Amira Hass, “Palestina: l’informazione è corretta?”


Prima di parlare dei dettagli riguardanti le situazioni e i luoghi in cui si sono formati e agiscono i comitati popolari oggi più attivi contro l’occupazione, vorrei portare la vostra attenzione sulla dimensione personale della lotta che il popolo palestinese ha sviluppato, una dimensione che permette di affrontare nel quotidiano le sfide imposte dall’occupazione e fa sì che ciascuno, individualmente, debba sviluppare un progetto personale di resistenza. Una delle principali risorse del popolo palestinese, per quanto ho potuto osservare nei miei sedici anni vissutigli accanto – perché su questo si basa la mia esperienza – è proprio questo modello di lotta. Tuttavia, questa forma personale di resistenza non si è trasformata in una strategia di tipo collettivo o nazionale, gestita su un livello capace di coinvolgere l’intera comunità palestinese, o la nazione, nel suo insieme.In Palestina ci sono da tre milioni e mezzo a quattro milioni di persone che ogni giorno devono sfidare un governo e un’occupazione che agiscono in modo disonesto, deformando la realtà. Chi abita in Cisgiordania e a Gerusalemme, ogni giorno si chiede come poter sopravvivere e come lottare contro restrizioni che ostacolano ogni attività: muoversi, costruire abitazioni, piantare alberi, vivere … Non sto parlando dei prigionieri né delle famiglie dei prigionieri, di coloro che sono morti o dei loro familiari. Sto parlando dei modi in cui riescono a sopravvivere nel quotidiano le persone e di come riescono a dare dignità alla loro vita nonostante il regime di occupazione. Sto parlando anche dei fatti di Gaza, dove la popolazione vive ingabbiata – ma questo non accade soltanto da tre anni: sono vent’anni che Gaza soffre per le segregazioni imposte dall’occupazione – e sto parlando di come le persone sfidano questa realtà e riescono lo stesso a vivere come essere umani.Questa condizione non è nuova, né appare nuova agli abitanti della Palestina. Nella prima intifada si passò da questo tipo di lotta individuale a una resistenza organizzata, una lotta “di posizione”, per usare le parole dei Palestinesi. Si cercava di resistere rimanendo fermi, mantenendo saldamente le posizioni e puntando a organizzare questa forma di “sopportazione” per trasformarla in una strategia contro l’occupazione. Poi venne l’era di Oslo. Oslo fu il periodo in cui si sviluppò la speranza nei negoziati come strumento per porre fine all’occupazione. Un’idea che però si è rivelata inattuabile, almeno fino a oggi. Il disappunto per la situazione dopo Oslo favorì lo sviluppo dell’alternativa di lotta violenta, con l’uso di armi ed esplosivi contro Israele. Inizialmente, l’uso delle armi venne fatto proprio sia da persone che appartenevano all’Autorità palestinese sia da altri gruppi armati, ma questa tattica non coinvolse le masse, né la popolazione nel suo insieme: coinvolse individui che trovavano consenso nella popolazione in generale, tuttavia, anche se le conseguenze colpivano tutti, furono poche le persone direttamente implicate in azioni di violenza. L’uso della lotta armata raggiunse un punto estremo quando si arrivò alla seconda intifada. A mio parere la seconda intifada fu uno scoppio, un’esplosione del popolo: esplose la rabbia di chi non sopportava più lo iato esistente fra le parole e la realtà sul terreno, fu lasciato spazio alla violenza di chi non sopportava più l’accresciuta occupazione israeliana e le restrizioni che, ancora oggi, pongono ostacoli e limiti agli assetti essenziali della vita in Palestina. La seconda intifada cominciò così, ma fu poi in qualche modo sequestrata da persone che appartenevano all’Autorità palestinese e ad Hamas. Questo esproprio della seconda intifada fu inizialmente sostenuto dalla masse popolari, perché ci furono dimostrazioni con moltissime persone partecipanti, ci furono morti e l’esercito israeliano dovette intervenire applicando – per utilizzare le parole di Amnesty – un uso eccessivo della forza. Quindi ci furono le armi e ci fu il sostegno della popolazione che vedeva la lotta armata come un diritto di risposta, una vendetta. Si pensava forse, come era accaduto in Algeria, che gli attacchi contro i civili avrebbero portato infine a far sì che Israele capisse.
