Richard Falk:Geopolitica nonviolenta: legge, politica e sicurezza nel ventunesimo secolo *
nell’articolare
una concezione di un ordine mondiale basato su una geopolitica
nonviolenta nonché nel prendere in considerazione alcuni ostacoli alla
sua realizzazione. Concentrandomi sull’interconnessione tra “legge” e
“geopolitica” l’intenzione è di considerare il ruolo svolto sia dalle
tradizioni normative della legge e della morale, sia l’orientamento
“geopolitico” che continua a guidare gli attori politici dominanti sulla
scena globale. Un simile approccio mette in discussione la principale
premessa del realismo, che la sicurezza, la leadership, la stabilità e
l’influenza nel ventunesimo secolo continuino a basarsi principalmente
sul potere militare, o su quelle che sono a volte descritte come le
capacità del “potere materiale” [1]. In una simile prospettiva la legge
internazionale svolge un ruolo marginale, utile per contrastare il
comportamento degli avversari, ma su cui non fare affidamento nel
calcolare l’interesse nazionale di un paese. In quanto tale, il
principale contributo della legge internazionale, a parte la sua utilità
nell’agevolare la cooperazione in situazioni in cui interessi nazionali
convergano, consiste nel mettere a disposizione una retorica che
razionalizza iniziative controverse di politica estera assunte da un
paese e nel demonizzare comportamenti paragonabili di uno stato nemico.
Questo ruolo digressivo non va minimizzato, ma non dovrebbe neppure
essere confuso con l’esercizio di norme di freno in modo coerente ed
equo.
In questo capitolo la mia intenzione è di fare tre cose:
- · mostrare il grado in cui le vittorie nella seconda guerra mondiale hanno plasmato, attraverso la Carta dell’ONU, essenzialmente un ordine mondiale che, messo in atto nei comportamenti, avrebbe emarginato la guerra e codificato in modo indiretto un sistema di geopolitica nonviolento; in altri termini le fondamenta costituzionali e istituzionali esistono già, ma in forma inerte;
- · criticare il [proporre una critica del] paradigma realista che non molla mai la sua presa sull’immaginario delle élite politiche dominanti e di un approccio che non ha riconosciuto l’obsolescenza e i pericoli associati al sistema bellico;
- · e, infine, prendere in considerazione alcune tendenze della vita internazionale che rendono razionale lavorare in direzione dell’incorporazione della geopolitica nonviolenta nella pratica, nelle idee e nei formalismi della legge internazionale.
I. La Carta dell’ONU e un approccio legalistico alla geopolitica nonviolenta
Nel seguito
immediato della seconda guerra mondiale, particolarmente alla luce degli
orrendi bombardamenti atomici di città giapponesi, anche quelli che
avevano un orientamento realista erano profondamente preoccupati di ciò
che il futuro faceva presagire e senza riflettere molto si accordarono
su un quadro costituzionale di politica mondiale che conteneva la
maggior parte degli elementi della geopolitica nonviolenta. Per un certo
verso si trattò della prosecuzione di una tendenza che si era avviata
dopo la prima guerra mondiale con la creazione della Lega delle Nazioni,
riflettente un incerto avallo del sentimento di Woodrow Wilson che una
simile conflagrazione aveva rappresentato “una guerra per por fine a
tutte le guerre”. Tuttavia i governi coloniali europei fecero di Wilson
oggetto di umorismo e continuarono a credere che il sistema bellico
fosse attuabile e costituisse parte integrante del mantenimento
dell’egemonia occidentale e la Lega delle Nazioni si dimostrò
irrilevante nell’evitare l’inizio della seconda guerra mondiale. Ma la
seconda guerra mondiale fu diversa, perché offrì ai leader politici sia
un ammonimento sinistro su ciò che avrebbe probabilmente comportato una
guerra futura tra grandi stati e sembrò affidare il futuro a una
coalizione di potenze vittoriose che avevano collaborato contro la
minaccia posta dal fascismo e, secondo il punto di vista del leader
statunitense Franklin Roosevelt, avrebbero potuto altrettanto bene
collaborare per mantenere la pace. In aggiunta a ciò, i ricordi della
Grande Depressione e la presa di coscienza che la pace punitiva imposta
alla Germania nel Trattato di Versailles aveva incoraggiato l’ascesa di
Hitler diede alla dirigenza globale mondiale dell’epoca un incentivo ad
agevolare la cooperazione nel commercio e negli investimenti e a capire
l’importanza di ripristinare l’economia della Germania, dell’Italia e
del Giappone sconfitti, in modo da evitare il ripetersi di un’altra
depressione catastrofica.
