Negoziati israelo-palestinesi: non ci sarà “nessuno Stato tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo”


Proprio a ridosso del 26 gennaio, termine fissato lo scorso settembre dal Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue) per la fine dei colloqui preliminari tra Israele e Autorità palestinese, l’inviato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Isaac Molho, ha illustrato al suo omologo palestinese Saeb Erekat la posizione di Israele sui confini di un futuro Stato palestinese. Secondo fonti ufficiali (riportate dal quotidiano israeliano Haaretz), Molho ha presentato solo verbalmente alcuni principi generali, senza mostrare un documento o delle percentuali di territorio da 'scambiare'.  di Enrico Bartolomei

Uno dei principi delineati dall’inviato israeliano per un compromesso territoriale sulla Cisgiordania prevede che “la maggior parte degli israeliani restino sotto la sovranità di Israele e la maggior parte dei palestinesi sotto quella palestinese”.
Per i negoziatori palestinesi, che rivendicano la creazione di uno Stato che riunisca Cisgiordana, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est (i territori occupati da Israele in seguito alla guerra del giugno 1967), i cinque incontri tenuti con in rappresentanti israeliani non hanno prodotto alcun risultato, per via della decisione di non congelare la costruzione di nuove colonie da parte di Israele.
Ma la riluttanza dei negoziatori israeliani a presentare una chiara visione dei confini ha poco a che fare con le tattiche negoziali del momento o con la situazione politica interna, dal momento che affonda le proprie radici nella storia del movimento sionista e nel carattere coloniale del suo progetto nazionale.
Il nazionalismo israeliano è intrinsecamente legato all’ideologia sionista, che vede la Palestina mandataria come lo 'spazio naturale' per l’insediamento del popolo ebraico.
In questa prospettiva, al concetto “statico” di confine è preferibile quello “mobile” di frontiera, comune anche ad altre esperienze di insediamento coloniale.
La frontiera non va intesa come limite fisico, ma come “spazio mentale”, soglia critica tra la civiltà e la terra di nessuno (“non esiste qualcosa come un popolo palestinese”, dichiarava il primo ministro israliano Golda Meir nel 1969), oggetto di perenne conquista.

LO SPAZIO IDEOLOGICO E LO SPAZIO GEOGRAFICO DI ERETZ ISRAEL
Fin dalla sua costituzione nel maggio del 1948, lo Stato di Israele non non ha mai rivendicato dei confini chiaramente demarcati.
Per questo ancora oggi è l’unico paese dell’Onu a non avere dei confini universalmente riconosciuti (sebbene ci sia un consenso a riconoscere come legittimi i confini segnati dalla cosiddetta “linea verde”, la linea armistiziale del 1949).
Tuttavia, la storia della Palestina mandataria è stata scandita dai vari tentativi – tutti esterni - di spartire il territorio per tentare di soddisfare le rivendicazioni dei contrapposti movimenti nazionali sionista e palestinese, che hanno sempre guardato al territorio in questione come ad un’unità territoriale indivisibile: la Palestina o “Eretz Israel”.
La discrepanza tra il progetto ideologico del movimento sionista di creare una Eretz Israel (la Terra di Israele, concetto di origine biblica suscettibile di varie traduzioni geografiche) e le vicende che hanno di volta in volta inquadrato storicamente lo Stato di Israele entro dei confini “fisici”, ha segnato i successivi “avanzamenti” della frontiera israeliana nel corso del Novecento.
La prima demorcazione di confini fu stabilita il 29 novembre 1947, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione no.181, che prevedeva la partizione della Palestina in uno Stato arabo e in uno Stato ebraico.
Alla popolazione ebraica, che rappresentava il 23% della popolazione e possedeva solo il 7% della terra, fu accordato il 55% della Palestina mandataria.
Naturalmente la leadership palestinese rigettò la proposta come ingiusta, illegale e contraria al diritto all’autodeterminazione del popolo arabo-palestinese su tutta la Palestina.
Il principio della liberazione completa della Palestina fu sancito negli anni Sessanta anche nella Carta nazionale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp).
Dal canto suo, la leadership dell’yishuv (la comunità ebraica stabilitasi in Palestina), nonostante profonde divergenze al suo interno, decise per l’accettazione della risoluzione, vista come il riconoscimento del diritto del popolo ebraico a fondare uno Stato.
In realtà, l’obiettivo rimaneva Eretz Israel.
Lo stesso Ben Gurion affermò di essere “soddisfatto", promettendo però di abolire in futuro "la spartizione del paese" e di "espandersi in tutta la Terra di Israele”.
In seguito agli accordi di armistizio firmati nel 1949 tra Israele e Siria, Giordania ed Egitto, lo Stato ebraico si estese al di là dei confini stabiliti dal piano di spartizione Onu, per occupare il 78% della Palestina mandataria.
La Cisgiordania e Gerusalemme Est furono assegnati rispettivamente alla Giordania e la Striscia di Gaza all’Egitto. La frontiera israeliana avanzava così per la seconda volta.