Anche se non c’è mai stato un dibattito aperto sull’utilizzo delle armi, a un certo punto però la gente di Palestina ha dovuto ammettere che non funzionavano e anzi, il loro utilizzo aveva portato a un peggioramento, piuttosto che a un miglioramento della situazione. È molto difficile discutere sul ridimensionamento della lotta armata, sull’utilizzo delle armi, perché c’è una forma direi quasi di riverenza, di ammirazione verso la resistenza armata, velata anche di romanticismo. Il mezzo – le armi dovrebbero essere un mezzo – in quelle circostanze, invece, diventano praticamente un fine. Non dico esattamente uno scopo finale, ma comunque assumono le caratteristiche di un fine e assumono anche un aspetto quasi sacrale. Inoltre, c’è una grande simpatia e una grande ammirazione verso coloro che si sacrificano. Questa è la contraddizione nell’uso delle armi. Nella società israeliana, poi, la lotta armata palestinese ha portato a un riallineamento sulle posizioni che inneggiavano alla sicurezza e ha portato altresì all’utilizzo della armi anche all’interno dei confini di Israele, perfino contro i cittadini israeliani. La società israeliana sostiene le misure coloniali repressive, quelle che si esprimono oggi nel muro.
Va però detto che Ehud Barack già nel giugno del 2000 aveva pensato che una qualche forma di barriera (non mostruosa come quella che c’è adesso, ma comunque una qualche forma di sbarramento che non seguisse la linea verde, né la frontiera esistente, ma che venisse considerata come il confine futuro e, quindi, ammettesse l’annessione di parte della Cisgiordania) era una cosa che andava realizzata. E questo accadeva ben prima della seconda intifada. Quindi, diciamo che a una certa reazione palestinese, Israele ha risposto aumentando la repressione e anticipando la messa in opera di decisioni che aveva magari già preso, giustificandole proprio in nome di questa reazione e accrescendone gli effetti, sempre usando la logica della reazione. Da questo punto di vista l’utilizzo delle armi da parte dei palestinesi ha rafforzato piani israeliani già preesistenti, per esempio l’annessione di nuovi territori, oppure la definizione della Palestina non più come un territorio o una popolazione ma come “entità” – l’entità palestinese – e, come conseguenza, anche la separazione pressoché definitiva di Gaza dalla Cisgiordania.Il tipo attuale di resistenza popolare, infine, è per certi versi nuovo, per certi altri antico. Ne fanno parte persone che lottano giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Questa forma di lotta si è sviluppata ed è cresciuta dopo che si è compreso il tradimento della lotta armata. Non c’è stata un’analisi pubblica, ma la gente se ne è resa conto, si è resa conto che non funzionava. Il colonialismo israeliano ha affrontato diversamente questa nuova situazione, questo modo diverso e popolare di resistenza. Forse è proprio questa nuova forma di lotta quella che può far sì che il mondo sappia cosa sta succedendo e può permettere ai Palestinesi di emergere da un lungo periodo di frustrazione. La lotta popolare non solo critica l’utilizzo delle armi ma pone nuove richieste alla leadership palestinese: ad esempio, chiede di riaprire i negoziati con Israele. Ma bisogna stare attenti: Israele, in realtà, ha trasformato i negoziati non in un mezzo ma nell’obiettivo, facendo in modo che si trascinassero a lungo, senza arrivare mai a dei risultati, mentre invece proseguiva il processo di colonizzazione. Quindi, la lotta popolare è da questo punto di vista una risposta diversa rispetto alle due modalità che si sono succedute negli ultimi quindici anni e che hanno entrambe fallito. Si ritorna alla prima intifada, o addirittura si ritorna a prima della prima intifada, a quello che le persone hanno continuato a fare a livello individuale, sfidando l’occupazione giorno dopo giorno. È la disobbedienza civile, è la lotta popolare quotidiana, non quella spettacolare. Il lavoro quotidiano consiste nell’inventarsi continuamente nuove forme di ribellione. È richiesta molta creatività per una simile strategia, ma è dimostrato che questa forma di resistenza permette di raggiungere alcuni obiettivi.
