GARISSA: CRISTIANI E MUSULMANI UNITI NELLA CONDANNA

 


Le organizzazioni di riferimento della comunità musulmana del Kenya hanno condannato con forza oggi la strage di studenti nel campus dell’università di Garissa da parte del gruppo islamista Al Shabaab.
Netta la presa di posizione del Consiglio supremo dei musulmani del Kenya. Uno dei suoi rappresentanti, Abdullah Salat, ha detto che “la comunità islamica di Garissa condanna con forza gli atti barbari commessi contro studenti universitari innocenti”. Il religioso ha rivolto poi un appello al governo di Nairobi affinché con l’aiuto della comunità internazionale sradichi il “mostro del terrorismo”.
A condannare la strage è stato anche Sheikh Khalifa, segretario del Consiglio degli imam e dei predicatori del Kenya. Il responsabile dell’organizzazione ha del resto denunciato l’irresponsabilità di alcuni keniani che attraverso i social media “diffondono immagini disgustanti e messaggi che istigano all’odio”.
Sui fatti di Garissa aveva fatto sentire oggi la propria voce Papa Francesco, in un messaggio consegnato all’arcivescovo di Nairobi, monsignor John Njue. “Un atto di brutalità insensata” aveva sottolineato il Pontefice, esprimendo profondo dolore per questa “immensa e tragica perdita di vite” e pregando “per una conversione del cuore” degli attentatori.





GARISSA: DOPO IL DOLORE, RABBIA E INTERROGATIVI

“Al di là del dolore per quanto accaduto, il sentimento più diffuso tra i keniani in questo momento è la rabbia. Rabbia per qualcosa che avrebbe potuto essere evitato, rabbia per non ricevere risposte adeguate da parte di chi ci governa”: a descrivere alla MISNA la reazione del Kenya il giorno dopo l’attacco di un commando di miliziani somali al Shabaab nell’Università di Garissa, costato la vita a circa 150 studenti, è Robert Alai, blogger tra i più seguiti su Twitter e noto cyber-attivista keniano.
Come ha reagito il paese all’indomani dell’attacco? Quali sono le reazioni più diffuse tra i keniani?
“La domanda che tutti si fanno è: come è stato possibile? Come è potuto succedere che la sicurezza abbia fallito in modo così macroscopico da consentire l’uccisione di 150 persone e forse di più, in una delle città a più alto rischio terrorismo nel paese? Tenga conto che negli attentati contro l’ambasciata statunitense di Nairobi nel 1998, le vittime furono 212. Il paragone è inquietante, se si pensa inoltre che nelle ultime settimane l’intelligence americana e quella britannica avevano allertato le autorità keniane per possibili attentati in concomitanza con il periodo di Pasqua a Garissa, Mombasa e Eastleigh, quartiere a maggioranza somala di Nairobi.
Sull’attacco, a distanza di tante ore, circolano ancora dati e cifre contrastanti. Come è possibile?
Temo che non sapremo mai il numero preciso delle vittime, come quello degli assalitori. Alcune fonti dicono tre, altre quattro. D’altra parte, a distanza di anni dall’attacco a Westgate, nel settembre 2013, ancora non sappiamo esattamente cosa è successo e quanti attentatori hanno partecipato all’assalto contro il centro commerciale…
La politica che risposte può dare?
Potrebbe darne molte, e di fatto non ne dà nessuna. In Kenya la gente assiste a cose che non può più tollerare. Un singolo deputato – e ne abbiamo più di trecento – guadagna quasi 500 volte più di un poliziotto semplice. Ognuno di loro, inoltre, ha a disposizione cinque guardie private per la sicurezza. E i nostri ragazzi continuano a morire per mano degli attentatori.
La gente ritiene che l’attacco sia frutto del dispiegamento militare keniano in Somalia?
Molti keniani pensano che ci dovremmo ritirare dalla Somalia, perché l’ingresso delle nostre truppe nel paese, nell’ottobre 2011, ci ha esposto ad altissimi rischi e ci ha fatti entrare nel mirino di Al Shabaab. Io tuttavia penso che ritirarsi adesso sarebbe un errore fatale. Il governo somalo sta attraversando, con il nostro sostegno, una transizione delicata e complessa che rischierebbe di fallire se ci ritirassimo. Inoltre non è detto che questo ci metterebbe al riparo da nuovi attacchi.
Di recente il governo ha avviato la costruzione di un muro lungo la frontiera somala e misure stringenti sui profughi presenti nel paese. Pensa che sia la strada giusta da seguire?
Questa gente ha soldi, mezzi e collegamenti, non sarà di certo un muro a fermarli. Tenga conto inoltre che non tutti i somali che attraversano la frontiera sono potenziali terroristi. La maggior parte sono civili che fuggono da violenze e povertà. La risposta che il governo ha adottato negli ultimi mesi – raid nei campi profughi, restrizioni e arresti preventivi nella comunità somala/keniana – non fa altro che alimentare il loro risentimento nei confronti di quella che un tempo consideravano una seconda patria. Le autorità dovrebbero cercare di coinvolgere la comunità somala nella lotta all’estremismo invece di braccarla e ghettizzarla.
 [AdL]