Fu in questa
atmosfera che fu concordata la Carta dell’ONU con i suoi principi
cardine basati su quanto segue: (1) il divieto incondizionato di ricorso
alla forza nelle relazioni internazionali salvo che per autodifesa da
un previo attacco armato, che significava la messa al bando della guerra
come strumento di politica nazionale; (2) il rafforzamento di questo
divieto con un impegno collettivo dei membri dell’ONU ad aiutare
qualsiasi stato sia bersaglio di una forza non difensiva, compresi
interventi con la forza sotto gli auspici dell’ONU per ripristinare
l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di un tale stato
violato; in nessuna circostanza doveva essere legalmente accettabile che
uno stato acquisisse territorio ricorrendo alla forza; (3) l’ulteriore
rafforzamento di questo atteggiamento mediante il precedente fissato a
Norimberga e Tokyo che ritenne personalmente responsabili penalmente i
leader che dirigono una guerra aggressiva e dalla ‘promessa di
Norimberga’ che assumeva l’impegno che in futuro tutti i leader
politici sarebbero stati soggetti alla responsabilità penale e non
[solo] quelli che avevano perso guerre (‘giustizia dei vincitori’); (4)
l’impegno a rispettare la sovranità interna di tutti gli stati, piccoli o
grandi, attraverso l’accettazione di un obbligo incondizionato di
astenersi da qualsiasi interferenza in questioni essenzialmente interne
alla giurisdizione nazionale.
Tale quadro
legale, se messo in pratica, avrebbe efficacemente eliminato le guerre e
gli interventi militari internazionali, preservato la struttura statale
dell’ordine mondiale e creato un solido insieme di meccanismi
collettivi di sicurezza per impedire l’aggressione e per sconfiggere e
punire qualsiasi governo e i suoi leader impegnati in guerre aggressive.
E’ importante rendersi conto che questa visione legalistica dell’ordine mondiale assumeva che fosse politicamente possibile creare un simile mondo senza guerre e che la razionalità avrebbe
prevalso nell’era nucleare per ridefinire l’approccio alla sicurezza
assunto dai ‘realisti’. E’ anche rilevante osservare che la geopolitica
nonviolenta incorporata nella Carta dell’ONU non implicò mai un
abbraccio totale alla nonviolenza come precondizione della vita
politica. Era compreso che all’interno degli stati si sarebbero verificate politiche insurrezionali violente e varie forme di conflitti civili, senza violare le norme internazionali.
Secondo il piano della Carta le guerre interne erano oltre la portata
del contratto sociale sottoscritto dagli stati per rinunciare al ricorso
alla violenza internazionale. A questo riguardo anche una guerra
interna, a meno che si estendesse oltre i confini per diventare una
specie di guerra internazionale, non doveva essere affrontata dall’ONU.
Pur
nell’ambito di questa concezione legalistica della geopolitica
nonviolenta ci sono difficoltà considerevoli. Innanzitutto il
conferimento di un diritto di veto ai cinque membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza, che significava che nessuna decisione avversa
agli interessi vitali degli attori politici più pericolosi del mondo
potesse essere raggiunta, e che questa esenzione di fatto dall’impegno
alla geopolitica nonviolenta comprometteva gravemente il valore del
quadro legale, rendendo assolutamente cruciale, per conseguire le
pretese di sicurezza poste dall’ONU, partire dal presupposto ottimistico
di una durevole alleanza per la pace. In secondo luogo l’accettazione
della sovranità interna come legalmente assoluta significava che non ci
sarebbero state basi legali per contrastare efficacemente il verificarsi
di genocidi o di gravi crimini contro l’umanità e di altre situazioni
catastrofiche in cui finiva coinvolta una società preda di un conflitto
civile del genere che attualmente colpisce la Siria.
Naturalmente queste carenze legali sembrano
quasi irrilevanti nell’ottica della mancanza di volontà politica di
attuare la visione della Carta della geopolitica nonviolenta. A
posteriori sembra chiaro che prima ancora che la Carta fosse ratificata
le élite al governo negli Stati Uniti e in Unione Sovietica avevano
riaffermato il loro assegnamento sulla loro forza militare, sulle loro
alleanze politiche e sulle loro dottrine di deterrenza per fondare la
propria sicurezza nella logica della potenza materiale contrapposta.