Prendiamo il caso di alcuni villaggi palestinesi che si trovano lungo il muro, in Cisgiordania. Laddove i villaggi hanno combattuto, si sono confrontati con l’esercito e hanno affrontato i costruttori edili, bene in questi casi la situazione di quei villaggi è stata discussa dall’Alta corte israeliana e la Corte israeliana ha preso delle decisioni correttive. Certo, il passaggio del muro rimane; certo, il tracciato non è stato riportato alla linea verde, c’è sempre stato un furto di terra, ma l’Alta corte ha dichiarato che il tracciato non era legato a motivi di sicurezza ma era stato scelto per prendere più terra ai Palestinesi. Questo ci indica un altro aspetto assai importante e che riguarda la tattica della resistenza: occorre moltiplicare la cooperazione fra Palestinesi e Israeliani, perché presso l’Alta corte, spesso, sono le associazioni israeliane dei diritti umani che si presentano, e si presentano con avvocati israeliani. E poi ci sono manifestazioni da parte di Israeliani che fanno conoscere alla società israeliana quel che è successo. Questa lotta bi-nazionale ha dato dei risultati, ha funzionato. Negli ultimi cinque anni è l’unica che ha dato risultati. Per molto tempo la stampa israeliana e i mezzi di comunicazione non hanno parlato di queste manifestazioni giornaliere o settimanali. Ma i grandi partner degli attivisti e dei giornalisti sono stati la polizia e l’esercito, perché l’esercito, lungo quello che possiamo chiamare il muro di separazione, da circa un anno partiva per dei raid quotidiani, per effettuare degli arresti, per scoraggiare insomma gli abitanti dei villaggi dal partecipare alle dimostrazioni. Hanno arrestato decine e decine di persone, spesso con incriminazioni molto labili, ottenute da dichiarazioni di quindicenni o sedicenni che erano stati intimiditi, non voglio dire con la violenza fisica, ma comunque tramite intimidazioni: questi ragazzi, quindi, avevano formulato accuse di ogni genere ma senza riscontro, che poi ritrattavano. E su questa base molto labile, decine di persone sono state arrestate.
Come conseguenza, questi eventi hanno attratto l’attenzione della società israeliana sul fatto che l’esercito stesse arrestando e stesse maltrattando persone che protestavano con metodi che erano considerati legittimi. Notate che io non ho usato, e nessuno qui ha usato il termine nonviolenza. Non l’ho usato e non lo userò riferito a questo movimento perché l’uso di questo termine sposta l’attenzione dalla natura violenta dell’occupazione alla natura della resistenza. Se io usassi l’aggettivo “nonviolenta” riferito alla resistenza, sarebbe come accettare l’occupazione nella naturalità degli eventi. Invece io giudico l’occupazione come di per sé violenta, non è della resistenza che devo discutere e decidere se sia violenta o non violenta. Per me l’occupazione è violenta nella sua natura in quanto tale, e anche quando non spara resta violenta. Invece, per quanto riguarda la resistenza devo osservare se è diffusa, se è popolare, non se è violenta o meno.Le misure repressive contro i manifestanti e le operazioni che ha fatto la polizia sono anche ciò che ha dato maggior notorietà alle attività dei dimostranti. Per esempio, sto pensando a quello che ha fatto la polizia per impedire le dimostrazioni in un quartiere di Gerusalemme. È stato impedito ai dimostranti di manifestare contro gli espropri che venivano effettuati in quel quartiere grazie anche al concorso del sistema legale dei tribunali israeliani. Tutti questi avvenimenti hanno spinto alcune persone a schierarsi dalla parte della protesta; non possiamo dire che queste persone facciano parte dell’opinione generale israeliana, ma comunque rappresentano la sinistra rispettabile. Non sono il mainstream della società israeliana, ma si considerano contrarie alla prese di posizione dalla polizia e dall’esercito e si sono schierati con la protesta.In passato, oltretutto, è accaduto che col passare dei mesi ogni forma di protesta si è andata trasformando in una specie di routine e quindi ha smesso di “fare notizia”. Invece, queste attività di repressione hanno fatto si che, di nuovo, le dimostrazioni diventassero notizia all’interno di Israele. Inoltre, ci sono dei nuovi trucchi, per così dire, per esempio le videocamere, filmare la repressione, – e ci vuole coraggio per farlo – un’operazione boicottata dalla polizia di confine o dall’esercito. Quando dei dimostranti sono portati in tribunale, l’esercito o la polizia dicono sempre di essere stati attaccati, anche se sono loro quelli pesantemente armati e gli altri dei diciottenni disarmati. I video però mostrano la verità. Spero di non aver dato l’impressione da quello che ho detto che tutti i media israeliani una volta a settimana o più parlino di queste cose. Se ho dato questa impressione scusatemi perché non è così. Occorre trovare continuamente modi per tenere alta l’attenzione. Altrimenti per i media la protesta diventa routine e, come sappiamo, i giornali odiano la routine e il passaggio dell’informazione non funziona. Bisogna trovare dei modi perché la notizia diventi più appetibile. Molte volte, purtroppo, è l’esercito che rende le notizie molto più visibile. Mi sto riferendo per esempio a quel che è successo nel mese di marzo a sud di Nablus, dove sorge un villaggio che come molti è minacciato dai coloni.
