Giorgio Gomel : Pace Simposio di Haaretz
NEL giorno di luglio, precisamente l’8, il giorno dopo un’incursione
dell’aviazione israeliana volta a distruggere un tunnel dalla
striscia di Gaza, in uno degli hotel un po’ pretenziosi sul
litorale di Tel Aviv, Amos Shocken, editore di Haaretz e Akiva
Eldar, uno dei giornalisti più intelligenti di Israele, hanno
promosso un simposio sulla pace, parola da tempo in disuso nel
vocabolario politico così come nel linguaggio ordinario della
gente di Israele. Intorno a quella parola hanno riunito una
parte rilevante del mondo politico e intellettuale israeliano ed
ebraico. Solo qualche nome: il Presidente Peres, due ministri -
Livni e Bennett -, i leader dell’opposizione - Herzog, laburista
e Galon, del Meretz -, un ex primo ministro - Barak -, un ex
capo dello Shin Bet - Diskin -, un ex consigliere della
sicurezza nazionale - Amidror -, due scrittori - Grossman e
Kashua -, giornalisti come Gideon Levy, Peter Beinart, Chemi
Shalev, un filosofo come Alain Finkielkraut.
Un
uditorio partecipe di oltre 1500 persone; presenti una
delegazione di JCall (il movimento di ebrei europei in favore
della pace e della soluzione a due stati) e di JStreet,
consorella americana. Il materiale del simposio è disponibile
anche in rete (Haaretz, Israel conference on peace). A mo’ di
cronaca, anche l’esperienza di un primo allarme su Tel Aviv che
ci ha costretto ad evacuare la sala per qualche tempo.
Il
motivo ispiratore del convegno è stato quello di riportare la
parola "pace" al centro dell’attenzione, demistificando la
retorica che impera dal 2000 dopo il fallimento di Camp David e
l’irrompere virulento della seconda intifada, per cui non vi è
fra i palestinesi un "partner di pace", e riesaminare oggi, alla
luce della rottura della trattativa condotta con la mediazione
americana, le condizioni per un accordo di pace fra Israele e l’ANP
sulla base del principio di "due stati per due popoli" e con i
paesi arabi sulla base dell’iniziativa di pace proposta dalla
Lega Araba nel lontano 2002.
Sono
mancati purtroppo i due oratori palestinesi - Saeb Erkat, il
capo negoziatore dell’ANP e Musib ElMasri, un importante
imprenditore - a causa del precipitare del conflitto fra Israele
e Gaza. Ma Abu Mazen in una lettera aperta e in una
intervistavideo ha ricordato come l’iniziativa di pace araba,
cui Israele non ha mai risposto, offra a Israele i contorni di
una soluzione che ponga fine al conflitto, normalizzi i rapporti
con gli stati arabi, definisca un confine plausibile fra i due
stati con rettifiche territoriali concordate e garanzie adeguate
di sicurezza, assicuri una Gerusalemme fisicamente unita e
capitale condivisa dei due stati e un assetto ragionevole circa
i rifugiati del 1948.
Shimon Peres, accolto da applausi scroscianti negli ultimi
giorni del suo mandato, ha affermato anche lui come l’offerta di
pace araba sia positiva per Israele per giungere a una soluzione
a due stati, essenziale per il futuro di Israele come stato
democratico ed ebraico. Un accordo regionale conviene ai paesi
arabi moderati e a Israele, per entrambi i quali il nemico
comune è l’estremismo fondamentalista. Abu Mazen è un partner di
pace sincero. La battaglia per vincere cuori e menti degli
israeliani in favore della pace va unita a quella per la difesa
della democrazia e contro il razzismo, valori essenziali
dell’etica ebraica.
Sono
seguite quattro sessioni, dedicate rispettivamente ai benefici
economici della pace e ai costi della nonpace; al rapporto con
la Diaspora americana ed europea; al legame fra il perpetuarsi
del conflitto e dell’occupazione e il degrado della democrazia e
dei diritti umani in Israele; alle implicazioni in termini di
sicurezza di un eventuale accordo di pace.
