Buon
non-compleanno, Gaza 01/07/2015 / 13 views Palestinian Diaries: storie
di divisioni e condivisioni davanti ad uno specchio di Costanza Pasquali
Lasagni Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo...
Palestinian Diaries: racconti di vita quotidiana e realpolitik, di sopravvivenza e dignità
di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
È un periodo di ricorrenze qui in Palestina. Non tutte felicissime,
anzi. Ti ricordano, come tocchi dell’orologio a cui non puoi scampare,
che qui la storia è fatta di passaggi che non puoi dimenticare. Che per
quanto hai provato a mettere via, e continuare a vivere, niente, tornano
sempre, e non sempre hai i mezzi, gli strumenti, per non esserne
risucchiato come in un buco nero.
Si è cominciato a metà maggio, con l’anniversario, il 67simo, della
Nakba, la ‘catastrofe’, l’esodo forzato di, ormai appurato nei libri di
storia, 800,000 palestinesi dalle loro città e villaggi d’origine.
Quest’anno, invece dei numeri e delle tattiche di guerra descritte
dai vari Morris, ho impresse le descrizioni narrate da Susan Abulhawa
nel suo libro Nel blu tra il cielo e il mare, storie di fughe,
violenze, abbandoni, morti, e carovane di persone che si incamminano per
un nuovo incertissimo e sconosciuto presente. Profughi come quelli che
oggi attraversano il filo spinato dei confini, portandosi dietro quel
che si può. C’è un lato umano in tutti i libri di storia, anche se non è
scritto.
Si è continuato con il 6 giugno, giorno in cui l’Ihtilal,
l’occupazione, la seconda secondo la storia palestinese, ha compiuto 48
anni. Mezzo secolo di colonizzazioni materiali e psicologiche e
pattuglie armate, mezzo secolo di vite nate che hanno conosciuto solo
questo, uno strumento di guerra che è diventato una compagnia costante,
una presenza ingombrante, una serie di nuovi modi di vivere, uno per
tutti la (il)logica dei permessi.
Terra in cambio di pace, era lo slogan degli anni novanta, come se
si potessero risanare decenni di cicatrici, portate da tutti, solo con
un taglia e cuci geografico. Come se la pace dovesse avere un prezzo,
invece di essere gratuita, libera, accessibile, semplicemente l’opzione
migliore che l’umanità abbia a disposizione.
Il 16 giugno l’embargo di Gaza ha compiuto otto anni. Da otto anni cemento, fogli A4,
ovetti kinder e altri materiali “dual-use”, cioè che potrebbero usati
in ambito bellico, non entrano a Gaza. E le persone non escono, insieme
alle esportazioni di prodotti agricoli e prodotti dell’economia gazana. È
tutto fermo, congelato, insopportabilmente e perennemente bloccato,
chiuso, serrato. L’ennesima Flotilla che ha provato ad avvicinarsi a
Gaza è stata anche lei respinta.
Ma il compleanno più atteso è quello che festeggerà, ironicamente,
s’intende, Gaza, il prossimo 7 luglio. Un anno fa, quel giorno,
cominciava l’ultimo dei capitoli della storia tormentata della
Palestina, e uno dei più tristi. Uno che sicuramente sarà ricordato nei
libri di storia per l’enorme numero di vittime civili, sopratutto
bambini, ad una media di dieci bambini al giorno, solo per fermarci a
loro. Uno che sarà registrato come il più sanguinoso di conflitti da
quei lontani sei giorni di quasi cinquant’anni fa. Un altro segno,
un’altra cicatrice, un altro allontanamento, come quelle crepe i cui
bordi, a terremoto finito, sono sempre più distanziati e inavvicinabili.
Pochi giorni fa, l’UNRWA è riuscita finalmente a chiudere i
collective centers, il nome tecnico che è stato dato alle scuole che per
quasi dodici mesi sono stati la casa di centinaia di famiglie, dal
picco di oltre 100 scuole e 500,000 rifugiati dello scorso agosto, alle
200 persone circa, una decina di famiglie, che erano ancora fino lì
qualche giorno fa. Dove sono andati? Di sicuro non a casa loro, dato che
le loro case continuano a non esistere.
Sussidi per l’affitto, alloggi temporanei, caravan, tende, famiglie
ospitanti. Qualsiasi cosa è meglio che stare in un migliaio in un
edificio, senza privacy, igiene, dignità, senza sapere quanto durerà.
Perché un conto è passarci qualche notte. Un conto è viverci per un
anno. Certo, senza gli shelters messi a disposizione sarebbe stato molto
peggio. Dove eravamo in questo anno, cosa stavamo facendo? Magari
appendevamo un quadro o fissavamo una mensola, mentre c’è chi faceva di
quattro cose, un tappeto, due pentole e qualche materasso, un nucleo e
l’ha chiamata casa, perché quello era.