Allora, c’è stata una manifestazione e l’esercito o la polizia di frontiera hanno aperto il fuoco uccidendo due persone. Poi hanno affermato che erano stati usati solo mezzi legali per disperdere la manifestazione, hanno detto che non erano stati usati proiettili veri ma soltanto proiettili rivestiti in gomma. In molti però hanno testimoniato e hanno affermato che i soldati avevano mentito perché avevano usato proiettili veri, tant’è che erano state uccise due persone.Dallo scorso aprile è in vigore un nuovo ordine militare che permetterà a Israele di catturare o deportare i residenti nella Cisgiordania privi del regolare permesso rilasciato dalle autorità israeliane. Quest’ordine militare è stato promulgato in realtà sei mesi fa. È stato firmato, è stato pubblicato sulla gazzetta militare, come succede per i decreti e gli ordini militari e poi è apparso sul web, come succede per le leggi. Ma le leggi, diversamente dagli ordini militari, sono discusse in parlamento, mentre per un ordine militare non si sa chi l’abbia proposto, non viene sottoposto a pubblico scrutinio, non viene discusso, ma solo firmato e poi annunciato. Questa ordinanza militare è un emendamento di un’ordinanza del 1969 che era stata emessa per impedire o prevenire infiltrazioni in Cisgiordania, ossia per impedire a chiunque di entrare in Cisgiordania illegalmente con provenienza dalla Giordania, dalla Siria, dal Libano e dall’Egitto, che allora erano considerati stati nemici; attualmente la Giordania e l’Egitto non lo sono più. Quindi, il reato di infiltrazione si percepiva come commesso da persone provenienti da paesi ostili. All’epoca i palestinesi mandavano persone per organizzare la lotta armata o per la preparazione locale della lotta armata. Insomma, anche se non era detto chiaramente, l’ordinanza del 1969 era tesa a far sì che i gruppi armati o le persone che volessero provocare violenza non potessero entrare in Cisgiordania.L’ordinanza che è stata emessa adesso è diversa. Infatti è cambiata la definizione di “infiltrato”, cioè non occorre più che qualcuno arrivi dall’estero per essere considerato un “infiltrato”, il paese di provenienza non è importante per questa definizione; ora è “infiltrato” chiunque entri illegalmente in Cisgiordania e illegalmente significa senza permesso israeliano. Il concetto di “permesso” è il nuovo termine chiave a cui faccio riferimento. La parola “permesso” non c’era nell’ordinanza del 1969 perché questo concetto non era utilizzato quando fu emessa la prima ordinanza, è stato introdotto negli ultimi vent’anni ed è diventato il marchio dell’occupazione israeliana. Ora, ogni Palestinese può essere considerato un infiltrato se non ha il permesso per restare in Cisgiordania, per esempio se la sua residenza è a Gaza, anche se è entrato legalmente e anche se ha dei figli sul territorio, il suo soggiorno in Cisgiordania è considerato illegale. Io penso che quest’ordine sia il culmine di una serie di misure prese con l’obiettivo di separare Gaza dalla Cisgiordania. (a cura di Enzo Ferrara)Amira Hass, “Palestina: l’informazione è corretta?” conferenza a Torino del 19 aprile 2010

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