L’Irlanda del Nord e il ‘processo di pace’ israelo/palestinese di Richard Falk

troubles_peaceDi Richard Falk
24 dicembre 2013
Ho visitato Belfast nei giorni scorsi durante alocuni negoziati su problemi irrisolti tra i partiti politici Unionista e Repubblicano (o nazionalista) e sono stato colpito dall’assoluta dipendenza esistente per qualsiasi tipo di credibilità di questo processo, dalla neutralità incontaminata percepita del terzo partito mediatore. Sarebbe stato così totalmente inaccettabile contare sull’Irlanda o sulla Gran Bretagna per svolgere un ruolo del genere, e la sola proposta di un intermediario così di parte avrebbe causato la derisione del partito avversario, confermando i sospetti che la sua intenzione doveva essere stata quella di  evitare  i negoziati proposti.  Sullo sfondo di questa riflessione c’è il ruolo costruttivo avuto dagli Stati Uniti più di 10 anni fa, quando aveva incoraggiato attivamente un processo di riconciliazione attraverso uno storico abbandono della violenza da parte degli antagonisti. Il processo di pace era basato sul Patto del Venerdì Santo giustamente festeggiato e che ha portato alla gente dell’Irlanda del Nord una gradita misura di sollievo dal cosiddetto “Tempo dei guai” (Time of Troubles),  anche se gli antagonismi alla base restano intensamente  vivi nelle realtà quotidiane di Belfast, così come un’inclinazione persistente verso la violenza tra quei resti estremisti della lotta da entrambi i lati che rifiutano qualsiasi mossa verso un accordo. La tensione che è alla base rimane, dato che i sentimenti repubblicani sono a favore di un’Irlanda unita mentre gli Unionisti continuano a essere lealisti britannici, profondamente contrari a qualsiasi mossa verso una fusione con la Repubblica di Irlanda.
L’attuale turno di negoziati che si svolge a Belfast comprende argomenti apparentemente banali: se la bandiera del Regno Unito dovrà sventolare dal parlamento e dagli altri edifici governativi nelle 18 festività ufficiali o tutti i giorni e se il tricolore irlandese dovrà sventolare quando i leader della Repubblica di Irlanda visitano Belfast; in che grado saranno regolate le parate annuali Unioniste che passano nei quartieri repubblicani per evitare provocazioni; e come si può trattare del passato in modo da portare sollievo a coloro che hanno lagnanze da fare, specialmente collegate alla morte di membri della famiglia che non erano stati mai trattati in modo adeguato da coloro che all’epoca avevano l’autorità. Apparentemente, in ricordo dei successi attribuiti a George Mitchell, l’illustre personaggio politico americano che viene di solito associato con l’elaborazione di proposte che hanno prodotto il  Patto del Venerdì Santo, la fase attuale di un processo  di accomodamento che si evolve, è presieduta da un altro illustre americano, Richard Haass. E’ un ex funzionario del  dipartimento di stato e attuale presidente del Consiglio per le relazioni estere, la influente ONG dell’establishment nel settore della politica estera. In questo contesto il governo degli Stati Uniti (e anche i suoi cittadini importanti)  è considerato un mediatore onesto, e sebbene il governo non sia direttamente coinvolto, è stata scelta una persona strettamente collegata con l’ordine costituito e sembra accettabile ai 5 partiti politici dell’Irlanda del Nord che partecipano ai negoziati. Questo tentativo di assicurare la continuazione della stabilità nell’Irlanda del Nord sembra rispondere  all’ordine naturale: che i negoziati in situazioni di profondo conflitto traggono beneficio dalla mediazione di una terza parte, purché questa venga percepita come non faziosa, neutrale e competente e che agisca in modo credibile e con diligenza come controllo della situazione di stallo      della parzialità.
Il contrasto di questa esperienza in Irlanda del Nord con quello che è venuto fuori durante gli scorsi 20 anni nel tentativo di risolvere il conflitto israelo/palestinese, non potrebbe essere più impressionante. Il processo negoziale tra Israele e Palestina nasce da una terza parte dichiaratamente parziale, gli Stati Uniti, che non fanno alcun tentativo per nascondere il loro impegno per salvaguardare gli interessi dello stato di Israele anche se ai danni degli interessi palestinesi. Questa valutazione critica stata attentamente documentata nel libro autorevole di Rashid Khalidi: Brokers of Deceit: How the U.S: Has Undermined Peace in the Middle East (2013) [ Mediatori di inganni: come gli Stati Uniti hanno minato la pace in Medio Oriente]. Oltre questa macchia, la sfacciataggine della  Casa Bianca getta ripetutamente sabbia  negli occhi dei palestinesi  designando gli inviati speciali collegati all’AIPAC *(American Israel Public Affairs Committee),  Comitato israelo/americano per gli affari pubblici, per supervisionare i negoziati come se fosse principalmente Israele che ha bisogno di rassicurazioni che i suoi interessi nazionali saranno protetti, mentre i maggiori interessi dei palestinesi non richiedono nessuna indicazione del genere, di sensibilità protettiva.