Inoltre l’alleanza antifascista, così efficace in tempo di guerra,
crollò rapidamente in assenza di un nemico comune e seguì la lunga
Guerra Fredda, che assicurò che le dimensioni della sicurezza collettiva
della visione della Carta sarebbero rimaste lettera morta, anche se ciò
non significava implicare che l’ONU fosse un fallimento totale. In
realtà i suoi contributi positivi erano associati alla facilitazione
della cooperazione internazionale ogni volta che era presente un
consenso politico, operando ai margini normativi della prevalente
visione del mondo basata sulla potenza materiale.
Questi vuoti
legali avrebbero potuto essere superati se la visione del mondo dei
principali attori politici avesse veramente abbracciato la geopolitica
nonviolenta come qualcosa di più che una specie di vago quadro di
sicurezza cui aspirare cui non doveva mai essere permesso di interferire
con la fede realista nella deterrenza e nella forza militare una volta
superato lo shock dell’alba dell’era nucleare. C’era un fattore storico
che operava contro qualsiasi serio tentativo di limitare questo
approccio realista alla sicurezza: la cosiddetta ‘lezione di Monaco’ e
cioè che l’aggressione tedesca era stata incoraggiata dalle politiche di
conciliazione delle democrazie liberali europee, che a loro volta
riflettevano una debolezza militare dovuta al considerevole disarmo
successivo alla prima guerra mondiale. Tale visione del passato recente
si tradusse in un argomento quasi irresistibile a sostegno di un
approccio militarista all’ordine mondiale, che era rafforzato dalla
sfida ideologica e geopolitica attribuita all’Unione Sovietica.
Ciò che questo
significava in rapporto con la posizione sostenuta qui è che la
geopolitica violenta o incline alla guerra era pienamente ripristinata,
verosimilmente universalizzata, e limitata solo da una qualità di
rafforzata prudenza per quanto riguardava i confronti tra grandi
potenze, come durante le varie crisi di Berlino e quella dei missili
cubani del 1962. La prudenza era sempre stata una virtù politica cardine
dell’approccio realista classico, ma non era elevata a un ruolo
centrale nell’equilibrare il perseguimento di interessi vitali rispetto
al rischio di una guerra catastrofica. (Aron, 1966, articola al meglio
questo approccio realista).
II. L’argomento etico/politico a favore della geopolitica nonviolenta
L’argomento
contrastante presentato qui è che i risultati politici dopo la fine
della seconda guerra mondiale sono stati principalmente plasmati
dall’ingegno dei poteri morbidi che ha piuttosto costantemente superato
una condizione di inferiorità militare per ottenere i propri risultati
politici desiderati. Gli Stati Uniti controllavano completamente terra,
aria e mera nel corso dell’intera guerra del Vietnam, vincendo ogni
battaglia e tuttavia perdendo alla fine la guerra, uccidendo sino a 5
milioni di vietnamiti sulla via del fallimento del loro intervento
militare. Ironicamente il governo USA proseguì nel coinvolgere il
vittorioso governo vietnamita e attualmente gode di rapporti diplomatici
ed economici amichevoli e produttivi. In questo senso la differenza
strategica tra sconfitta e vittoria è quasi impercepibile, rendendo le
perdite e le devastazioni della guerra ancor più tragiche, in quanto
inutili da ogni punto di vista.
Ciò nonostante
i militaristi statunitensi si sono rifiutati di imparare da quel
risultato, trattando l’impatto di tale sconfitta come una specie di
malattia geopolitica, la “sindrome del Vietnam”, piuttosto che come un
riflesso di una tendenza storica a favore delle rivendicazioni legittime
di autodeterminazione nonostante la vulnerabilità militare di quei
movimenti nazionalisti. I realisti tradizionali hanno ricavato la
lezione sbagliata, insistendo che il risultato era un’eccezione
piuttosto che la regola, un caso di demoralizzazione del sostegno
nazionale alla guerra, non una questione di sconfitta contro un
avversario più forte [2]. In effetti, superare la sindrome del Vietnam
ha significato ripristinare la fiducia nella politica della potenza
materiale e perciò neutralizzare l’opposizione nazionale alla guerra.
