Murmelstein e Lanzmann, memorie dalla zona nera della Shoah


Incontriamo Claude Lanzmann in albergo, al termine del suo tour de force tra aerei, interviste e incontri romani. È arrivato dalla Francia per presentare nel nostro paese il volume L'ultimo degli ingiusti, tratto dal suo film omonimo uscito nel 2013.
Il Maestro è stanco, sorseggia un bicchiere di whisky, non ne può più di rispondere sempre alle stesse domande, e il cronista deve fare attenzione a non mettere il piede il fallo. Non si distrae mai, all'alba dei suoi novanta anni. Se sbagli una domanda, sei fregato. Mi vengono in mente le parole di un vecchio adagio: le domande si dividono in due categorie, quelle che non hanno risposta e quelle che non meritano risposta.
Stiamo parlando di un monumento vivente, l'artista che ha consacrato la sua vita alla memoria dello sterminio degli ebrei, prima con il fondamentale Shoah (durata: dieci ore e qualche minuto) e poi con L'ultimo degli ingiusti, il film che raccoglie la testimonianza di Benjamin Murmelstein, rabbino e intellettuale viennese, noto nel mondo come ultimo decano del ghetto di Theresienstadt.
L'intervista di Lanzmann a Murmelstein si svolse nel 1975 sul tetto di un albergo di Roma, città dove questi visse per quarant'anni dopo la guerra.
Perché Roma? Come fu la sua esistenza dopo Theresienstadt?
Egli scelse questa città perché era l'unico luogo che gli era consentito, o forse il solo posto in cui aveva piacere di risiedere. Dopo la guerra fu processato, poi assolto, a Praga, e tentò di trasferirsi in Israele, ma le autorità gli negarono il permesso di soggiorno. Si considerava un ebreo in esilio, e non è semplice vivere da esule.
Come se la passava?
A Roma trascorse l'esistenza in una miseria costante e totale. Per lui, la moglie e suo figlio Wolf fu terribilmente dura: lavorava nel commercio di lampade, faceva il rappresentante, soprattutto in Sardegna.

