Palestina: le nuove immagini delle demolizioni di Anata
Continuano le demolizioni di case palestinesi nei dintorni di Gerusalemme ad opera dell’esercito israeliano. Questa volta a essere colpito è il sobborgo di Anata, strategico per la sua posizione geografica. Prosegue quindi la strategia israeliana del “Price Tag”: far pagare alla popolazione palestinese il prezzo della sua presenza sul territorio, che nasconde il progetto israeliano di circondare Gerusalemme con un “anello” di colonie, strade e parchi naturali, per separarla definitivamente dal resto della West Bank ed impedirne, in futuro, la divisione Est/Ovest prevista dagli accordi internazionali.
Arrivano di notte, con i bulldozer, e poco importa che a Gerusalemme piova e faccia freddo.
E’ inverno anche in Terra Santa, ma lasciare la popolazione a dormire nelle tende dopo avergli distrutto la casa non sembra una preoccupazione dell’esercito israeliano, alla cui base sta un codice di condotta celebrato come “il più etico del mondo”.
Tra i redattori il filosofo Asa Kasher, che pone due valori fondamentali alla sua base: la priorità della vita umana e l’etica degli armamenti.
Ad essere colpito dalle demolizioni arbitrarie che è impossibile fermare, il piccolo centro urbano di Anata, quasi un sobborgo di Gerusalemme, data la sua prossimità con la città. Qui vivono migliaia di palestinesi che resistono ammassati nelle loro case, tra vicoli e strade sul punto di esplodere.
La notte del 23 gennaio le ruspe dell’esercito 'più etico del mondo' sono entrate in azione, demolendo 7 abitazioni e lasciando per strada, costretti a dormire in tende di fortuna, 52 persone, di cui 29 bambini.
È la strategia del “Price Tag”, far “pagare il prezzo” alla popolazione palestinese per la sua presenza sul territorio, così come a quelle organizzazioni umanitarie che scelgono di schierarsi dalla loro parte.
Colpita dalle demolizioni anche Beit Arabiya, un simbolo vivente di resistenza all’occupazione, appartenente alla famiglia Shawamreh e demolita già quattro volte negli ultimi anni.
E' stata ricostruita anche grazie all’aiuto dell’ICAHD (Israeli committee against house demolitions), l’associazione guidata dal pacifista ebreo Jeff Halper, composta da israeliani, palestinesi ed internazionali che, con le proprie forze, ricostruiscono ogni casa palestinese che viene demolita dalle forze di occupazione.
“Queste demolizioni rappresentano il chiaro tentativo di scoraggiare la ricostruzione da parte di ICAHD delle abitazioni palestinesi”, sostiene Halper, che ha invitato il coordinatore Onu per gli affari umanitari nei Territori Palestinesi, Maxwell Gaylard, a far visita proprio al sobborgo di Anata.
La denuncia e il racconto di quanto accaduto sono contenute nel rapporto stilato da Gaylard, che ha chiesto l’immediata cessazione delle demolizioni: “Israele come potenza occupante ha la responsabilità di proteggere la popolazione civile palestinese sotto il suo controllo – ha affermato –, la politica di demolizione delle case causa un’enorme sofferenza alla popolazione e deve cessare”.
Nel suo rapporto si legge che, solo nel corso del 2011, sono state distrutte oltre 600 abitazioni palestinesi, con la conseguenza che ora ci sono almeno un centinaio di persone “sfollate”, di cui almeno la metà sono bambini.
Una pratica, quella delle demolizioni, che cela un piano ancora più sinistro: non è infatti casuale che la maggior parte delle ruspe abbiano preso di mira alcune zone intorno a Gerusalemme, strategiche per la loro collocazione geografica.
Il sobborgo di Anata è situato nell'Area C, a nord-est di Gerusalemme. A ovest confina con il quartiere-campo profughi di Shu’fat mentre, dal lato opposto, è serrato da una base militare israeliana.
E se a sud sopravvive e resiste il villaggio palestinese di Issawiya, minacciato dalla costruzione di un’area verde israeliana, a nord Anata è stretta dalla presenza di due fra gli insediamenti più popolosi dei dintorni, Pisgat Zeev e Neve Yacov, talmente vicini da poter essere considerati ormai un’unità territoriale unica.
Una bypass road - strada riservata all’utilizzo dei soli israeliani come da apartheid che si rispetti - dovrebbe attraversare il territorio di Anata per collegare le colonie alla parte israeliana di Gerusalemme e agli altri insediamenti (tutti illegali secondo il diritto internazionale).
Stessa sorte che sta toccando ad altri quartieri palestinesi, questa volta all’interno di Gerusalemme Est, come Silwan e Sheik Jarrah, espropriati da Israele e occupati dai coloni.
L’intento è duplice: se da una parte all’interno della città santa sono in azione i coloni che occupano case palestinesi costringendo la popolazione al trasferimento forzato per “liberare” il territorio dalla presenza araba, nei dintorni di Gerusalemme, sul lato est che confina con i Territori Occupati della West Bank, è in atto la costruzione di un vero e proprio anello, fatto di insediamenti, aree verdi e strade riservate di collegamento.