Questo controllo militarista resuscitato sulla formazione della politica
estera statunitense è stato proclamato come conquista della Guerra del
Golfo nel 1991, che indusse in modo rivelatore l’allora presidente
statunitense George H.W. Bush a pronunciare queste parole memorabili
sulla scia immediata di tale vittoria militare nel campo di battaglia
del deserto del Kuwait: “Ci siamo finalmente liberati della sindrome del
Vietnam”. Intendendo naturalmente che gli Stati Uniti avevano
dimostrato di poter scatenare e vincere guerre a costi accettabili,
senza soffermarsi a notare che tali vittorie erano ottenute soltanto
dove il terreno era adatto a uno scontro puramente militare e quando la
capacità e la volontà del nemico di resistere erano minime o
inesistenti. Non è che la potenza materiale sia obsoleta, ma piuttosto
che non è in grado di plasmare gli esiti dei conflitti più
caratteristici del periodo successivo al 1945 e cioè la lotta politica
per cacciare forze oppressive che rappresentano una potenza imperiale
straniera o per opporsi a un intervento militare. La potenza materiale è
tuttora decisiva negli scontri con la potenza materiale o in situazioni
in cui la parte più debole è indifesa e la parte più forte è preparata a
portare il suo dominio militare a estremi genocidi.
Non è certo
sorprendente che l’affidamento eccessivo e anacronistico alle soluzioni
della potenza materiale in situazioni di conflitto abbia portato a una
serie di fallimenti, sia riconosciuti (guerra dell’Iraq), sia non
riconosciuti (guerra dell’Afghanistan, guerra in Libia). Fintanto che
gli Stati Uniti investono in potenziale militare tanto più pesantemente
di ogni altro stato, saranno costretti a reagire alle minacce o a
perseguire i propri interessi lungo la via della potenza materiale,
rifiutando in tal modo di tener conto della chiara tendenza storica a
favore del dominio dei poteri morbidi in situazioni di conflitto.
Anche Israele
ha adottato un approccio simile, affidandosi alla sua superiorità
militare per distruggere e uccidere, ma non essendo in grado di
controllare i risultati politici delle guerre in cui si imbarca (ad
esempio la guerra del Libano del 2006, gli attacchi a Gaza del 2008-09).
Un altro costo della potenza materiale o della geopolitica violenta
consiste nel minare il rispetto del primato della legge nella politica
globale e dell’autorità delle Nazioni Unite.
Una seconda
dimostrazione dell’anacronismo dell’affidarsi a un sistema di sicurezza
basato sulla violenza è stata associata alla reazione agli attacchi
dell’11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono, i duplici simboli
dell’imperio statunitense. Una caratteristica di tale evento è stata la
rivelazione dell’estrema vulnerabilità dello stato maggiormente
dominanti in termini militari dell’intera storia umana a un attacco di
un agente non statale senza armamenti significativi e privo di grandi
risorse. Dopo di ciò è divenuto chiaro che gli enormi investimenti
statunitensi nel conseguire un “dominio a pieno spettro” non avevano
prodotto una sicurezza rafforzata, bensì il senso più acuto di
insicurezza nella storia del paese. Ancora una volta è stata ricavata la
lezione sbagliata e cioè che il modo per ripristinare la sicurezza
consisteva nello scatenare una guerra indipendentemente dalla natura
diversa di questo nuovo genere di minaccia, nel fare un uso irrazionale
della macchina militare all’estero e nel ridurre le libertà in patria
nonostante l’assenza di un avversario territoriale o di qualsiasi
rapporto di mezzo-fine tra il ricorso alla guerra e la riduzione della
minaccia [3]. La lezione appropriata, avvalorata dall’esperienza, è che
tale minaccia alla sicurezza può essere affrontata meglio da una
combinazione di forze di polizia transnazionali e affrontando le
rivendicazioni legittime degli estremisti politici che lanciarono
gli attacchi. La reazione spagnola agli attacchi di Madrid dell’11
marzo 2004 è sembrata sensibile a queste nuove realtà: ritiro dal
coinvolgimento nella guerra dell’Iraq e contemporaneo rafforzamento
degli sforzi della polizia per identificare e arrestare estremisti
violenti e partecipazione a tentativi di dialogo per ridurre la tensione
tra l’Islam e l’Occidente [4]. In un diverso contesto, l’ex primo
ministro britannico John Major ha osservato di aver cominciato a fare
progressi nel por fine alle violenze nell’Irlanda del Nord soltanto
quando smise di pensare che l’IRA fosse un’organizzazione terroristica e
cominciò a trattarla da protagonista politico con rivendicazioni reale e
proprie motivazioni per raggiungere un accomodamento e la pace.
La
lezione giusta consiste nel riconoscere l’utilità molto limitata della
potenza militare in situazioni conflittuali all’interno del mondo
post-coloniale, afferrando la misura in cui la lotta popolare ha
esercitato un protagonismo storico nel corso degli ultimi sessant’anni.