CONFINI SICURI E DIFENDIBILI: IL PIANO ALLON
In seguito alla guerra del giugno 1967, Israele occupò l’intera penisola del Sinai, appartenente all’Egitto, le Alture del Golan della Siria, la Striscia di Gaza, sotto controllo egiziano, e tutta la Cisgiordania con Gerusalemme Est, che erano state annesse al Regno di Giordania.
La frontiera israeliana si espandeva per la terza volta, addirittura oltre i confini della Palestina mandataria.
Sempre nel 1967, Il Consiglio di sicurezza dell’Onu votava la risoluzione no.242, che sanciva il ritiro delle forze israeliane dai territori (“from territories”, nella traduzione inglese, lasciando nell’ambiguità di quali territori si trattasse) recentemente occupati, in cambio del riconoscimento degli Stati della regione entro confini sicuri.
La terra per Israele diventò sempre più l’arma negoziale nei confronti dei paesi arabi belligeranti. In seguito alla guerra dell’ottobre 1973 e ai nuovi rapporti di forza più favorevoli ai suoi avversari, la frontiera israliana subì un’ulteriore modifica con la restituzione del Sinai egiziano in cambio della pace.
Tuttavia, il “restringimento” a sud fu compensato dall’occupazione di una fascia di territorio nel sud del Libano, che avrebbe “allungato” temporaneamente la frontiera israeliana, fino al ritiro avvenuto nel maggio del 2000.
A questo punto Israele doveva risolvere il dilemma di come assicurarsi il controllo sul territorio e sulle risorse delle zone occupate evitando la responsabilità diretta sui milioni di palestinesi che vi vivevano.
Il Piano avanzato dal politico e generale Yigad Allon nel 1967 fu la prima di una serie di risposte a questo dilemma.
Nel Piano si proponeva la cessazione alla giurisdizione politica giordana delle aree massicciamente popolate dai palestinesi in “Giudea e Samaria” (la Cisgiordania), mentre Israele avrebbe mantenuto il controllo militare della striscia di territorio della Valle del Giordano.
Inoltre, attraverso la costruzione di nuove colonie, Gerusalemme Est sarebbe stata isolata - e quindi annessa - dal resto della Cisgiordania, e le aree popolate dai palestinesi sarebbe state ulteriormente frammentate.
“Nel determinare il nostro desiderio di una nuova mappa, considero la colonizzazione il fattore più simbolico”, dichiarava già nel 1968 l’allora ministro della Difesa Moshe Dayan.

