"Ospedali di Gaza, dramma di un'infanzia ingabbiata"




Ma i tassisti devono disperatamente trovare il carburante. In mattinata si apre uno spiraglio: dopo la quinta notte di bombardamenti contro obiettivi di Hamas, Israele ha riaperto alle merci il valico di Karni per permettere la ripresa di rifornimenti carburante, di derrate alimentari e medicinali. Ma la gente di Gaza non si fa illusioni: attende il peggio e si prepara a resistere. Panetterie e supermarket sono presi d'assalto da centinaia di donne che cercano di accaparrarsi generi di prima necessità in grado di soddisfare il bisogno delle loro famiglie, almeno per alcuni giorni. «Ho comprato 6 chili di farina per fare il pane in casa, latte in polvere per i miei bambini e un po' di scatolette. Certo, è poca cosa, ma sappiamo resistere e quello che ad altri basterebbe solo per qualche giorno, a noi palestinesi invece basta per settimane», dice Zahira, 41 anni e 5 figli, uscendo dall'«Al-Ein Supermarket» a Rimal, sul lungomare di Gaza City. «La strategia di rendere difficile la vita per la popolazione civile è stata portata ai limiti, ormai molte famiglie vivono di un solo pasto al giorno», denuncia un recente rapporto del Programma mondiale alimentare (Pam). E per molti oggi a Gaza anche quel pasto giornaliero sta divenendo una chimera. Le parole di Zahira racchiudono lo stato d'animo degli «ingabbiati di Gaza»: disperazione e orgoglio. Paura e determinazione a resistere. «Non ci arrenderemo mai», proclama Mahmud, 16 anni, miliziano dei Comitati di resistenza popolare. Ma è difficile resistere, sopravvivere quando hai 6 anni, come Nabil o 4, come Hanan. Bambini che incontriamo al Nasser Hospital, l'ospedale dei bambini a Gaza City. Nabil, Hanan, Khalil (3 anni), Intizar (7), Yasser (3): grandi occhi in piccoli visi scavati dalla malattia e dall'indigenza. Volti, nomi, storie che danno corpo al grido d'allarme lanciato dall'Unicef. «Le violenze senza precedenti delle ultime settimane, per gli scontri tra fazioni palestinesi e l'intensificarsi delle operazioni militari israeliane - afferma in un comunicato - pongono a serio rischio l'incolumità di donne e bambini palestinesi, la cui salute e nutrizione sono già minacciate dal collasso del sistema sanitario e dei servizi pubblici di base, a causa del blocco finanziario». La denuncia dell'Unicef ci accompagna nell'ora trascorsa tra i piccoli ammalati del Nasser Hospital. Una esperienza che lascia il segno. «Negli ospedali di Gaza -sottolinea il rapporto dell'Agenzia dell'Onu per l'infanzia- le scorte di medicinali di base sono esaurite già da fine maggio, scarseggiano perfino aspirine ed antibiotici e mancano forniture e attrezzature mediche, soprattutto per i reparti di maternità». «È una situazione disperata...», afferma la dottoressa Layla Shihadeh, la pediatra che ci accompagna nella visita. Un «viaggio» nel dolore, tra una umanità sofferente ma dignitosa. La situazione è disperata, dice la dottoressa Shihadeh. «Le difficoltà nel mantenimento di forniture idriche e del funzionamento degli impianti igienico-sanitari hanno contribuito a un aumento delle malattie contagiose all'interno degli stessi ospedali e, nei villaggi rurali, delle malattie diarroiche», sottolinea l'Unicef. «I team sanitari mobili - conclude il rapporto - sono impossibilitati a spostarsi per mancanza di carburante e veicoli funzionanti; nelle scuole carta e sapone sono esauriti e bambini e insegnanti hanno difficoltà a recarvisi, per il moltiplicarsi di check point, posti di blocco e restrizioni di movimento». Ci avviciniamo ad un lettino. Da sotto le lenzuola, esce un flebile lamento. Appartiene a Hania, 7 anni. Hania soffre di una grave insufficienza renale. Il suo volto è contratto dal dolore. La dottoressa Shihadeh le stringe la manina e le deterge la fronte dal sudore. Le sorride, ha parole di conforto per Mohammad e Rita, i genitori di Hania che la vegliano giorno e notte. Ma una volta lasciato il padiglione, non riesce a trattenere le lacrime: «In una situazione normale -dice- Hania potrebbe essere curata e guarire. Ma qui, qui la sua sorte è segnata...». Come è segnato, nella psiche prima ancora che nel fisico, il futuro dei bambini della Striscia. «Qui non c'è bambino -racconta il dottor Mayssoun Hanzeh, psichiatra infantile che opera a Khan Yunes, nel Nord della Striscia, teatro di continui scontri armati tra le truppe israeliane e i miliziani dell'intifada- che non abbia un padre o un fratello esiliato, incarcerato o ucciso. Quando arrivano i soldati e riempiono di botte un padre di famiglia, i bambini lo vedono. In casa c'è una stanza sola. Vedono i soldati picchiare i loro padri. Secondo te che effetto può fargli? Ci domandano se anche nel resto del mondo la gente vive così». No, il resto del «nostro mondo», non sa neanche cosa significhi vivere nella «gabbia di Gaza». «Noi cosa possiamo rispondere? - incalza il dottor Hanzeh -. Quando viene da me un bambino