Ha plasmato numerosi esiti di conflitti che non potevano essere compresi
se valutati solo attraverso le lenti della potenza materiale che
interpretano la storia come di solito determinata da guerre vinte dalla
parte che ha l’esercito più forte e poi decide i termini della pace [5].
Ogni guerra anticoloniale dell’ultima metà del ventesimo secolo è stata
vinta dalla parte militarmente più debole, che alla fine ha prevalso
pur subendo perdite sproporzionate nel cammino verso la vittoria. Ha
vinto perché il popolo era mobilitato nell’interesse dell’indipendenza
da forze coloniali straniere e la sua resistenza ha incluso la conquista
del controllo completo della superiorità morale. Ha vinto per la verità
politica racchiusa nel detto afgano: “Voi avete gli orologi, noi
abbiamo il tempo”. Conquistare la superiorità morale ha sia
delegittimato il regime coloniale, sia legittimato la lotta
anticoloniale; alla fine anche l’ONU, stato-centrica e inizialmente
amica dell’impero, è stata indotta ad avallare le lotte anticoloniali
con riferimento al diritto all’autodeterminazione, che è stato
proclamato diritto inalienabile di tutti i popoli.
Questa
influenza delle capacità del potere morbido nelle lotte politiche non è
sempre stata tale. In tutta l’era coloniale e fino a metà del ventesimo
secolo, la potenza materiale era in generale efficace ed efficiente,
così come espressa dalle conquiste coloniali dell’emisfero occidentale
con piccoli numeri di truppe ben armate, dal controllo britannico
sull’India con poche migliaia di soldati o dal successo della
“diplomazia delle cannoniere” nel sostenere l’imperialismo economico
statunitense nell’America Centrale e nei Caraibi. Ciò che fece volgere
la marea della storia contro il militarismo fu l’ascesa della coscienza
di sé nazionale e culturale nei paesi del Sud, più spettacolarmente in
India sotto la guida ispirata di Gandhi, dove forme coercitive
nonviolente di potere morbido rivelarono per la prima volta la loro
potenza. Più recentemente, favorita dalla rivoluzione nelle
comunicazioni, la resistenza ai regimi oppressivi, basata sui diritti
umani, ha dimostrato i limiti del governo dei poteri forti in un mondo
globalizzato. La campagna contro l’apartheid estese la lotta contro il
regime razzista che governava il Sudafrica a un campo di battaglia
simbolico globale dove le armi erano l’affidamento coercitivo
nonviolento ai boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni. Il collasso
dell’apartheid in Sudafrica fu in larga misura realizzato da sviluppi
esterni alla sovranità territoriale, uno schema che oggi è replicato
dalla “guerra di legittimitazione” palestinese scatenata contro Israele.
L’esito non è garantito ed è possibile che la guerra per la
legittimazione sia vinta e tuttavia sia mantenute le condizioni
oppressive, come sembra accadere attualmente nel caso del Tibet.
Su questo
sfondo è considerevole e persino sconcertante che la geopolitica
continui a essere mossa da un’unanimità realista che fuori dalla storia
ritiene che la storia continui a essere determinata dalla grandiosa
strategia dei protagonisti statali dominanti della potenza materiale
[6]. In effetti i realisti hanno perso il contatto con la realtà. Sembra
corretto riconoscere che rimane un ruolo razionale per la potenza
materiale, come argine difensivo dal residuo militarismo statale, ma
anche a questo riguardo i guadagni economici e politici della
smilitarizzazione sembrerebbero superare di molto i benefici di una
dipendenza anacronistica da forme di potenza materiale di autodifesa,
specialmente quelle che rischiano guerre combattute con armi di
distruzione di massa. Riguardo alla violenza politica non statale, le
capacità della potenza materiale sono di scarsa o nulla rilevanza e la
sicurezza può essere ottenuta meglio con accomodamenti, servizi
d’informazione e forze di polizia transnazionali. Il ricorso
statunitense alla guerra nell’affrontare la minaccia di al-Qaeda, come
in Iraq e in Afghanistan, si è dimostrato costoso e maldiretto [7].
Proprio come la sconfitta USA in Vietnam ha replicato le sconfitte
francesi nelle guerre coloniali scatenate in Indocina e in Algeria, il
ciclo dei fallimenti è rinnovato nello scenario globale post 11
settembre. Perché lezioni simili che hanno rilievo nel modificare
l’equilibrio tra potenza materiale e potere morbido restano ignorate nel
centro imperiale delle manovre geopolitiche?
