Sierra Leone :I sopravvissuti all'Ebola: «Ora aiutiamo gli altri»

 

  I sopravvissuti all'Ebola: «Ora aiutiamo gli altri» - VanityFair.it

Siamo stati in Sierra Leone, nel centro di Emergency, con Gino Strada. Abbiamo incontrato chi ha perso tutto e tutti, chi ce l'ha fatta, chi vuole aiutare
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 di Tamara Ferrari
«Mister Kamara, mi ascolti: sappiamo che sta mentendo. Dica la verità: quando è stata l’ultima volta che ha vomitato?». L’uomo oltre la grata si agita sulla sedia. Gocce di sudore gli imperlano la fronte. Per un attimo fissa l’uscita, forse pensa alla fuga. Poi, con voce rotta, sbotta: «Non sono malato. Non ho febbre né vomito, né diarrea. Non ce l’ho l’Ebola».

A 42 anni, Mohammed Kamara ha già seppellito sua moglie. Un mese fa gli è stata portata via dall’epidemia che ha ucciso 151 persone nel suo villaggio alla periferia di Waterloo, un ex campo per rifugiati sorto sulla pista di atterraggio di un vecchio aeroporto a 33 chilometri da Freetown, la capitale della Sierra Leone. Qui, dove un tempo avevano trovato riparo centinaia di liberiani in fuga dalla guerra, oggi vivono ammassati in baracche circa 22 mila sierraleonesi. Che ad agosto hanno iniziato a morire.

«Non sapevamo che cosa uccidesse i nostri amici e parenti», racconta Mariama, che ha contratto il virus ed è guarita. «Ci dissero che c’era un’epidemia di febbre emorragica, le ambulanze portarono alcuni malati e i loro familiari sani a Kenema, nell’Est del Paese, dove c’era l’unico ospedale con un laboratorio in grado di identificare il virus e curarlo. Ma nessuno tornò indietro, e si sparse la voce che l’Ebola era un’invenzione delle organizzazioni umanitarie per testare su di noi un farmaco killer». La gente iniziò a nascondere i malati. «Negavamo l’esistenza della malattia, e ci contagiavamo l’un l’altro», racconta David Kabia, 24 anni, fratello di Mariama. «Anche io come lei sono stato infettato da mia madre. Era una donna importante, faceva parte di una società segreta. Cose da donne, si riuniscono e operano le ragazze quando è il momento di entrare in società. Ma l’ultima infibulata era malata, il suo sangue le ha infettate. Mia madre è morta pochi giorni dopo. Al suo funerale alcune donne hanno lavato il corpo e si sono ammalate, e hanno contagiato le famiglie».

Tra il 19 e il 20 settembre a Waterloo sono stati trovati 45 cadaveri. La settimana dopo sono morti in 25, e quella dopo ancora altri 15. In preda alla disperazione, un prete italiano, padre Maurizio Boa, che da 17 anni diceva messa nel campo, ha contattato Emergency, l’associazione umanitaria italiana fondata da Gino Strada, che in Sierra Leone gestisce da 13 anni il più importante ospedale chirurgico e pediatrico del Paese a Goderich, vicino a Freetown. In brevissimo tempo è stato approntato un centro di primo soccorso, con novanta volontari formati per spiegare alla gente che l’Ebola esiste sul serio, e per individuare i casi sospetti. Come Mohammed Kamara, che quando è stato fermato barcollante per strada aveva 40 di febbre, e ora, mentre si avvicina alla grata perché gliela misurino di nuovo, mormora: «Per favore, non portatemi in ospedale: lì ci uccidono».

«Hanno paura delle punture killer, ma anche di essere cacciati dalle loro famiglie e dai villaggi», dicono Luca Rolla e Sara Radighieri, coordinatori degli ospedali di Emergency in Sierra Leone. Quando l’epidemia è arrivata nel Paese, loro erano già qui, pronti a fronteggiarla. «Eravamo in allerta da febbraio, quando ci sono stati i primi casi in Liberia», racconta Sara, coordinatrice a Goderich. «Il nostro è un centro chirurgico di riferimento, arrivano vittime di incidenti e bambini da tutte le province e dalle zone di confine. Ci siamo informati e abbiamo adibito due tende per gli eventuali pazienti».

Fino al 23 maggio non ce n’è stato bisogno, ma poi l’epidemia ha varcato il confine. «Colpa di una stregona», racconta Luca Rolla. «Curava i malati in Guinea e si è infettata. Al suo funerale in tanti hanno toccato il corpo, cosa pericolosissima: nella fase terminale della malattia e dopo la morte si diventa ancora più contagiosi. In poco tempo la febbre è arrivata a Kenema, una delle città più grandi del Paese». «All’inizio dell’estate un automobilista malato è partito da lì e ha fatto il giro della Sierra Leone, spargendo il contagio», ricorda Sara. «Il governo all’inizio ha sottovalutato il problema, ma poi, man mano che gli ospedali si riempivano e i medici e gli infermieri si infettavano, si è capito che non c’era tempo da perdere». Il 19 settembre il presidente Ernest Bai Koroma ha parlato alla nazione, invitando la popolazione a non uscire di casa per tre giorni. «Ma a quel punto molti ospedali erano chiusi perché il personale era scappato, e il virus era arrivato a Goderich».