Costruzioni israeliane e demolizioni palestinesi che proseguono a ritmo incessante per raggiungere il doppio obiettivo di separare la popolazione araba di Gerusalemme Est dai Territori Occupati e di creare una continuità territoriale tra Gerusalemme Ovest (israeliana) e le sue colonie, al fine di impedire la divisione in due della città in futuro, come previsto dagli accordi internazionali.
Agire de facto, pratica israeliana consolidata sin dal ’48, per rendere Gerusalemme “capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele”.
Jeff Halper e la sua organizzazione, da sempre in prima linea contro la demolizione di case, fanno adesso appello alla società civile perché esprima come può la propria solidarietà.
Maggiori informazioni sul sito www.icahd.org.
Per le cartine dettagliate di Gerusalemme e delle colonie www.ochaopt.org.
**Si ringrazia Lorenzo Kamel per le foto e la segnalazione
2 Da una grotta a una tenda (Paola Caridi-inviseblearabs)
“I bulldozer e i soldati sono arrivati a notte fonda, il 23 gennaio, e 52 persone, compresi 29 bambini sono stati costretti ad abbandonare le loro case, che sono state completamente distrutte”. Il racconto è contenuto in una denuncia resa pubblica il 27 gennaio dal coordinatore dell’Onu per gli affari umanitari nei Territori Palestinesi, Maxwell Gaylard, dopo la distruzione da parte delle autorità israeliane di sette case palestinesi nel villaggio di Anata, a Gerusalemme. A una ventina di chilometri da Betlemme e dalla grotta della Natività.
Le 52 persone, compresi i 29 bambini, hanno dormito sotto le tende. Chi conosce Gerusalemme, sa bene che le temperature di questo periodo sono particolarmente rigide. Soprattutto la notte. Da giorni piove, piove a vento, fa freddo, e dormire sotto una tende, su un terreno inzuppato d’acqua, è particolarmente dura. Le considerazioni climatiche non hanno, però, fermato le ruspe. Le sette abitazioni sono state abbattute, senza se e senza ma.
“Durante il 2011 – prosegue ancora la denuncia di Gaylard e dunque dell’Onu – sono state demolite 622 abitazioni, costringendo circa 1100 persone, di cui la metà bambini, a diventare sfollati”. “Un incremento notevole rispetto agli anni precedenti”, dice l’alto funzionario delle Nazioni Unite, che ricorda a Israele che “in quanto potenza occupante ha la responsabilità fondamentale di proteggere la popolazione civile palestinese che si trova sotto il suo controllo e di assicurarle dignità e benessere”.
Le demolizioni ad Anata sono, purtroppo, ricorrenti. Beit Arabiya, una delle case distrutte, era già stata ricostruita quattro volte dall’ICAHD, la ong guidata da Jeff Halper (israeliano) che lotta da anni contro le demolizioni delle case (palestinesi). Jeff Halper, ora, chiede aiuto per ricostruire per la quinta volta quella stessa casa. (grazie, Lorenzo, per la foto e la sollecitazione a parlare di Anata), in un paese dove vivono migliaia di persone. Un paese, Anata, che è la perfetta rappresentazione di quello che sta succedendo a Gerusalemme, seguendo una strategia che già ora preclude un futuro per la città in linea con la soluzione dei due stati.
Anata è a nord est, e la cartina qui sotto descrive bene perché è importante. Confina con Shu’fat, quartiere e campo profughi, e dall’altro lato è chiusa da una base militare. Dovrebbe essere attraversata da un bypass, una strada separata, riservata agli israeliani. A nord insistono due tra gli insediamenti israeliani più numerosi, soprattutto Nevee Yacov e Pisgat Zeev. E infine a sud-ovest c’è Issawiya, altro quartiere palestinese a rischio dopo la notizia della volontà del municipio (israeliano) di voler costruire un parco che colleghi tra di loro l’anello delle colonie, e separi i quartieri palestinesi di Gerusalemme est dalla Cisgiordania (chi ne vuol sapere di più, può consultare le cartine sul sito dell’OCHA, www.ochaopt.org, oppure su quello del centro studi PASSIA, che col suo Diary pubblica ogni anno il più credibile aggiornamento sulla situazione della Gerusalemme palestinese).
Solo pochi giorni fa il cosiddetto rapporto dei consoli europei, i rappresentanti diplomatici dell’Unione Europea a Gerusalemme, aveva denunciato una situazione sempre più intollerabile, pericolosa e senza ritorno, per i 200mila palestinesi di Gerusalemme e per lo stesso futuro della città. Nemo profeta in patria. Le demolizioni, stigmatizzate nel rapporto assieme alla strategia israeliana per rendere impossibile la divisione della città, sono continuate. Anche ora che fa freddo. In un assordante silenzio, a Bruxelles così come a Washington. Anata è invisibile, come molti altri luoghi di questo mondo arabo incognito. Invisibile e – sembra – irrilevante.
La foto immortala una demolizione nel quartiere residenziale palestinese di Beit Hanina, dove vive da anni la piccola-media borghesia palestinese, a pochi metri dal Muro di separazione che s’incanala sino al checkpoint di Qalandiya.
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