Come si possono spiegare questi approcci americani contrastanti in queste due imprese importanti per risolvere il conflitto? Naturalmente la prima linea di spiegazione sarebbe la politica interna negli Stati Uniti. Sebbene gli americani di origine irlandese in generale abbiano simpatie repubblicane, i molteplici legami di Washington con il Regno Unito assicurano che  si sarebbe raggiunto un  atteggiamento di imparzialità dalla prospettiva degli interessi nazionali. Gli Stati Uniti avevano moltissimo da guadagnare in Irlanda essendo considerati come coloro che  aiutano le parti a spostarsi da un incontro violento verso un processo politico nel perseguire i loro obiettivi contrapposti. Sembra che le cose stiano così anche nel caso di Israele e Palestina tranne  che per l’intrusione della politica interna soprattutto sotto forma dell’influenza della pressione dell’AIPAC. Qualcuno può dubitare che se i palestinesi avessero possibilità compensative di pressione,  gli Stati Uniti sarebbero esclusi come arbitri diplomatici o farebbero del loro meglio per apparire imparziali?
Ci sono altri fattori esplicativi secondari. Specialmente dalla guerra del 1967, si è trattato di una faccenda di accordi con i circoli  legislativi americani, il fatto che Israele sia un alleato strategico affidabile in Medio Oriente. Naturalmente gli interessi possono divergere di quando in quando, come sembra sia successo di recente in relazione all’accordo ad interim che implica il programma di armi nucleari dell’Iran, ma complessivamente i modelli di alleanza nella regione hanno messo Stati Uniti e Israele dalla stessa parte: operazioni e tattiche di antiterrorismo, contro proliferazione, contenimento dell’influenza dell’Iran, opposizione alle diffusione dell’Islam politico, appoggio all’Arabia Saudita e ai governi conservatori del Golfo. In particolare, fino dall’11 settembre, Israele è stato un mentore per l’antiterrorismo degli Stati Uniti e di altri paesi del mondo, offrendo addestramento di esperti e      quello che esso chiama  ‘armamenti testati per il combattimento’, che significa tattiche e armi usate da Israele per controllare per molti anni le popolazioni palestinesi ostili, specialmente Gaza.
Una terza e più debole spiegazione  è una pretesa affinità ideologica. Israele promuove se stesso,  appoggiato in questo dagli Stati Uniti, come ‘l’unica democrazia’,  oppure ‘l’unica democrazia genuina’ in Medio Oriente. Malgrado le molte contraddizioni associate con questa asserzione, che vanno dal chiudere gli occhi quando si tratta dell’Araba Saudita o del colpo di stato egiziano, fino a un rifiuto a occhi spalancati di notare il modello legalizzato di discriminazione contro la sua minoranza palestinese del 20%. Si è suggerito in maniera persuasiva che parte del motivo per cui i governi arabi sono riluttanti ad appoggiare la lotta palestinese, è il timore che il suo successo destabilizzerebbe i regimi autoritari nella regione. In questo riguardo, è stata la prima intifada, nel 1987, che, a posteriori, sembra essere stata la causa antecedente più importante della Primavera Araba del 2011. E’ anche rilevante che malgrado la dichiarazione di valori democratici in Medio Oriente, Israele non ha mostrato alcun rimorso quando il governo egiziano eletto è stato rovesciato da un colpo militare la cui dirigenza ha proceduto poi a criminalizzare coloro che erano stati scelti soltanto un anno prima dagli elettori egiziani per governare il loro paese.
