Giorgio Gomel : J-Street: che fare?
J-Street: che fare?
di Giorgio Gomel
Ho partecipato all’incontro annuale di
J-street tenutosi a Washington appena qualche giorno dopo le
elezioni del 17 marzo, intervenendo a nome di Jcall in una
sessione dedicata all’irrompere di un “nuovo” antisemitismo e al
futuro degli ebrei in Europa. Tema complesso, spesso esagerato
in modo semplicistico e con toni talora apocalittici sui media
americani con paralleli forzati con gli anni ’30, sul quale
dovremmo discutere con più serietà. Ricordo in materia
l’indagine pubblicata dalla European Union Agency for
Fundamental Rights sulla percezione dell’antisemitismo in
diversi paesi della UE, peraltro prima dell’ondata virulenta del
2014-15 (cfr. EUAFR, Discrimination and hate crime against
Jews in EU member states).
Il tema principale dell’incontro, per
un’associazione nata sette anni fa in antitesi agli organismi
ossificati dell’ebraismo americano monocordi nel sostegno
acritico dei governi di Israele e con l’obiettivo della
soluzione “a due stati” - uno stato palestinese in rapporti di
buon vicinato con Israele e una legittima, pacifica esistenza
per quest’ultimo come stato ebraico e democratico - è stato il
“che fare” dopo la vittoria elettorale del Likud, la formazione
in atto di un governo di partiti di destra e religiosi e i
proclami di Netanyahu contro la nascita di uno stato sovrano
della Palestina. (Per il programma, le sintesi registrate e
altri materiali cfr. www.jstreet.org).
Il clima, pur segnato dalla frustrazione
per il risultato e dall’inquietudine per un Israele che ci
appare via via più isolato, paralizzato in un vicolo cieco, con
l’annessione di fatto di parti corpose di territori che
dovrebbero costituire quello stato palestinese e l’incombere
quindi di un futuro stato “binazionale”, non era rassegnato alla
sconfitta. Anzi, grande vitalità organizzativa con 3000
partecipanti di cui oltre 1000 studenti, quasi 200.000 aderenti,
e forza politica: nel discorso inaugurale il suo Presidente,
Jeremy Ben Ami, ha affermato da un lato che Jstreet continuerà
ad opporsi all’occupazione e all’espansione delle colonie e
deprecato dall’altro la tattica elettorale di Netanyahu, la sua
istigazione alla paura e alla paranoia negli elettori, il
razzismo anti-arabo e l’uso partigiano del Congresso nelle mani
dei repubblicani. Quest’ultimo tema è stato ripreso con forza
dal rabbino Rick Jacobs che guida la Union of Reform Judaism -
la principale associazione ebraica con quasi due milioni di
aderenti: Netanyahu ha provocato una frattura profonda fra gli
ebrei americani e Israele, rompendo una tradizione “bipartisan”
di sostegno a Israele e costringendoli a scegliere fra la
fedeltà a valori progressisti e il sostegno ad Obama e il loro
impegno in favore di Israele e di un futuro di pace per il
paese. La stessa AIPAC - la solida organizzazione di lobbying in
difesa di Israele in genere pedissequamente vicina al suo
governo - vive con qualche imbarazzo la “santa alleanza” fra il
Likud e i repubblicani d’America.
Un’ovazione ha accolto il discorso di
Denis McDonough, Capo di gabinetto della Casa Bianca. Quattro i
punti salienti: 1) dopo quasi 50 anni l’occupazione israeliana
deve finire; 2) l’aiuto militare degli Stati Uniti a Israele non
diminuirà al fine di garantire la sua supremazia bellica e la
sua sicurezza; 3) la soluzione “a due stati” è essenziale per il
futuro di Israele ma è anche un principio cardine della politica
degli Stati Uniti in Medio Oriente; 4) con il ritiro di Israele
dalla Cisgiordania gli Stati Uniti sono disposti a garantire la
sicurezza di Israele sulle frontiere con il futuro stato di
Palestina.
