Paola Caridi :Se la campagna elettorale israeliana diventa internazionale



05/03/2015


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Alla fine, Benjamin Netanyahu è riuscito a internazionalizzare le elezioni israeliane del prossimo 17 marzo.

L’obiettivo l’ha centrato con il coup de theatre del discorso al Congresso Usa, ma una prima avvisaglia vi era stata pochi giorni prima nel parlamento italiano, nascosta nelle pieghe del voto sulle mozioni a favore o contro il riconoscimento dello Stato di Palestina.

Internazionalizzare la campagna elettorale era ed è importante per Netanyahu. Significa spostare il punto d’osservazione. Distogliere l’attenzione. E soprattutto concentrarsi sul (solito) sentimento che, non solo in Israele, è capace di incidere sul consenso: la paura.

Per i timori riguardanti la sicurezza di Israele, molti fondati ma non tutti, Netanyahu è stato disposto a mettere in gioco i rapporti con il più fedele, sicuro alleato, un paese - gli Stati Uniti - che ogni anno contribuisce con più di tre miliardi di dollari alla saldezza di Israele, attraverso i diversi accordi stipulati negli anni. Camp David in primis.

Netanyahu ha forzato di molto la mano, con Washington. E stavolta, diversamente dalle precedenti occasioni, l’amministrazione Obama non si è nascosta dietro ai sorrisi di circostanza.

Né il presidente Barack Obama né il suo vice Joe Biden hanno incontrato il primo ministro israeliano. E il messaggio è stato chiaro anche nel Congresso: 42 deputati e 7 senatori democratici hanno deciso di non essere presenti durante il discorso di Netanyahu che di fronte a sé ha dunque trovato solo i suoi strenui sostenitori, i repubblicani che lo avevano invitato.

Negoziato sul nucleare
Il dossier iraniano, insomma, è troppo importante perché l’amministrazione Obama possa accettare, stavolta, che il negoziato sul nucleare possa essere messo a rischio dalla visione e dalla strategia di Netanyahu.

Lo comprendono bene anche in Israele, sia i centristi che il centrosinistra, se è vero che persino l’ex ambasciatore negli Usa Michael Oren ha commentato duramente il discorso di Netanyahu con un secco: “Non ha fornito nessuna idea nuova”.

Nessuna alternativa al negoziato in corso era presente infatti nel discorso del primo ministro israeliano che paga anche lo scotto dovuto ai precedenti colpi di teatro, come quello del discorso alle Nazioni Unite in cui si era presentato con il disegno di una bomba (nucleare iraniana) pronta a esplodere.

Dopo le ultime rivelazioni, rese note da Al-Jazeera e da The Guardian, sulle diversità profonde di vedute tra Netanyahu e il Mossad, la stessa credibilità del premier sul dossier iraniano è uscita indebolita.

Alla fine, insomma, potrebbe essere John Kerry a guadagnarci dalle posizioni da falco di Netanyahu? In fondo, il segretario di Stato americano avrebbe buon gioco, con la controparte iraniana: potrebbe far comprendere - seppure ve ne fosse ancora bisogno - che è meglio portare a casa un accordo sul nucleare con questa amministrazione, con l’amministrazione Obama.

Un fatto è comunque chiaro: stavolta il disappunto della presidenza Usa è stato evidente. Perché in gioco era la sovranità del governo di Washington, le scelte americane di politica estera.

Mozioni sul riconoscimento dello Stato di Palestina
Una situazione simile - con i dovuti, evidenti distinguo - si è creata qualche giorno prima nel parlamento italiano.

L’internazionalizzazione della campagna elettorale israeliana è arrivata tra i banchi di Montecitorio, il 27 febbraio scorso. Risultato: un florilegio di mozioni, pro o contro il riconoscimento (simbolico) dello Stato di Palestina, e una discussione francamente vaga, terribilmente intrisa di luoghi comuni, slogan, stereotipi.

A emergere, è stata solamente la paura di gran parte dei deputati di rimanere invischiati in una querelle considerata periferica, di fronte alle minacce dell’autoproclamatosi “stato islamico”, al possibile intervento militare in Libia, al rovello siro-iracheno.

Perché occuparsi del conflitto israelo-palestinese, quando le emergenze e le urgenze internazionali sono altre? Questa è sembrata la domanda di fondo, tra le pieghe di un dibattito stanco, privo della necessaria conoscenza sul terreno, dei fatti, degli uomini, delle sofferenze, della storia.

Perché occuparsi del conflitto israelo-palestinese, alla vigilia delle ennesime elezioni israeliane, e rimanere invischiati nelle paure di Israele, proprio nella fase in cui impazzano i talkshow allarmisti sull’islam, il terrorismo, la guerra prossima ventura?

Discussione pilatesca
Una discussione pilatesca, è stata definita. Una descrizione calzante, soprattutto per quell’imperdonabile farsa delle mozioni di segno diverso approvate a pochi minuti di distanza l’una dall’altra. Una a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina, pur con tutte le cautele del caso. L’altra che poneva talmente tanti paletti da voler rimandare la costituzione di uno Stato di Palestina a data da destinarsi. Cioè, mai.

Imperdonabile, la farsa. Per diversi motivi. Anzitutto perché diminuisce la statura internazionale dell’Italia. Rievocando antiche immagini di un’Italietta senza coerenza, in una fase che avrebbe richiesto coraggio, in un senso oppure in un altro.

In secondo luogo, imperdonabile perché consolida le voci sulle pressioni esercitate sui politici italiani per il rinvio della discussione, in maniera tale da non incidere sulla campagna elettorale israeliana.

Che queste voci siano false, verosimili o vere, il danno è ormai fatto. Di fronte all’Europa, prima ancora che di fronte al Medio Oriente, l’Italia non ha fatto una buona figura.

Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele” (Feltrinelli 2013).

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