasto l’unico a crederci. Egli è stato costretto a prestare un’attenzione puramente formale alle richieste di coloro che sostengono lo scontro rilasciando ripetute promesse di confrontarsi con Israele – smantellando l’Autorità Palestinese o rifiutandosi di negoziare a meno che Israele non congeli la costruzione di colonie – solo per tirarsi indietro in ciascun caso. 
Mentre è cresciuto il divario tra le parole e le azioni del presidente palestinese, altrettanto lo è la distanza tra le sue politiche e il sentimento popolare che di conseguenza porta il suo governo a una maggiore attività di repressione: alla tortura degli oppositori politici, al blocco dei siti web e all’arresto di giornalisti e blogger critici nei confronti di Abbas. Anche i consiglieri a lui vicini si confidano dicendo che sta rischiando di diventare un altro Antoine Lahad, il capo delle forze militari che operavano in nome e per conto di Israele durante l’occupazione del sud del Libano. Il rappresentante in capo delle politiche di Abbas, il primo ministro non eletto Salam Fayyad, ha ammesso: “Credo che stiamo perdendo la controversia, se non l’abbiamo già perduta.” E lo stesso Abbas ha ammesso che il processo di pace è “inceppato” e che il suo governo aveva solo contribuito a creare una “situazione buona” per Israele, il quale traendo vantaggio da anni di cooperazione senza precedenti con le forze palestinesi nella West Bank, non ha motivazioni per concordare un qualsiasi cambiamento. 
Ma in questi giorni, le forze di sicurezza palestinesi hanno pochi motivi per credere che i loro sforzi facciano progredire gli obiettivi nazionali, e Israele non può presumere che l’Autorità Palestinese garantirà la sicurezza a tempo indeterminato. Il mese scorso, mentre le sparatorie ritornavano nelle strade di Jenin e 1.600 prigionieri palestinesi entravano nella quarta settimana di sciopero della fame, Abbas ha dichiarato: “Io non riesco a controllare la situazione. Temo, Dio non voglia, che qui il sistema della sicurezza collasserà.” Tale sentimento è riecheggiato nelle osservazioni fatte da Yuval Diskin, il capo dell’Agenzia di sicurezza interna di Israele, recentemente andato in pensione: “Quando la concentrazione dei fumi di gas nell’aria è così elevata”, ha detto, “il problema sta solo nel quando lo sprigionare di scintille lo porterà alla luce.” 
La causa ultima di questa instabilità è data dal fatto che i palestinesi hanno perduto ogni speranza che Israele concederà mai loro uno Stato. Ogni tentativo di esercitare quel poco di potere che i palestinesi posseggono è stato avversato o si è rivelato inefficace. I boicottaggi dei lavori di appalto delle colonie e dei prodotti non hanno ottenuto un sostegno di massa e non avrebbero fermato la crescita delle colonie anche se ci fosse stato. I palestinesi avrebbero potuto fare pressione lo scorso settembre per un voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – una mossa che aveva spaventato Israele e l’America per le sue implicazioni concernenti l’accesso dei palestinesi alla Corte Penale Internazionale. Abbas ha abbandonato tale iniziativa a favore di una richiesta di riconoscimento dello Stato al Consiglio di Sicurezza, petizione per la quale c’era già la garanzia che sarebbe fallita e poi ha spacciato abilmente la sua capitolazione per atteggiamento di sfida. 
Questi fallimenti hanno lasciato solo due possibilità ai palestinesi che sperano di rendere le attuali condizioni insostenibili per Israele: la protesta popolare e la resistenza armata. La prima opzione si trova a dover affrontare enormi ostacoli determinati dalle divisioni politiche tra Hamas a Gaza e il Fatah di Abbas nella West Bank. Ogni fazione considera la mobilitazione di massa come un potenziale primo passo verso il suo rovesciamento, così come un mezzo che conferisce autorità a una nuova generazione di leader a scapito di quelli esistenti. 
Se fossero esplose delle manifestazioni di massa nella West Bank, Israele avrebbe chiesto alle forze di sicurezza palestinesi di bloccare ogni tipo di protesta in prossimità di soldati o di coloni, obbligandole a scegliere potenzialmente tra lo sparare sui dimostranti palestinesi e il porre fine alla collaborazione nel campo della sicurezza con Israele, che Abbas si rifiuta di fare. Come egli ben sa e teme, le proteste di massa potrebbero diventare rapidamente militarizzate da entrambe le parti. Per questo motivo, il suo governo ha offerto un sostegno poco più che retorico alle piccole proteste settimanali tanto amate dagli attivisti stranieri e dalla stampa occidentale, ed ha impedito energicamente che i manifestanti si avvicinassero a una qualsiasi colonia ebraica. 
La seconda opzione è lo scontro armato. Anche se l’apatia è diffusa tra i palestinesi e centinaia di migliaia di persone sono dipendenti finanziariamente dal protrarsi dell’esistenza dell’Autorità Palestinese, un numero considerevole accoglierebbe con favore la prospettiva di un’escalation, in particolar modo molti sostenitori di Hamas, che sostengono essere la violenza la tattica più efficace per costringere Israele e la comunità internazionale ad agire. 
Questi ritengono che pietre, molotov e proteste di massa hanno spinto Israele a sottoscrivere, nel 1993, gli Accordi di Oslo; che i colpi mortali inferti alle truppe israeliane in Libano hanno portato al ritiro di Israele del 2000; che lo spargimento di sangue della seconda Intifada ha costretto George W. Bush a dichiarare il suo sostegno a una statualità palestinese e ha spronato la comunità internazionale a varare l’Iniziativa di Pace Araba, l’Iniziativa di Ginevra e la Road Map per la Pace in Medio Oriente. Sono pure convinti che le armi abbiano costretto Ariel Sharon, allora primo ministro di Israele, ad evacuare nel 2005 coloni e truppe da Gaza. Tale ritirata ha avuto pure l’effetto di congelare il processo di pace, fornendo “la quantità di formaldeide che è necessaria,” come disse un consulente di Sharon, “in modo tale che non ci sarà alcun processo di pace con i palestinesi.” 
Per più leader militanti palestinesi, che non hanno mai creduto al processo di pace, la lezione era chiara: “Non un centimetro di terra palestinese verrà liberata,” mi ha raccontato Mousa Abu Marzook, vice capo dell’ufficio politico di Hamas, “finché gli israeliani avranno la sensazione che il controllarla comporti poche spese.” Matti Steinberg, un ex consigliere superiore dei capi della sicurezza israeliana, ha descritto Mahmoud Abbas come il leader palestinese più compiacente e non violento nel quale Israele si sia mai imbattuto e si è raccomandato di darlo per scontato. “Il centro israeliano è preso in un circolo vizioso,” ha affermato. “Esso ritiene che non si possa fare pace fintanto che c’è violenza, e quando la violenza non c’è non si vede il motivo di fare la pace.” 
La storia potrebbe far credito ad Abbas col farlo regnare sulla fase più seria di questo circolo, ma probabilmente egli ha gettato le basi per una più brutta. Hamas, intanto, è già passata oltre. “Gli israeliani hanno avuto un’opportunità d’oro per sottoscrivere un accordo con Abbas,” mi ha raccontato lo scorso novembre a Gaza il ministro della salute di Hamas, Basem Naim. “Ma l’occasione è ormai superata. Non si presenterà loro di nuovo.” 
Nathan Thrall è un analista del Medio Oriente presso il Gruppo di Crisi Internazionale 
(tradotto da mariano mingarelli)

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