E’ di grande
importanza porre questa domanda anche se non è in arrivo alcuna risposta
definitiva al presente. Ci sono alcuni indizi suggestivi relativi a
spiegazioni sia materiali sia ideologiche. Sul lato materialista, ci
sono strutture governative e sociali profondamente radicate la cui
identità e i cui interessi di parte sono legati a una dipendenza massima
dalla potenza materiale e dalla sua proiezione. Queste strutture sono
state identificate in vari modi nello scenario statunitense: “stato
della sicurezza nazionale”, “complesso militare-industriale”,
“keynesismo militare” e “il sistema bellico”. Fu Dwight Eisenhower che
più di cinquant’anni fa ammonì circa il complesso industriale-militare
nel suo discorso di addio, formulando rimarchevolmente la sua
osservazione dopo che non era più in grado di esercitare influenza sulla
politica governativa [8]. Nel 2010 sembra esserci una struttura più
profondamente radicata a sostegno del militarismo e che si estende ai
media dominanti, ai gruppi di esperti conservatori, a un esercito di
lobbisti considerevolmente pagati e a un Congresso profondamente
compromesso la maggioranza dei cui membri ha sostituito il denaro alla
coscienza. Questo paradigma politicamente radicato che collega il
realismo al militarismo rende virtualmente impossibile contestare un
bilancio militare anche in tempi di deficit fiscali che sono
riconosciuti da osservatori conservatori come una minaccia alla vitalità
dell’impero USA (Ferguson 2010). La dimensione del bilancio militare,
combinata con flotte in ogni oceano, più di 700 basi militari all’estero
e un enorme investimento nella militarizzazione dello spazio mostrano
l’autoassolutoria incapacità di riconoscere la disfunzionalità di tale
atteggiamento globale [9]. Gli USA spendono quasi quanto l’intero mondo
messo insieme per la propria macchina militare e più del doppio di
quanto spendono i dieci principali stati che li seguono nella
classifica. E con quale vantaggio per gli interessi nazionali o globali?
Il massimo che
ci si può attendere da un aggiustamento dell’unanimità realista in
queste condizioni è un certo ammorbidimento dell’enfasi sulla potenza
materiale. Da questo punto di vista si nota che numerosi aderenti
influenti all’unanimità realista hanno recentemente richiamato
l’attenzione sulla crescente importanza di elementi non militari del
potere nel perseguimento razionale di una grande strategia che continua a
inquadrare la geopolitica con riferimento a presunte “realtà” della
potenza materiale, ma che sono allo stesso tempo critici
dell’arcimilitarismo attribuito ai neoconservatori (vedere Nye 1990;
Gelb 2009; Walt 2005) [10]. Questo stesso tono pervade il discorso di
Barack Obama alla cerimonia del Premio Nobel per la Pace nel 2009.
Questo rifiuto realista di comprendere uno scenario globale largamente post-militarista
è eccessivamente pericoloso, considerata la continua presa del realismo
sulla definizione della politica da parte di forze governative e del
mercato/finanza [11]. Tale realismo superato non solo si dà a imprese
militari imprudenti; tende anche a trascurare una gamma di problemi più
profondi che influenzano la sicurezza, la sopravvivenza e il benessere
umano, tra cui il cambiamento climatico, il picco del petrolio, la
scarsità d’acqua, la fragilità fiscale e la caduta libera del mercato.
In quanto tale, questo orientamento politico è incapace di formulare le
priorità associate a forme sostenibili e benevole di governo globale.
In aggiunta
alla rigidità strutturale che deriva dal radicato paradigma militarista,
sorge un’incapacità sistema di apprendere che non è in grado di
analizzare le cause principali dei fallimenti del passato. In termini
pratici ciò porta a scelte politiche troppo stesso plasmate da un
pensiero privo d’immaginazione intrappolato in una scatola militarista.