GARISSA: OLTRE CENTO STUDENTI UCCISI, BUFERA SULLA SICUREZZA

È pesantissimo il bilancio dell’attacco sferrato ieri da un commando armato nell’università di Garissa: 147 morti e 79 feriti. Tutte le vittime o quasi erano studenti, su cui gli assalitori hanno aperto il fuoco indiscriminatamente. A riferire il bilancio ufficiale dell’assalto – una delle pagine più nere della storia recente del Kenya – è stato nella serata di ieri il responsabile della Sicurezza interna Joseph Nkiaissery, anche se all’indomani della tragedia risultano ancora numerosi dispersi.
Oggi diversi quotidiani nazionali, primo fra tutti il Nation, ipotizzano tuttavia che il bilancio effettivo della strage “potrebbe essere ben più grave” e “fino al doppio” di quello dichiarato dalle istituzioni. La stampa sottolinea infatti come, nonostante le dichiarazioni rilasciate da Nkiaissery ieri sera alle 21 indicassero che “l’assedio era concluso e l’assalto ufficialmente terminato” nella notte continuavano a risuonare gli echi di colpi d’arma da fuoco all’interno del campus.
Versioni discordanti– quelle ufficiali e i resoconti forniti dalla stampa – che riportano alla mente le numerose contraddizioni che caratterizzarono anche la vicenda dell’attacco contro il centro commerciale Westgate a Nairobi, nel settembre 2013, costato la vita ad una sessantina di persone.
Cifre differenti , ad esempio, circolano anche riguardo al numero di assalitori che avrebbe composto il commando: alcuni riferiscono di tre uomini pesantemente armati, altri di quatto. Le autorità, dal canto loro, hanno reso noto solo che uno degli aggressori sarebbe stato arrestato mentre tentava di fuggire. Una versione che – commentano numerosi keniani su Twitter, dove ieri l’hashtag #Garissaattack è entrato nei Trend Topic del social network a livello mondiale – solleva non pochi interrogativi.
Nel giorno dopo l’assalto a Garissa – 150 chilometri a nord-est di Nairobi, una località già più volte nel mirino degli insorti somali Al Shabaab – tra il dolore dei familiari e lo sgomento di un intero paese, si insinuano accese critiche al governo per non aver saputo garantire un minimo di sicurezza ad un bersaglio che in molti definiscono “prevedibile”.
Come mai, è una delle domande più ricorrenti sui quotidiani keniani di oggi, le guardie addette alla sicurezza di un campus con oltre 800 studenti erano solo due? E perché – nonostante timori avanzati nelle ultime settimane – non è stato fatto nulla per rafforzare l’apparto di sicurezza dell’università?
Mancanze riconosciute anche dal presidente della repubblica Uhuru Kenyatta che intervenendo ieri con un discorso alla nazione ha ammesso che il paese ha “sofferto in maniera non necessaria per la mancanza di personale di sicurezza”. Intanto le autorità hanno imposto un coprifuoco notturno sulle quattro contee al confine con la Somalia.
[AdL]

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