Il
costo del mantenere lo status quo risiede sia non solo nelle
implicazioni di questo per il bilancio pubblico gravato da
corpose spese militari in un’economia segnata da acute
diseguaglianze distributive. Anche nel pericolo di sanzioni
economiche imposte a Israele da soggetti privati con le campagne
di boicottaggio o pubblici come la Commissione europea o gli
stati membri che pur distinguono chiaramente e giustamente fra
le attività economiche svolte in Israele e quelle nei territori
occupati, dove il diritto internazionale ritiene illegali gli
insediamenti ebraici. Per un’economia molto aperta agli scambi
con l’estero e per la quale la UE è il principale partner
commerciale la minaccia è quindi rilevante. Un’altra questione
rilevante è quella degli arabi di Israele, economicamente
marginali - il 20 per cento della forza lavoro del paese che
essi rappresentano genera solo il 7 per cento del reddito - e
discriminati nell’acquisto di terre e nella possibilità di
costruirvi nuove case.
Sull’ebraismo americano la tesi di Beinart, autore di un libro
che denuncia il cristallizzarsi di posizioni sempre più
conservatrici nell’establishment, e di Benami, presidente di
JStreet, è che con il suo polarizzarsi fra gli ortodossi da un
lato e dall’altro i laici, i non sionisti e coloro che sono
lontani dall’ebraismo ufficiale si sono acuite anche le
divergenze nel rapporto con Israele. In misura crescente per gli
ebrei americani, soprattutto giovani, Israele non è più il luogo
di rifugio e riscatto di un popolo oppresso, né un elemento di
coesione identitaria; vi è rispetto ad esso un senso di
estraneità crescente, in ragione del permanere dell’occupazione,
delle violazioni dei diritti umani, del legame perverso fra
potere politico e religioso, infine del degrado della
democrazia.
Della
vecchia Europa, degli ebrei europei e del legame fra il
conflitto israelo-palestinese e rigurgiti di antisemitismo, ha
parlato, anche a nome di JCall, Alain Finkielkraut, filosofo e
accademico di Francia. Due battaglie incombono su di noi, ebrei
europei: quella in sostegno alla soluzione a due stati, in
difesa della democrazia e della tolleranza in Israele contro la
barbarie del razzismo anti arabo che inquina la società; quella
contro l’antisemitismo. Un antisemitismo di due tipi: quello di
matrice islamista che sta soppiantando quello di tradizione
fascista e quello di una parte della sinistra o del mondo
intellettuale che demonizza Israele ben al di la delle legittime
critiche all’occupazione e lo ritiene, in quanto statonazione
fondato su un criterio di appartenenza etnica, un anacronismo da
rigettare in un mondo cosmopolita che ha superato i vecchi
nazionalismi.
La
sessione sui diritti umani è stata la più tesa e appassionata
anche per le vicende nefaste recenti. Kashua, un giovane
scrittore araboisraeliano che scrive in ebraico libri di grande
successo editoriale, ha ripetuto quanto scritto in un suo
articolo molto sofferto su Haaretz: lascerà il paese perché non
vi è futuro per i figli di un arabo in Israele, dove le zone più
popolate da arabi sono neglette dal potere centrale dello stato
e abbandonate al degrado, il pregiudizio razzista alligna, la
predicazione della violenza si traduce in violenza fisica contro
gli arabi. Harel, ex direttore di Yesha, il consiglio degli
insediamenti, abitante a Ofra, un insediamento come tanti
edificato su terreni privati di palestinesi espropriati, ha
difeso le colonie, legittime creature dei governi di Israele via
via succeditisi, e il comportamento dei coloni, in larga parte
civilmente tolleranti. Talia Sasson, giurista e redattrice anni
fa di un rapporto sugli oltre 100 outposts, insediamenti piccoli
e remoti, contrari alla stesa legge israeliana, alcuni dei quali
oggetto di ordini di sgombero da parte della Corte suprema
disattesi dal governo, ha denunciato con grande forza il
sottofondo di odio razziale che inquina larghe fasce della
società israeliana fino all’assassinio - se ai palestinesi si
negano o rubano diritti e terreni, allora si può loro negare
anche la vita. Su questo punto e sul legame fra il razzismo, le
minacce alla democrazia e la spoliazione dei diritti che
l’occupazione comporta si sono espressi con gli stessi toni duri
anche la Livni, Herzog e la segretaria del Meretz Galon anche se
paradossalmente da fronti diversi: la prima Ministro della
giustizia in un governo dominato dalle destre, gli altri
all’opposizione, convinti che i partiti di Livni e Lapid
dovrebbero lasciare un governo che non persegue la pace e
forzare così nuove elezioni.