Nella recente esperienza politica internazionale, un pensiero
prevalentemente confinato nella scatola militare ha condotto
l’amministrazione Obama a intensificare il coinvolgimento USA in una
lotta interna per il futuro dell’Afghanistan e a lasciare sul tavolo la
cosiddetta opzione militare per trattare la prospettiva
dell’acquisizione iraniana di armi nucleari. Un attraente approccio
politico alternativo in Afghanistan sarebbe basato sul riconoscimento
che quello dei talebani è un movimento che persegue obiettivi
nazionalisti in mezzo a un conflitto etnico che divampa. In conseguenza
si tenderebbe alla conclusione che gli interessi della sicurezza
statunitense si avvantaggerebbero da una fine delle operazioni belliche,
seguita da un graduale ritiro delle forze della NATO, da un grande
incremento dell’assistenza allo sviluppo che eviti di canalizzare fondi
attraverso un corrotto governo di Kabul e da una genuina svolta della
politica estera USA verso il rispetto della politica
dell’autodeterminazione. Similmente, in rapporto all’Iran, invece di
minacciare un attacco militare e di promuovere misure punitive, una
sollecitazione alla denuclearizzazione regionale, che insistesse
sull’inclusione di Israele, sarebbe un’espressione sia di un pensiero
estraneo alla scatola militarista, sia dell’esistenza di reazioni non
militari che offrano maggiore speranza a preoccupazioni effettivamente
genuine per la sicurezza.
III. Osservazioni conclusive: opportunità, sfide, tendenze
In conclusione
è quasi destinata a realizzarsi una qualche forma di geopolitica,
considerate la grossolana disuguaglianza degli stati e la debolezza
delle Nazioni Unite come espressione istituzionale di un governo
unificato per il pianeta. Specialmente dopo il crollo dell’Unione
Sovietica il primato degli Stati Uniti si è inevitabilmente tradotto
nella loro ascesa geopolitica. Sfortunatamente questa posizione ha avuto
come premessa una fiducia non ricostruita sul paradigma della potenza
materiale, che combina militarismo e realismo, producendo una
geopolitica violenta in rapporto a conflitti critici non risolti.
L’esperienza degli ultimi sessant’anni mostra chiaramente che questo
paradigma è insostenibile sia dal punto di vista pragmatico sia dei
principi. Non consegue i propri obiettivi a costi accettabili, se mai li
consegue. Si basa su pratiche immorali che implicano grandi uccisioni
di innocenti e colossali sprechi di risorse.
Forse la
principale verifica della tesi di questo saggio è la continua lotta per
l’autodeterminazione del popolo palestinese, sotto forma di un singolo
stato laico includente l’intera Palestina storica o di stato
indipendente e vitale per conto proprio coesistente con lo stato
israeliano. Come stanno le cose oggi, dopo decenni di occupazione, la
lotta palestinese si affida principalmente a una guerra di
legittimazione basata su una serie di strumenti di potere morbido, tra
cui la diplomazia e la guerra legale, una campagna nonviolenta di
boicottaggio coercitivo e di disinvestimenti e una varietà d’iniziative
della società civile che sfidano le politiche israeliane. C’è incertezza
sull’esito futuro. L’intero orientamento del potere morbido ha fatto un
gigantesco passo in avanti grazie alla “Primavera Araba” in cui
movimenti popolari disarmati hanno sfidato regimi oppressivi e
dittatoriali con alcuni successi notevoli, specialmente in Egitto e in
Tunisia, ma ottenendo altrove almeno promesse di estese riforme. Io
penso che sempre più le potenzialità della costruzione di un ordine
mondiale sulla base di principi di potere morbido stiano guadagnando
sostegno, trasferendo l’idea della geopolitica nonviolenta dal campo
dell’utopismo al divenire un genuino progetto politico. Naturalmente c’è
resistenza, più specialmente dagli oppositori guidati da Stati Uniti e
Israele.
Quelle forze
politiche che si affidano all’alternativa di pratiche e principi
nonviolenti, per contro, hanno mostrato la capacità di conseguire
obiettivi politici e una volontà di perseguire i propri obiettivi con
mezzi etici, a volte con grande rischio personale. Il movimento
gandhiano che produsse l’indipendenza dell’India, la trasformazione,
guidata da Mandela, del Sudafrica dell’apartheid, il potere popolare
nelle Filippine e le rivoluzioni morbide nell’Europa Orientale dei tardi
anni ’80 sono casi esemplari di trasformazioni nazionali basate sulla
lotta nonviolenta che implicavano rischi per i militanti ed ebbero
conseguenza in casi di particolare rilievo sacrifici di sangue. Nessuna
di queste vittorie dei poteri morbidi ha prodotto società interamente
giuste o ha affrontato l’intero ordine del giorno delle preoccupazioni
sociali e politiche, spesso lasciando intatti rapporti di classe
sfruttatori e amare tensioni sociali, ma esse sono riuscite a superare
situazioni immediate di rapporti oppressivi statali/sociali senza un
significativo ricorso alla violenza.