di tre anni e mi dice: "Sono arrivati gli ebrei e hanno picchiato mio papà, gli è caduta per terra la roba che ha in pancia ma lo abbiamo portato in ospedale e hanno detto che lo riparano..."».Storie di sofferenza, storie di bambini costretti a diventare adulti troppo in fretta e a imparare a convivere con una normalità scandita dalle armi e dalla violenza. È la storia di Rula, 13 anni ferita a una gamba da uno sparo, gettata in un'auto militare e colpita più volte sulla gamba ferita. Mi raccontano che ha detto: «Non ho mai urlato, ma non per coraggio, solo perché avevo paura che mi ammazzassero». È la storia di Jihad Badr, 15 anni, che badava alle sorelle e a fratelli piccoli dopo che la madre è morta di cancro, sopravvissuto a un tumore al cervello e ucciso da un proiettile vagante in uno scontro a fuoco tra soldati israeliani e attivisti della Jihad islamica. È la storia di Jibril, 7 anni, soffriva di insufficienza cardiaca, è morto dentro un'ambulanza bloccata per ore, per «ragioni di sicurezza», ad un posto di blocco israeliano. Storie di bambini che rischiano la vita, e spesso la perdono, per cinque shekel (meno di un euro): tanto valgono 50 chili di metallo, frammenti di ferro, ciò che resta degli obici sparati dall'artiglieria israeliana, per poi cederli ai miliziani che non si fanno scrupolo di sfruttare i bambini per questa sporca guerra. Intizar è stata più fortunata dei suoi due fratellini: loro avevano raccolto pezzi inesplosi da 155mm e volevano recuperare la carica. L'esplosione li ha dilaniati. Intizar si è salvata per miracolo: si era attardata a giocare con un'amichetta, a qualche centinaio di metri di distanza, ma una scheggia l'ha raggiunta al volto e ora rischia la cecità. Tra i bambini, sottolinea il dottor Hanzeh, sono molti i casi di gravi depressioni con manie suicide, ansie, nevrosi, psicosi, fobie e paure. Un problema piuttosto diffuso tra i più piccini - spiega lo psichiatra infantile - è la perdita della capacità di trattenere le urine, che è scatenata da situazioni di forte shock, quali, ad esempio, l'irruzione in piena notte e nelle loro case, di soldati israeliani che li travolgono (spesso i bimbi dormono su materassi distesi sul pavimento), li colpiscono con i fucili o i calci, e si portano via i fratelli più grandi e il padre. Issa è un bambino del campo profughi di Bureij. Leila, sua madre, dice che è completamente cambiato negli ultimi nove mesi. Lamenta mal di testa, fa la pipì a letto ogni notte, è aggressivo con le sorelle. Dice che Issa ha difficoltà a dormire e che frequentemente si sveglia durante il sonno, tremando di paura. Issa era normale, fino a quando, una notte, i soldati sono penetrati in casa sua, hanno picchiato il padre e il fratello maggiore. Issa dice: «Ho sempre paura dei soldati. Hanno picchiato più volte i miei amici a scuola e gli insegnanti. Scappo quando li vedo. Li vorrei picchiare, ma sono molto forti e armati. Uccidono». Il dottor Khalid Dahlan è un giovane psichiatra che ha realizzato un centro di assistenza psicologica per bambini a Gaza. I dati che riporta sono angoscianti: «Il 99,2% dei bambini a cui prestiamo soccorso ha avuto la casa distrutta con bulldozer o bombardata; il 95,6% ha assistito a una sparatoria; il 97,5% ha respirato gas lacrimogeni. Un terzo di loro ha visto un familiare o un vicino ferito o ucciso. E tutti sono fortemente traumatizzati». L'aria a Gaza è irrespirabile. Polvere, calura, montagne di spazzatura che restano lì, agli angoli delle strade, perché non c'è benzina per i camion della nettezza urbana. Sopra di noi volteggia un elicottero Apache. Feisal, il nostro accompagnatore, è nervoso: «Dobbiamo andarcene - ripete - prima che faccia notte». Perché la notte a Gaza è popolata dai «mostri» che dal cielo eruttano razzi. A Gaza si è smesso di sperare. L'ultimo sogno è quello della fuga. Una fuga disperata. Come quella tentata, e fallita, nei giorni scorsi a Rafah, quando miliziani palestinesi hanno aperto un varco nel muro di confine tra la Striscia e l'Egitto. La possibilità di una migrazione oltre frontiera di migliaia e migliaia di persone disperate per la mancanza di elettricità e acqua si fa sempre più concreta. Per questo l'Egitto ha rinforzato le truppe di stanza al confine. Una famiglia palestinese, padre, madre e sette figli, è stata ricacciata indietro dai soldati egiziani. Vengono da Beit Lahya, nel Nord della Striscia. Racconta Khaled, 43 anni, il capo famiglia: «La nostra casa - dice - è stata distrutta in una incursione israeliana. Vivevamo in un accampamento, ammassati in una tenda, in mezzo alla sporcizia, ma gli israeliani hanno ordinato di lasciare anche quel posto in vista dell'offensiva». Khaled ha cercato di raggiungere un suo cugino in Egitto. È stato respinto con la forza dai gendarmi egiziani. Neanche i «fratelli arabi» hanno pietà per gli «ingabbiati di Gaza».


Unità 3-1-2007

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