Il legame fra il Likud e il partito
repubblicano nonché il fatto che il governo nascente in Israele
sarà ristretto alle destre, senza più il contrappeso dei partiti
centristi di Lapid e della Livni come nel biennio 2013-15, e che
l’opposizione dovrebbe unire il centro, la sinistra e la lista
araba, spingono Jstreet a una critica più radicale del governo
di Israele sia nei rapporti con i palestinesi sia in materia di
funzionamento della democrazia, messa in forse dai tentativi di
limitare l’indipendenza della Corte Suprema e dalla legge sullo
“stato-nazione” ebraico.
Anche a noi di Jcall in Europa, pur più
fragile e minoritaria nel mondo ebraico, si porrà la questione
di come da un lato opporci al pericoloso oltranzismo della
destra al potere in Israele e difendere l’idea di due stati per
due popoli e dall’altro battere i movimenti che predicano il
boicottaggio di Israele, a cui lo stesso indurirsi del conflitto
fra Israele e i palestinesi, lo stallo nei negoziati fra le
parti e l’adesione dell’ANP alla Corte penale internazionale
daranno ulteriore spinta. La società israeliana, come le
elezioni confermano, è fortemente polarizzata, con gli strati
più poveri e socialmente emarginati che, nonostante l’acuirsi
delle disuguaglianze, il decadimento dello stato sociale e il
legame fra la povertà e il costo dell’occupazione e degli
insediamenti, persistono nel voto ai partiti di destra e
religiosi. La sinistra dovrà cercare di allargare la sua base,
oggi ristretta per lo più alla borghesia laico-liberale, e
trovare consensi fra i giovani, i poveri e i religiosi
tradizionalisti, pur non fondamentalisti.
Saeb Erkat, il capo dei negoziatori
palestinesi, ha dipinto un quadro assai fosco : la ANP sull’orlo
del dissesto finanziario, la cooperazione antiterroristica con
Israele messa in forse dalla totale impasse del negoziato,
nessun progresso circa la ricostruzione di Gaza dopo gli immani
danni provocati dalla guerra dell’estate scorsa, il timore di
una ripresa delle violenze in Cisgiordania qualora né la
protesta non violenta né la diplomazia né il tentativo
palestinese di “internazionalizzare” il conflitto via Nazioni
Unite e Corte penale portino ad alcun risultato sul terreno.
Circa la ripresa dei negoziati, gli
ostacoli sono forti: le posizioni delle due parti in lotta sono
molto distanti, le stesse opinioni pubbliche, pur in favore in
linea di principio alla soluzione “a due stati”, non pensano che
vi sia dall’altra parte un partner credibile per un vero accordo
di pace. Yaakov Peri, ex capo dello Shin Bet ed ex Ministro
della Scienza, così come altri intervenuti, ha insistito
sull’importanza dell’offerta di pace della Lega Araba del 2002 e
di una convergenza di interessi fra Israele, l’ANP e gli stati
arabi “moderati” contro l’estremismo islamista e sull’urgenza di
un’iniziativa diplomatica di Israele.
Infine, dato quanto detto sopra circa le
difficoltà dei negoziati diretti, vi sono due azioni possibili e
necessarie. Da una parte si tratta di agire al fine di prevenire
il ritorno alla violenza, attraverso la rimozione del blocco
imposto alla striscia di Gaza, la sua ricostruzione e il
sostegno all’attività economica e una maggiore libertà di
movimento in Cisgiordania. Dall’altra urge trovare un’intesa per
una risoluzione del Consiglio di sicurezza con il consenso - o
almeno il non esercizio del veto - degli Stati Uniti:
nell’ipotesi minimalista essa conterrebbe il riconoscimento
della Palestina come stato membro; in quella più audace
includerebbe un elenco specifico di parametri per una soluzione
“a due stati” - i confini, gli insediamenti, i rifugiati, lo
status di Gerusalemme, i meccanismi di sicurezza - sulla base
dei quali Stati Uniti, UE e altri paesi spingerebbero, con un
orizzonte temporale preciso, le due parti a giungere a un
accordo. La questione è qui come muovere dal piano declamatorio
dei principi a quello dei fatti, in concreto di quali strumenti,
siano essi incentivi o sanzioni, soprattutto Stati Uniti ed
Europa dispongano e siano disposti ad usare per premere su
israeliani e palestinesi.
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