Passando allo
scenario globale, esistono opportunità analoghe di applicazione di
geopolitica nonviolenta. C’è un diffuso riconoscimento del fatto che la
guerra tra grandi stati non è una scelta razionale in quanto quasi
certamente comporterebbe enormi costi in sangue e denaro e otterrebbe
risultati reciprocamente distruttivi diversamente dal chiaro vincitore e
perdente del passato. Le opportunità di una geopolitica nonviolenta
sono fondate anche sulla volontà del governo di accettare la disciplina
sempre più praticamente autolimitante della legge internazionale così
come diffusamente avallata da principi morali incorporati nelle grandi
religioni e civiltà del mondo. Un altro passo in questa direzione
sarebbe un ripudio da parte dei nove stati dotati di armi nucleari delle
armi di distruzione di massa, a partire da un’annunciata dichiarazione
di non usare per primi gli armamenti nucleari e passando a un immediato e
urgente negoziato sul trattato del disarmo nucleare che si ponga come
obiettivo non utopistico “un mondo senza armi nucleari” (Krieger,
2009). Il secondo passo essenziale consiste nel liberare
l’immaginazione morale e politica dai confini del militarismo e dal
conseguente pensare all’interno di quel perimetro disfunzionale che
continua a restare un componente base della mentalità realista tra i
paesi guida dell’occidente, specialmente gli Stati Uniti. La sfida
psico-politica dell’abbandonare l’affidamento ai potenziali bellici come
pietra angolare della sicurezza è resa più difficile dagli interessi
radicati del settore burocratico e privato in un quadro militarista di
politica della sicurezza.
—
* Alcune delle idee delle sezioni II e III dell’articolo sono state sviluppate in precedenza in “Renouncing Wars of Choice: Toward a Geopolitics of Nonviolence” [Ripudio delle guerre per scelta: verso una geopolitica della nonviolenza] in Griffin e altri, 2006, 69-85 e in “Nonviolent Geopolitics” [Geopolitica nonviolenta], a cura di Joahnsen e Jones, 2010, 33-40.
[1] Un’eccezione all’orientamento prevalente è Rosecrance, 2002.
[2]
Significativamente, ogni leader statunitense dopo Nixon ha fatto del suo
meglio per eliminare la sindrome del Vietnam, percepita dal Pentagono
con un inibitore indesiderato dell’uso della forza aggressiva nella
politica mondiale. Dopo la fine della Guerra del Golfo nel 2001, le
prime parole del presidente George H. Bush furono: “Abbiamo finalmente
cancellato la sindrome del Vietnam”, intendendo, ovviamente, che gli
Stati Uniti erano nuovamente in grado di combattere “guerre per scelta”.
[L’espressione, qui come più sopra, “guerre per scelta” si contrappone a
“guerre per necessità” – n.d.t.]
[3] Bene espresso in Cole e Lobel, 2007; vedere anche il mio tentativo, Falk 2003.
[4] Questo paragone è analizzato in modo simile da Galtung, 2008.
[5] Documentato significativamente in Schell, 2003.
[6] E’ degno
di nota che i cambiamenti nel panorama geopolitico globale associati
all’ascesa di Cina, India, Brasile e Russia abbiano largamente a che
fare con la loro ascesa economica, e per nulla con i loro potenziali
militari, che restano banali in confronto con quelli degli Stati Uniti.
[7] Mentre le
lotte interventiste proseguono di anno in anno con risultati
inconcludenti, ma con costi montanti in vite e risorse, le parti che
intervengono contraddicono la loro stessa logica bellica, ricercando
compromessi e persino invitando il nemico a partecipare al processo
governativo. Ciò è stato tentato sia in Iraq sia in Afghanistan, ma solo
dopo aver inflitto danni enormi e durature grandi perdite di vite tra
le stesse proprie truppe e sopportando grandi spese.
[8] Tra gli studi preziosi vi sono Barnet, 1972, e Lewin, 1968.
[9] Dimostrato
in modo più convincente in una serie di libri di Chalmers Johnson.
Vedere specialmente il primo dei suoi tre libri sul tema (2004).
[10] Per una critica progressista del militarismo imperiale statunitense vedere Kolko, 2006.
[11] Numerosi
studiosi eminenti sono da molto tempo sensibili al distacco che separa i
realisti, anche prudenti, dalla realtà. Per un importante testo tuttora
rilevante vedere Galtung, 1980. Per altri perspicaci studi recenti su
queste linee vedere Booth, 2007, specialmente la sezione sul “realismo
emancipativo”, pagg. 87-91; Camilleri e Falk, 2009; Mittelman, 2010.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Richardfalk.com
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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