Gaza. Se Abu Mazen torna in campo

 

Mentre le truppe israeliane stanno completando la loro ritirata unilaterale dalla Striscia di Gaza, ed anche i diversi gruppi palestinesi hanno proclamato un cessate il fuoco di 72 ore, il bilancio della crisi è drammatico: oltre 1800 i morti palestinesi, in larga maggioranza bambini, donne, civili. 9000 feriti, 10.000 le case distrutte, circa 7 miliardi di dollari i danni stimati.
Sull’altro versante i morti sono 64, quasi tutti militari, molti di più delle precedenti operazioni nella Striscia. Un costo comunque alto e sicuramente inaspettato. Nel momento in cui ha deciso di avviare l’operazione di terra, Israele ha di fatto rinunciato alla condizione di quasi totale impunità garantitagli dalla barriera antimissilistica Iron Dome, trovandosi di fronte milizie decise, ben addestrate e ben equipaggiate. Nahum Barnea, il grande giornalista israeliano, testimonia che rari sono stati i corpo a corpo, che i miliziani palestinesi hanno per lo più colpito da lontano, usando razzi anticarro e lancia granate.
Anche se la protezione di Iron Dome ha evitato guasti maggiori alle città e agli abitanti, per un mese tutto Israele è stata bersaglio dei razzi spediti da Gaza, costringendo molti dei cittadini a rifugiarsi nei rifugi anti aerei.
Infine, lo stesso isolamento internazionale, dopo le iniziali e generali condanne per l’invio di missili dalla Striscia, si è venuto accrescendo mano a mano che aumentava il numero delle vittime e degli obiettivi civili colpiti.
Si è trattato di una crisi per certi versi anomala, non programmata da nessuno dei due contendenti, ma sviluppatasi attraverso un seguito di azioni e reazioni, come una palla di neve che rotola e diviene una valanga, come acutamente annota lo stesso Barnea.
Ma ora è difficile tornare al punto di partenza, come se niente fosse avvenuto. Si tratterebbe di una situazione ancora più precaria di sempre, esposta ad ogni turbativa e provocazione.
Hamas, che ha fronteggiato per quasi un mese l’offensiva di Tsahal e ha dimostrato di poter continuare a bersagliare tutta Israele con i suoi missili, non può accontentarsi di restare nella asfissiante condizione di assedio di questi anni, dopo le gravi perdite della sua popolazione.
Israele può vantare la distruzione dei tunnel alla sua frontiera (quelli conosciuti, almeno) e di circa un terzo della dotazione di razzi in mano ad Hamas, ma sa perfettamente che il giorno dopo la tregua Hamas e Jihad Islamico cominceranno a ricostruire i tunnel e a fabbricare razzi e missili, che ora sono in grado di fare sul posto senza aver bisogno di importarli.
La sua scelta di ritiro unilaterale è quella di affidarsi non al negoziato con Hamas, ma alla deterrenza ricostituita dall’operazione. Anche se ora Israele ha accettato di partecipare ai negoziati con i gruppi palestinesi e l’ANP che si svolgeranno al Cairo in questi giorni.
Che i nodi alla base della crisi vadano affrontati è sempre più evidente: lo stesso Presidente Obama, in una sua concitata telefonata con Netanyahu dopo il suo rifiuto di accettare le sue proposte di tregua, ha ribadito che dalla crisi si deve uscire assicurando la sicurezza di Israele, proteggendo i civili e mettendo in funzione un sostenibile cessate il fuoco che permetta ai Palestinesi di Gaza una vita normale e assicuri le esigenze di lungo termine di sviluppo economico e sociale di Gaza, rafforzando al contempo l’Autorità Nazionale Palestinese.
E’ questo tentativo in atto, utilizzare l’Autorità Nazionale Palestinese ed il suo Governo di Unità Nazionale, sostenuto oltre che da Fatah anche da Hamas, come chiave di volta per riaprire il processo politico e diplomatico. Quel governo, definito alla sua costituzione da Netanyahu come un covo di terroristi, e contro cui aveva sviluppato senza successo una pressante campagna internazionale, potrebbe divenire ora la base per la soluzione del problema, consentendo di affrontare la questione dei valichi di frontiera con Israele e con l’Egitto, che potrebbero tornare a funzionare con la presenza di funzionari dell’ANP e non più di Hamas; di sviluppare i complessi progetti di ricostruzione di cui Gaza ha assoluto bisogno, garantendo che i fondi erogati non vengano utilizzati a fini militari; consentendo infine di avviare un difficile processo di demilitarizzazione nell’area, anche attraverso l’inglobamento delle brigate Ezzedine El Kassem nelle forze di sicurezza nazionali.
Per una ipotesi come questa si battono anche esponenti del Governo israeliano, come Tzipi Livni che vede questo approccio come l’unico in grado di consentire un rilancio del processo negoziale. Ma anche lo stesso Netanyahu presterebbe attenzione crescente a queste idee.
L’idea di un coinvolgimento di Hamas nel sistema di potere dell’ANP non dispiacerebbe d’altronde neanche agli Stati Uniti, che continuano a guardare ai Fratelli Musulmani, di cui Hamas è una costola, come un possibile argine contro i nuovi gruppi estremistici che si vanno rafforzando e estendendo, come l’ISIS in Siria e Iraq.
Resta solo una considerazione da fare: se il Governo di Unità Palestinese viene riconosciuto e sostenuto più largamente, come viene ipotizzato, non si può certo escludere che in caso di elezioni sia Hamas a vincerle nuovamente. Fatah, il Partito del Presidente Abbas, si presenterebbe con un sostanziale vuoto di proposta politica e diplomatica, dopo il fallimento dell’Iniziativa Kerry, anche se certo potrebbe vantare la riapertura dei valichi a Gaza e il progressivo ritorno alla normalità. Mentre Hamas potrebbe presentarsi come il motore della resistenza anti israeliana, che ha saputo fronteggiare uno tra i più poderosi eserciti del mondo. Khaled Meshaal, il leader della formazione islamica, aspira a presentarsi come il nuovo Arafat palestinese. Senza contare che Hamas potrebbe contare su una forza armata addestrata e modernamente equipaggiata, al contrario di Fatah.
E’ una eventualità, quella della vittoria di Hamas, che va messa nel conto. Certo, se Israele liberasse Marwan Barghouti, il leader della seconda intifada rinchiuso all’ergastolo nelle sue carceri, i giochi si riaprirebbero. Ma non ci si può fare troppo affidamento.
Questa analisi è stata pubblicata sull'Huffington Post. 

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