C’è arrivato sotto le sembianze di un prete, e di una donna incinta. «Lui è stato portato qui in fin di vita, Grace è giunta poco dopo», continua Sara. «Mi ha chiesto di farle il test. Aveva ospitato il sacerdote e lavato le sue lenzuola. Quando aveva scoperto che lui aveva l’Ebola, aveva mandato via il marito e le due figlie». Grace risultò positiva. «In quei giorni stavamo lavorando per aprire un centro per l’Ebola a Lakka, a pochi chilometri da qui. Le dissi che l’avremmo portata lì, ma un’infermiera mi chiamò: Grace stava partorendo. Mi infilai lo scafandro, entrai nella tenda. C’era sangue ovunque, la bambina nacque morta. Due giorni dopo Grace si spense». Mentre Grace moriva, Emergency contava il primo medico contagiato, Michael, un pediatra ugandese guarito poi in Germania, al quale sarebbe seguito il secondo, un siciliano, Fabrizio, ricoverato all’ospedale Spallanzani di Roma. Le vittime tra il personale sanitario sono il tributo più grande pagato in Sierra Leone: in totale sono morti undici medici e oltre 180 operatori. «Forse all’inizio sono stati commessi errori», dice Luca, uno dei chirurghi di Goderich. «Si dava per scontato che l’Ebola fosse incurabile e, per questo, si è proceduto alla quarantena dei pazienti e dei villaggi e delle case colpite, più che a una vera assistenza».

Le sue parole trovano conferma nelle accuse di Sankoh Isatu, una trentenne guarita che ha perso il marito: «Lui scavava pozzi nelle province al confine con la Guinea. Un giorno mi hanno chiamato. Lo avevano portato in un ospedale. Sono andata a cercarlo, ma non mi hanno fatta entrare. Sentivamo le urla dei malati in preda al delirio. In quel posto ammassavano la gente sui pavimenti pieni di vomito e diarrea. I medici entravano per pochi minuti, giusto il tempo di distribuire qualche pasticca e acqua da bere. Sembrava un lager. Mio marito è morto, poi ci siamo ammalate io e la mia bambina. A Lakka ho scoperto che si può sopravvivere».

«Certo che si può guarire», conferma Gino Strada, «anche se non è facile, in Africa. Per curare questa malattia c’è bisogno della ventilazione, della dialisi, di una terapia intensiva. Ma qui quale ospedale può permettersela? Per questo la mortalità è del 70%, contro il 25 registrato negli ospedali europei e americani». Nel pieno dell’epidemia, e dopo la nascita del centro di Lakka, Gino Strada è partito per la Sierra Leone con un’idea: dare vita al primo vero ospedale per la cura dell’Ebola nel Paese (e forse nel continente). Lo ha costruito la cooperazione inglese a Goderich in quello che un tempo era un prato del comitato olimpico, ed Emergency, che lo gestisce, lo ha inaugurato il 13 dicembre. Ci sono 100 posti letto, 25 in terapia intensiva, e un laboratorio attivato grazie all’aiuto dell’ospedale Spallanzani di Roma, che ha inviato i suoi biologi, dove in poche ore ti fanno il test. «Questa è la prima volta che la comunità medica si trova nella condizione di poter curare dei pazienti anziché semplicemente isolarli», dice Strada. «Per noi è una sfida, ma abbiamo bisogno di aiuto per farcela».

Nel centro lavorano 600 operatori nazionali, e medici provenienti da tutti i Paesi. E anche alcuni sopravvissuti all’Ebola. A Freetown li considerano eroi. Per le strade affollate, accanto ai cartelli che informano sui sintomi, ci sono quelli dove si legge: «I sopravvissuti ci salveranno». Lo cantano anche i rapper nei cd, e lo sanno i bambini, che non vanno più a scuola perché le scuole sono chiuse, e che quest’anno non hanno festeggiato il Natale perché le feste e i funerali sono vietati. E ne sono consapevoli anche i sopravvissuti, che fanno la fila davanti agli ospedali per offrirsi volontari. Come Mariama Jdyioh, 27 anni: «Mia madre ha infettato me, mia sorella e tutte le persone che ci stavano vicino. Alcuni sono morti in ospedale. Tutti pensano che l’Ebola non lasci scampo. Io sono salva, e sono immune. Posso aggirarmi tra i malati senza indossare lo scafandro».
Monjama Moussa, 25, con il suo sangue ha contribuito alla guarigione di Fabrizio, il medico italiano di Emergency. «Mi sono infettata comprando carbone da un malato a Kenema. Quando sono guarita, mio marito non mi voleva più in casa, e nemmeno i miei vicini. Sono tornata in ospedale, ora pulisco i reparti».

L’avevo salutata ed ero tornata nella casetta numero 5 di Emergency, dove ero ospite di medici e infermieri, quando è entrata nella sala una delle biologhe dello Spallanzani: «Il test è negativo, Marco ha solo la malaria». Un infermiere italiano si era svegliato con la febbre, e la paura. «Mai avrei immaginato di essere felice per aver preso la malaria», mi ha detto. Ho pensato a Isata, una ragazza che avevo conosciuto poche ore prima. «I miei sono morti, ma io ce l’ho fatta», mi aveva detto. «Voglio donare il sangue per gli italiani che vengono ad aiutarci. Voglio ricambiare quello che fate per salvarci dall’Ebola».

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