Sulle
questioni strategiche e di sicurezza, due relatori pur distanti
nelle loro posizioni - Diskin, dimessosi di recente da capo
dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) in forte
polemica con Netanyahu di cui ricordiamo gli interventi nel
documentario di Dror Moreh "The Gatekeepers", e Amidror, fino a
tempi vicini consigliere per la sicurezza nazionale dello stesso
Netanyahu - hanno convenuto sulla necessità di porre fine alla
convivenza perversa fra occupante e occupato e quindi della
"separazione" dei due popoli in due stati sovrani. Il tema delle
garanzie di sicurezza per Israele dopo il ritiro dai territori è
complesso sia per il contrasto irresolvibile secondo Diskin fra
Fatah e Hamas sia per la necessità di evacuare con gradualità e
con adeguati indennizzi finanziari circa 150.000 coloni. Amidror
ritiene che anche con una Palestina indipendente Israele dovrà
mantenere una presenza militare lungo il Giordano per
"difendere" il fronte orientale.
Bennett, ministro e leader dell’estrema destra annessionista, ha
inveito in tono provocatorio contro la sinistra, accusandola di
una sequela di errori - Oslo, Camp David, il ritiro da Gaza nel
2005, il sottovalutare la disgregazione del Medio Oriente e il
disastro del mondo arabo - e affermato che Israele non potrà
lasciare la Cizgiordania per scongiurare il rischio di una presa
del potere di Hamas. Subissato di fischi e invettive, ha poi
abbandonato il palco mentre l’editore di Haaretz implorava il
pubblico alla Voltaire di rispettare la libertà d’espressione.
In
ultimo, un cenno ai "profeti".
Grossman, il cui intervento è stato pubblicato anche dalla
stampa italiana, imputa agli israeliani vittimismo e
rassegnazione disperata. Da un lato l’antinomia fra il potere
militare straripante di Israele e il persistere di una
percezione di se stessi come vittime rende difficile l’esercizio
misurato, ragionato, politico di quel potere. Noi ebrei, privi
di potere sovrano per secoli, siamo incapaci di esercitarlo ora
che di quel potere disponiamo, superando timori e ansie di
sopravvivenza e facendo un passo decisivo verso la pace.
Dall’altro un sentimento disperato di sfiducia nel "nemico":
anche quando quel nemico, nella persona di Abu Mazen o della
Lega araba, offre a Israele una chance di pace, con il prezzo
che il compromesso impone, gli israeliani non credono a quella
possibilità, ignorano o deridono gli interlocutori, si
richiudono in una autistica disperazione. Per Gideon Levy, uno
dei giornalisti più militanti di Haaretz, la psicologia
collettiva degli israeliani è colpevole: colpevole di non avere
mai onestamente deciso di pagare il prezzo vero della pace, cioè
la fine dell’occupazione e lo sgombero degli insediamenti;
colpevole di non trattare i palestinesi come esseri umani con
eguale dignità e pari diritti; colpevole infine di non
riconoscere che la loro sofferenza ha la stessa dignità della propria.
Giorgio Gomel
Il profeta Geremia (Marc
Chagall)
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