Akiva Eldar: con amici come questi
Pesanti nuvole si addensano sul vertice di oggi nell’assolata Sharm el-Sheikh. I fratelli Musulmani a Gaza, in Giordania, ed in Egitto, aleggeranno sui quattro leader che prenderanno parte ai colloqui, così come i fanatici del Jihad mondiale. L’Iran e Hezbollah saranno con loro dall’altro lato, mentre il fronte religioso israeliano di estrema destra attenderà in un angolo. E’ difficile dire quale poltrona di quale leader sia più traballante, e predire da quale parte giungerà il prossimo demone – dalla Siria, che ancora una volta è rimasta esclusa; da al-Qaeda, che sta alzando la testa in Iraq per dare uno sguardo all’orizzonte; o dall’opposizione egiziana, che subodora la debolezza della leadership e sta accumulando le forze in vista della battaglia per l’eredità.
E chi giunge tristemente da questa parte? Gli Stati Uniti, la superpotenza che fa la parte del leone nel panorama delle responsabilità del deterioramento della situazione in Medio Oriente. Chi è rimasto a casa? Il presidente George W. Bush, colui il cui semi-allucinante sogno di democratizzazione si è tradotto in un’autentica realtà di anarchia; colui la cui visione di due Stati – Israele e Palestina – è divenuta, nel corso del suo mandato, un sogno remoto. E’ difficile pensare ad un presidente americano che ha causato più danni agli interessi israeliani di quanto abbia fatto il presidente che è considerato uno dei più stretti amici di Israele di tutti i tempi. Nessun leader ha fatto più di Bush – per atti commessi e per omissioni – per distruggere l’Autorità Palestinese sotto Yasser Arafat e Mahmoud Abbas.
Fu Bush ad imporre le sciagurate elezioni ai palestinesi, nonostante il rifiuto di Hamas di adempiere ai termini degli Accordi di Oslo II riguardanti la partecipazione dei partiti politici al processo democratico. Bush diede la sua benedizione al sacrificio della Road Map sull’altare del disimpegno unilaterale, un atto di beneficenza nei confronti del “fronte del rifiuto” palestinese ed un colpo mortale al già danneggiato fronte della pace.
Quando Hamas fu trascinato all’interno del governo di unità nazionale e dell’accordo sul cessate il fuoco, con grande fatica, l’amministrazione Bush non risparmiò gli sforzi per sconfiggere la nuova alleanza. Ed ora, dopo aver cotto il tutto a puntino, Bush lascia i suoi “amici” a mangiare da soli, esortando all’uso di trucchi obsoleti per far resuscitare i morti, come quello di rimuovere i posti di blocco in Cisgiordania, e quello di liberare i prigionieri palestinesi. La visione dei due Stati dovrà attendere il prossimo presidente. Che fretta c’è?
E’ una buona cosa che Bush non fosse in giro 30 anni fa, quando il presidente egiziano Anwar Sadat decise che era tempo di porre fine alla guerra con Israele e di riottenere la penisola del Sinai. Bush avrebbe probabilmente rinnegato se stesso dicendo qualcosa come: “possono portare avanti per conto loro i propri negoziati con l’Egitto. Se il primo ministro israeliano vuole negoziare con l’Egitto, non ha bisogno che io faccia da mediatore per lui”, come il ‘leader del mondo libero’ ha detto dopo il suo incontro con Ehud Olmert la scorsa settimana, a proposito della posizione americana sulla promozione di un processo di pace con la Siria.
Non c’è modo di sapere come Israele e l’intero Medio Oriente sarebbero oggi se l’ex presidente americano Jimmy Carter, considerato problematico per Israele, avesse mandato Sadat a risolvesi le cose da solo insieme al primo ministro israeliano Menachem Begin, invece di invitarli entrambi al vertice di Camp David.
L’intervento americano fu una delle considerazioni primarie che portarono alla decisione egiziana, palestinese, e giordana di giungere ad un compromesso diplomatico con Israele. Bashar al-Assad aveva bussato alla porta di Bush chiedendogli di mandare un inviato ai colloqui con Israele, malgrado le aperte dichiarazioni americane a proposito dello speciale rapporto degli USA con Israele. L’alzata di spalle del presidente di fronte alle sue responsabilità nel processo di pace iniziato a Madrid nel 1991, sotto gli auspici di suo padre, ha distrutto uno dei più importanti vantaggi strategici di Israele: la convinzione – che gli fece ottenere una moratoria da parte dei suoi vicini – che l’unica capitale in grado di convincere Washington, e di godere dei suoi favori, fosse Gerusalemme.
I responsabili del governo Olmert stanno tirando un sospiro di sollievo di fronte al basso profilo americano. Ma per comprendere la profondità di queste implicazioni, bisogna andare a Damasco. Il vicepresidente Farouq al-Sharaa ha interpretato le affermazioni di Bush utilizzando le seguenti, penetranti, e rigorose parole: “Il presidente americano non vuole la pace fra Israele e la Siria”. I responsabili dell’intelligence israeliana hanno già ammonito che l’alternativa alla pace è una guerra imminente fra Israele e la Siria. Ciò significa che Bush si sta rifiutando di contribuire ad impedire un nuovo spargimento di sangue. Quale putiferio sarebbe scoppiato qui da noi se egli si fosse rifiutato di inviarci un solo cannone, o un elicottero, come gli USA sono soliti fare per aiutarci, per poi mandarci a gestire da soli la prossima guerra con gli arabi.
Akiva Eldar è un analista politico israeliano; scrive abitualmente sul quotidiano “Haaretz”
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