Chiedo a T., il mio collega e super amico a Gaza, mentre
attraversiamo l’ennesima zona straziata, Johr ed Dik, sud est di Gaza
City, appena più giù di un altro quartiere tristemente famoso,
Shaja’iyeh, di raccontarmi la storia di questa area. Come tutte le aree a
ridosso del confine orientale, è -era- principalmente una area agricola
e di beduini. Una, due, tre guerre hanno infierito, ora è un insieme,
nemmeno troppo insieme, di pezzi di legni-lamiera-tende-mattoni a
costituire case o rifugi. Dal temporaneo al permanente, sembra che il
destino sia inevitabile, un tatuaggio. T. mi racconta la storia di un
uomo che abitava lì, e dopo la seconda guerra aveva deciso di vendere il
suo asino, una risorsa fondamentale nell’economia rurale di Gaza dove
la benzina è sempre più introvabile, e quindi costosissima, per comprare
un tuk-tuk. Per essere pronto a caricare su tutta la famiglia e
scappare più in fretta, dato che l’asino non è proprio una Ferrari, nel
caso fosse arrivata un’altra guerra.
La guerra, un anno fa, è arrivata, e il suo triste piano ha
fortunatamente funzionato. Sono scappati, qualche chilometro più a
ovest, in una delle tante scuole-shelters. A guerra conclusa, l’uomo,
come molti, ha fatto ritorno alla propria casa, a controllare la
situazione, prendere qualcosa per la famiglia. La casa non c’era più.
Continuiamo a guidare, e riesco a distinguere le case in
ricostruzione, certo, non case che non esistono più, perché di quelle
18.000 purtroppo finora non ne è stata costruita nemmeno una, ma di
quelle da riparare. Il grigio più acceso dei mattoni e del cemento
recentemente applicati, è quella la parte ricostruita, spicca dai
palazzi sbocconcellati. Alle volte il rattoppo è solo un buco nel muro, a
volte una parete, un piano intero.
Le macerie in molte zone sono state rimosse e portate ai crushing
sites, dove vengono ridotte in pezzetti utili per basi stradali.
Potrebbe costruirla Gaza la Salerno-Reggio Calabria, con tutte le
macerie di questi anni. E le macerie umane? Sono sempre lì. A ricordarti
che sei anche tu un essere umano, tanto quanto loro. C’è chi ha detto,
basta khalas, questa è l’ultima guerra che voglio far vivere alla mia
famiglia, ed è riuscito, uno ad uno, in quei brevi periodi di apertura
di Rafah, il confine con l’Egitto, aperto solo una decina di giorni
negli ultimi sei mesi, a farli uscire tutti, manca solo lui. “Inchallah
soon”, mi dice mentre ci salutiamo al border, io sulla mia via del
ritorno verso Gerusalemme e un altro pezzo di Palestina, spero di non
vederti la prossima volta, è l’augurio che mi ritrovo a fare, perché
vuol dire che sarai fuori da qui. Dalla “Gabbia”, come la chiama T.
Un anno dopo, un passo alla volta, la vita va avanti, perché, come
dice S. “che altra opzione abbiamo?”. L’essere umano, come tutti gli
animali, è naturalmente resiliente. I bambini hanno messo su qualche
chiletto e a scuola si divertono, mi racconta una mamma che ho
conosciuto a febbraio e sono tornata a visitare recentemente. Le scuole
sono finite, i bimbetti giocano in strada, o tengono carretti di frutta,
o si affollano in spiaggia.
No, certo che non è tutto normale, neanche un po’. Te lo ricordano
le case fatte di tappeti e lamiere, l’acqua salata e oleosa che esce dal
rubinetto, la bottiglia di acqua minerale per l’ultimo risciacquo è lì
appoggiata alla doccia. È estate, e non devo nemmeno scaldarla con il
bollitore come facevo questo inverno.
Un altro anno è passato a Gaza, e non sappiamo cosa succederà tra qualche giorno. Perché ogni giorno è un po’ come Il giorno della marmotta
in quel film con Bill Murray, riparti da zero. In attesa che arrivi un
permesso per partecipare ad un campo estivo americano o una visita
medica specialistica a Tel Aviv, sempre che arrivino. Ogni giorno a
ricostruire un altro pezzetto, a reinventarsi un nuovo modo di
sopravvivere e al tempo stesso continuare quello che si stava facendo
prima. La vita va avanti, ogni giorno, come un non-compleanno, che certo
compleanni come questi non vorremmo mai doverli festeggiare,
nell’attesa che l’umanità capisca, e non solo perché lo ha detto il
report del think tank numero mille, Rand Corporation,
che fare la guerra è piu’ costoso che non farla, ma perché ormai
dovremmo imparato sulla nostra pelle, che la pace è la migliore opzione
che abbiamo.
Buon non-compleanno, Gaza. Con tutto il cuore.
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