Mantenne dei rapporti con la comunità ebraica?
Non quella di Roma, con cui si ignorarono. Però, al tempo del processo Eichmann, provò ad averne con Israele: aveva pubblicato un libro sulla sua vicenda e voleva essere interrogato. Gli risposero che la sua testimonianza era valida come riscontro, non come prova autonoma. Volevano sapere solo quello che faceva comodo. A quell'epoca scrisse anche una serie di articoli polemici contro Hannah Arendt, con cui non era d'accordo: né sulla "banalità" di Eichmann né, ovviamente, sul giudizio nei confronti dei dirigenti ebrei dei ghetti.
Lei criticò aspramente la comunità ebraica di Roma per aver rifiutato a Murmelstein l'iscrizione e poi la sepoltura al cimitero. Come si spiega questa esclusione?
Con il conformismo formidabile, non solo dei romani ma generale.
Lanzmann assume una posizione netta per difendere il suo intervistato. Un'opinione radicale ed eccentrica, se si considera, per esempio, la dichiarazione di Gershom Scholem: il decano di Theresienstadt meritava di essere impiccato. Lo stesso Scholem che, a proposito di Eichmann, si era schierato contro la pena di morte. I sopravvissuti a quel ghetto odiavano Murmelstein. Non gli perdonarono mai il rapporto diretto con Eichmann e le SS, i modi bruschi, alcune decisioni drammatiche. A Theresienstadt morirono oltre trenta mila ebrei e quasi novantamila furono deportati nelle camere a gas all'Est. Ma Murmelstein difese sempre le sue scelte. Compresa quella - davvero estrema - di compiacere la menzogna dei nazisti, che avevano eletto Theresienstadt a "città regalata agli ebrei", vetrina per la Croce Rossa e gli osservatori internazionali. Pur di salvare più vite possibili, questo re degli ebrei, simbolo del "potere senza potere", contribuì a organizzare i lavori di abbellimento del ghetto e persino alle riprese dei filmati in cui i reclusi appaiono giocare a scacchi, a calcio, mentre mangiano riccamente. L'oscenità dell'inganno al servizio dello sterminio.
Perché considera la storia del ghetto di Theresienstadt emblematica per comprendere la Shoah?
Fondamentale. Talmente importante che in Repubblica Ceca, dove i fatti si sono svolti, non ne vogliono sapere. Nessuna presentazione del film. E pensare che all'epoca di Shoah mi accadde a Praga un episodio straordinario. Mi vidi venire incontro un ometto basso; era Vaclav Havel, molto prima di diventare presidente. Mi informò di un suo regalo, "bello e raro": la traduzione del mio documentario completata in carcere insieme a suo fratello. Incredibile. Ma ai cechi oggi non gliene importa niente.
Leggendo il libro, si ha l'impressione che lei si fidi completamente delle parole di Murmelstein quando parla di sé e descrive le atrocità del ghetto...
Sì. Egli spiega magnificamente e non nasconde niente. È un testimone assolutamente prezioso. Il solo ad aver vissuto e integrato tutto questo, l'unico decano dei ghetti a essere ritornato.
Le parve contento di poter raccontare la propria versione dei fatti?
Era soddisfatto di potersi spiegare e raccontare sui mezzi di comunicazione. Ma i media erano un passo indietro, e lui non credeva che potessero comprendere la sua storia. Forse oggi le cose cominciano a mutare. Ci vuole tempo. Ma le persone capiranno e cambieranno idea. È significativo che mi abbiano consentito di fare questo film.
Primo Levi coniò la fortunatissima espressione di "zona grigia", secondo lei l'ultimo degli ingiusti ne è un esempio estremo?
La "zona grigia" fu un'invenzione di Levi. Murmelstein si trovava proprio nella zona nera. Fu completamente immerso nel male per tutto, ma proprio tutto il tempo.
Perché il documentario su Murmelstein ha avuto bisogno di una gestazione così lunga, dal 1975 al 2013?
All'epoca, non esisteva un produttore così matto da permettere a un tipo come me di rimanere a Roma una settimana intera, girando mattina, pomeriggio e sera, intervistando un personaggio controverso come Murmelstein. Sempre a girare, girare, girare. Andava contro tutte le regole del cinema.
Perché si è imbarcato in questa impresa a tanti anni dall'uscita di Shoah?
Ero pazzo di rabbia, provavo un senso di rivolta. Mi pareva che si fossero serviti di me, usando gli spezzoni che avevo girato, e poi donato, senza chiedermi nulla. Mi sentivo derubato.
È felice di aver pubblicato questo libro, e, prima, di aver girato L'ultimo degli ingiusti?
Se c'è una cosa di cui posso essere fiero, nella mia vita, è aver fatto questo film. Risarcire un uomo che aveva sofferto così tanto... Questo farebbe di me quasi un cristiano (ride). Può darsi che in alto, negli appartamenti del cielo, Murmelstein abbia visto il film e ne sia rimasto contento. Anche se personalmente non l'ho fatto per lui. Ma per la verità.
Benjamin Murmelstein non negò di aver agito anche per il piacere generato dal potere. Murmelstein non si uccise come Adam Czerniakow, presidente del Consiglio ebraico di Varsavia, che non volle assistere alla deportazione del suo popolo. Scelse di rimanere, collaborando coi carnefici. Mise in salvo molte persone, convinto che collaborare, sopravvivere, talvolta rischiando, fosse il solo modo per sconfiggere i nazisti. Difficile stabilire se avesse ragione. Ma è arduo dissentire quando afferma: "Un decano degli ebrei può essere condannato. Anzi, deve essere condannato. Ma non può essere giudicato, perché nessuno può mettersi nei suoi panni".

Stiamo parlando di un monumento vivente, l'artista che ha consacrato la sua vita alla memoria dello sterminio degli ebrei, prima con il fondamentale Shoah e poi...
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