Susanna Allegra Azzaro :L’arte in Palestina




di Susanna Allegra Azzaro
Pittura, cinema e teatro in una terra dove aleggia lo spettro della catastrofe
L’arte rende ottimisti e soddisfa il nostro bisogno di ricerca del bello. Questo almeno è quanto afferma l’ormai alla moda saggista svizzero Alain De Botton nel suo “L’arte come terapia.The school of life”, libro non privo di riflessioni sull’effetto curativo dell’arte e sul perché del suo proliferare anche in situazioni a dir poco estreme.
Ultimamente si è fatto un gran parlare dei graffiti dell’enigmatico Banksy a seguito dell’ultimo attacco su Gaza, ma ben poca attenzione è stata rivolta alla florida scena artistica palestinese, da anni impegnata a far conoscere al resto del mondo la propria nakba, catastrofe in lingua araba, nonostante proibizioni e leggi al limite dell’assurdo.
Nel 1993 è stata abolita una legge del parlamento israeliano che proibiva l’utilizzo dei colori della bandiera palestinese in opere dal “significato politico”; recentemente si è discusso su un eventuale ripristino della vecchia legge, nel frattempo però la bistrattata bandiera è stata bandita da tutte le manifestazioni pubbliche.
Esistono numerosi limiti alla libertà d’espressione per gli artisti palestinesi, limiti spesso arbitrari e lasciati alla discrezione di individui dalle competenze dubbie. Ragazzini costretti alla leva obbligatoria di due anni, per intenderci, hanno il potere di confiscare un’opera qualora ritenuta “di natura politica” , secondo quanto stabilito dalla legge.
Nel suo interessantissimo libro “Buongiorno Palestina”, la giornalista Fiamma Arditi va alla ricerca tra New York, Roma, Gerusalemme e Ramallah di artisti palestinesi la cui fama è riuscita a superare muri e frontiere ostici da valicare.
Per i palestinesi oltrepassare un posto di blocco infatti può diventare una vera e propria impresa legata alla fortuna o alla “benevolenza” del militare di turno, ma l’arte, nelle sue forme più disparate, si muove e smuove, supera confini e controlli minuziosi dei passaporti.
Dai siti internet specializzati fino ai festival di cinema e biennali, gli artisti palestinesi si sono meritatamente guadagnati il loro spazio nella scena internazionale, coscienti della grande responsabilità che ricade sulle loro spalle ma anche della solidarietà di cui godono.
In un’epoca in cui abbiamo assistito alla demolizione di ponti e costruzione di muri, l’arte diventa comunicazione e via d’uscita da un isolamento forzato spesso difficile da contrastare.
Di questa opinione è Zakaria Zubeidi direttore del Freedom Theatre di Jenin, fondato dall’attore Juliano Mer-Khemis ucciso dall’esercito israeliano nel 2011.
Il teatro diventa terapia per i ragazzi profughi di Jenin che rischiano di cadere nella spirale della violenza e della vendetta così come accadde molti anni fa allo stesso Zakaria, a cui l’esercito israeliano ha ucciso, nell’arco di pochi giorni, madre e fratello.
Shereen Abu Aqleh, giornalista palestinese per Al Jazeera in Israele e territori occupati, dopo essersi trasferita nel 1994 a Gaza diede vita a una rubrica radiofonica in cui, con toni pacati ed equilibrati, informava giornalmente su quanto avveniva a Gaza. Oggi vive a Ramallah, divenuta nel corso degli anni il fulcro dello scenario artistico palestinese; qui infatti ogni anno a luglio si tiene il Palestine International Festival, a cui partecipano artisti internazionali e non di danza, teatro e musica, senza dimenticare il Palfest per la letteratura e musica contemporanea, l’Ak Kasaba International Film Festival e numerose altre iniziative che hanno contribuito a rendere l’atmosfera di questa cittadina più rilassata e libera rispetto ad altre della West Bank.
L’arte è resilienza; dal teatro al cinema, passando per il rap di denuncia all’arte contemporanea, per molti giovani palestinesi arte vuol dire anche unica evasione possibile da un’esistenza non facile.
Così è stato per Rashid Masharawi, probabilmente uno dei registi palestinesi più amati i cui film, acclamati anche dal pubblico occidentale, raccontano con un pizzico di ironia, le difficoltà della vita quotidiana per gli abitanti di Gaza.
Cresciuto in un campo profughi, Masharawi si dedica fin da piccolo alla pittura per poter evadere da quella stanza piccola e sovraffollata che condivide con la sua numerosa famiglia. Intorno a lui fame e incertezza per il futuro, ma Rashid, attraverso i colori, entra in una realtà diversa e luminosa dove tutto scorre normale e senza intoppi.
Difficile non fare il parallelismo con la bellissima mostra “Noi diamo[+]senso” allestita qualche mese fa in un ex manicomio della periferia romana. In una video installazione dell’artista César Meneghetti, una delle ospiti del centro affermava di aver scoperto con la pittura l’esistenza dei colori stessi, essendo a lei preclusa la luce del sole anche per lunghi periodi di tempo.
L’arte è forse inutile come affermava Oscar Wilde, ma ben venga se aiuta a dare un po’ di speranza a chi la vita mette a dura prova, e se aiuta anche a sognare, tanto meglio.
Così come è successo al pittore Khaled Hourani, che nel suo sogno impossibile ha creduto fino in fondo e che nel giugno del 2011 ha realizzato, grazie alla sua tenacia, un’impresa quasi titanica: portare un’opera di Picasso, “Busto di donna”, in Palestina. Per la prima volta nella storia un capolavoro dell’epoca moderna sbarcava nei territori occupati e sulla cassa che lo trasportava una scritta dai caratteri cubitali diceva “Palestina”, un paese che sembrava quasi esistere e che quel 24 giugno si stringeva attorno all’opera di quell’artista che nel 1937 aveva descritto nel Guernica l’orrore della guerra in uno dei massimi capolavori di tutti i tempi.
Per un giorno la bellezza inutile dell’arte è diventata protagonista assoluta lì dove normalmente aleggia lo spettro dell’inarrestabile catastrofe.

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