Ugo Tramballi :Se il Papa fa politica in Medio Oriente





Fra i punti programmatici del nuovo governo israeliano, pubblicati ieri, non esiste la trattativa con i palestinesi per raggiungere la soluzione dei due stati, come chiedono Barack Obama, l’Europa e la comunità internazionale. Non è nei piani di un governo nel quale molti ministri vogliono, al contrario, moltiplicare gli insediamenti ebraici nei Territori occupati.
È anche questo che ha spinto lo stato Vaticano a decidere di firmare con «lo Stato Palestinese» e non solo con l’Autorità amministrativa palestinese, un accordo sulla libertà di culto dei cristiani in Terra Santa. Il riconoscimento statuale è più che esplicito. Sabato Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese della Cisgiordania, andrà in Vaticano per firmare l’accordo con papa Francesco. È chiaro che dopo la formazione del nuovo governo di Gerusalemme, le dichiarazioni dei ministri e le sue prime decisioni, Israele non riavvierà alcun negoziato di pace. È stato questo a far cadere gli ultimi dubbi della Santa Sede, cauta e aperta al dialogo con Israele da quando Giovanni Paolo II andò in visita a Gerusalemme, nella primavera del Duemila.
È solo un inizio. Fino ad ora il riconoscimento dello stato palestinese era stato fatto da molti parlamenti europei come gesto morale più che politico: si riconosceva il diritto palestinese all’indipendenza politica, più che lo stato in sé. L’iniziativa vaticana è invece piena di contenuti politici. D’ora in poi anche per Barack Obama sarà difficile porre il veto contro ogni risoluzione Onu che riguardi Israele. Presto l’amministrazione americana troverà l’occasione di dimostrarlo con una risoluzione che sta per essere presentata dalla Francia al Consiglio di sicurezza.
Così come l’Unione europea avrà meno esitazioni nell’imporre il boicottaggio economico su ciò che viene prodotto nelle colonie: il piano è praticamente già approvato. Solo la moderazione e l’opportunità politica lo avevano fermato. La ragione israeliana era sempre la stessa: la pace si deve raggiungere col negoziato; qualsiasi iniziativa politica al di fuori del negoziato diretto fra israeliani e palestinesi, rischia di minare la trattativa. È per questo che l’amministrazione Obama non aveva cambiato il tradizionale orientamento americano a favore di Israele, comunque sia. Ed è per questo che anche la Ue aveva preferito aspettare.
Per un governo di estrema destra nazional-religiosa, sarà ora difficile usare il pretesto di un negoziato che per primo non intende riaprire. Inizia una fase nuova, non necessariamente meno incerta e pericolosa. Aiutati dal clima internazionale, i palestinesi insisteranno con quella che definiscono “Intifada diplomatica”.
Spinto anche dalle azioni del suo esecutivo radicale, Israele tenderà invece a sentirsi isolato. La storia degli ultimi cinquant’anni dimostra che non accade niente di buono quando gli israeliani credono di essere senza amici.

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