GLI ACCORDI DI OSLO E LA GEOPOLITICA DELL’ENCLAVIZZAZIONE
Da questo momento in poi la frontiera israeliana viene progressivamente ridisegnata, più che da eventi bellici, grazie all’attività di colonizzazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (e delle Alture del Golan siriane).
L'espansione israeliana subisce un’impennata a partire dal 1977, quando sale al potere la destra nazionalista del Likud, nel cui statuto si enunciava chiaramente che “la colonizzazione della terra è una chiara espressione dell’incontestabile diritto del popolo ebraico sulla Terra di Israele”.
Ciononostante, la colonizzazione è diventato un progetto condiviso da tutti i governi succedutisi alla guida di Israele, così come il principio che “non deve esserci nessuno Stato tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo” al di fuori di Israele.
Nel periodo degli Accordi di Oslo, sotto il governo laburista, il numero di coloni israeliani nei Territori Palestinesi Occupati è più che raddoppiato.
Il processo di Oslo ha sancito ulteriormente la frammentazione della Cisgiordania – e, di conseguenza, l’estensione della frontiera israeliana -  che venne divisa in tre aree di controllo: una Zona A, sotto controllo palestinese, una Zona B, sotto controllo militare israeliano  e amministrativo palestinese, e una Zona C, sotto controllo israeliano.
Anche in seguito alla costruzione del muro di separazione ad opera del primo ministro Ariel Sharon, Israele non ha mai annunciato quali sarebbero stati i suoi confini ufficiali.
La politica israeliana del “prendere tempo” in infiniti round negoziali per costruire il più possibile “fatti sul terreno”, prima di eventuali negoziati sullo status definitivo, riflette l’obiettivo storico del movimento sionista di insediarsi su tutta l’area della Palestina mandataria, seguendo il principio del “massimo della terra col minor numero di arabi”.
A questo fine la “geopolitica dell’enclavizzazione” nei Territori Palestinesi Occupati, che mira allo smembramento delle aree popolate dai palestinesi, è finalizzata al controllo strategico sul territorio, con l'obiettivo di isolare le aree palestinesi e favorire l’insediamento coloniale israeliano.
La politica dei “fatti sul terreno” ha dato i sui frutti quando, nell’aprile del 2004, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, ha indirizzato al premier israeliano Ariel Sharon una lettera in base alla quale, nei futuri negoziati con i palestinesi, si doveva tenere conto delle “nuove realtà sul terreno”.
Lo scambio di lettere tra i due leader lasciava intendere che in un futuro accordo i blocchi più grossi di colonie sarebbero diventati parte di Israele, allontanandosi dalla legge e dal consenso internazionale in materia.
E infatti “i fatti sul terreno” sono stati già unilateralmente inglobati nel lato israeliano del muro di separazione (oltre il 10% della Cisgiordania), il cui tracciato è anch’esso in costante rimodulazione.

NON PUÒ ESSERCI NESSUN CONFINE
Nel caso in cui si dovesse raggiungere un accordo sui confini di un futuro “Stato palestinese”, questi consisterebbero in una moltitudine di frontiere interne e linee di separazione che delimiterebbero le aree palestinese in veri e propri bantustan circondati da colonie israeliane.
La “generosa offerta” fatta da Barak durante il vertice di Camp David del luglio 2000, che Arafat non ebbe il coraggio di accettare, attirandosi la condanna israeliana e statunitense, consisteva nel confinare la “sovranità palestinese” in quattro grandi enclaves (le città settentrionali di Jenin, Tulkarm, Qalqilya e Nablus; l’area centrale di Ramallah collegata alle aree periferiche di Gerusalemme e all’area di Gerico; la regione meridionale attorno a Betlemme ed a Hebron; la Striscia di Gaza).
Un’arcipelago situato all’interno di uno spazio a totale controllo israeliano.
Per tornare all’attualità, non deve stupire quindi che le linee generali sui confini avanzate ad Amman dall’inviato israeliano Isaac Molcho, come riportato da fonti palestinesi, “non includono Gerusalemme e la Valle del Giordano, e includono quasi tutti gli insediamenti” israeliani.
I negoziatori israeliani infatti, specialmente per quanto riguarda la “frontiera ad est”, non potranno che proporre un accomodamento temporaneo col “massimo della terra e il minimo di arabi”, e confidare in un futuro nel quale lo spazio ideologico dell’Eretz Israel coincida finalmente con lo spazio geografico così come storicamente determinato.
Solo in questo caso, probabilmente, i futuri leader israeliani potranno parlare di “confini”.

31 gennaio 2012
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