Questi sono motivi seri quando sono considerati insieme, ci aiutano a comprendere perché il modello di Oslo e il conseguente piano di azione, e le varie sedute di negoziati, non hanno prodotto un risultato che rassomigli lontanamente a quella che potrebbe essere correttamente definita ‘una pace giusta e sostenibile’  dalla prospettiva palestinese. Israele evidentemente non ha percepito questo esito di risoluzione del conflitto come se fosse nel suo interesse nazionale, e non gli è stato dato alcun incentivo sufficiente dagli Stati Uniti o dall’ONU per ridurre le sue ambizioni, che comprendono un’espansione continua degli insediamenti, il controllo sull’intera Gerusalemme, la negazione dei diritti dei palestinesi al ritorno, l’appropriazione delle risorse idriche e della terra, le richieste di sicurezza  invadenti,  unilaterali, ed eccessive, e un atteggiamento collegato contrario alla nascita di uno stato palestinese fattibile e ancora più contrario a dare qualsiasi credito alle proposte di un singolo stato laico  bi-nazionale. Inoltre, malgrado questo atteggiamento diplomatico irragionevole, che ottiene plausibilità soltanto per l’influenza sproporzionata di Israele sui meccanismi di intermediazione e su suoi esperti di media  nel proiettare le sue priorità, la Palestina e i suoi dirigenti vengono principalmente incolpati dei fallimenti  del ‘processo di pace’ per porre fine al conflitto per mezzo di una soluzione su cui c’è accordo reciproco. Questa è una percezione particolarmente perversa, data l’estrema irragionevolezza di Israele in rapporto alla risoluzione del conflitto, la parzialità degli Stati Uniti, e la passività della Palestina nell’affermare le sue pretese, le sue lagnanze e i suoi interessi.
Infine dobbiamo chiederci perché i leader palestinesi sono stati disponibili a dare credibilità per così tanto tempo a un processo diplomatico che sembra offrire così poco al loro movimento nazionale. La risposta più diretta è: la mancanza di potere di dire ‘no’. Questo si può ulteriormente elaborare facendo notare la mancanza di un’alternativa migliore. Un’ulteriore indicazione della dipendenza palestinese dalla democrazia, è il grado in cui gli Stati Uniti esercitano una pressione su Ramallah  perché pensano che la gestione di questo ponte verso il nulla del processo di pace, possa essere utile, malgrado le molte frustrazioni e fallimenti, e permetta a Washington di mostrare sia un impegno per la pace che per Israele. Il Segretario di stato americano, John Kerry, nei mesi scorsi ha fatto pressioni sulle parti per riprendere i colloqui di pace, parlando spesso delle ‘concessioni dolorose’  che dovrebbero fare entrambe le parti se i negoziati devono avere successo.  Questo appello fuorviante alla simmetria ignora la clamorosa disparità di posizione e di possibilità delle due parti. Se questa disparità è così grande da rendere dubbio usare il linguaggio del conflitto è di per sé una questione aperta.  Non sarebbe più  esplicito e rivelatore chiedere, a causa del grado di disuguaglianza, se la Palestina abbia qualche possibilità di dire qualcosa riguardo ai termini di una risoluzione, che non sia ‘sì’ o ‘no’ a quello che Israele è preparato a offrire in ogni momento? In questo senso somiglia di  più  alla fine di una guerra in cui c’è un vincitore e  un perdente, tranne che in questo caso il perdente ha almeno il diritto sovrano di dire ‘no’. E’ necessario anche osservare che questa percezione è profondamente deviante perché ignora quella che può essere chiamata ‘l’altra guerra’, cioè la guerra di legittimizzazione che i palestinesi stanno vincendo, e, data la storia di decolonizzazione, sembra che abbia una buona possibilità di controllare il risultato politico della lotta.
Tornando all’approccio intergovernativo, andrebbe anche notato che la diplomazia non tiene conto del contesto storico. La Palestina non ha concesso più del necessario anche prima che i negoziati iniziassero, accettando un quadro di proposte territoriali che sembra accontentarsi del 22% della Palestina storica, sebbene questo territorio sia meno della metà che il piano di spartizione dell’ONU aveva proposto nel 1947, e allora sembrava ingiusto vista la demografia etnica dell’epoca? Dovremmo tenere conto anche dell’importanza della presunta politica essenziale dell’ONU contro l’acquisizione di territorio con l’uso della forza, che sembrerebbe ordinare un ritorno del territorio di Israele almeno alle proposte dell’ONU del 1947 contenute nella Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale. L’implicazione della penosa  retorica della concessione di Kerry, è che ci si aspetterebbe soltanto che Israele rimuovesse alcuni insediamenti e avamposti isolati in Cisgiordania  sebbene fossero illegali fin da quando sono stati installati , e che potrebbe conservare la terra preziosa di cui si è appropriato per i blocchi di insediamenti fin dal 1967, malgrado la loro esistenza fosse in flagrante violazione dell’Articolo 49 (6) della Quarta Convenzione di Ginevra. In altre parole, ci si aspetta che la Palestina rinunci a dei diritti fondamentali mentre si ipotizza che Israele abbandoni alcuni aspetti relativamente minori della sua prolungata occupazione della Cisgiordania e che conservi la maggior parte dei suoi guadagni disonesti.
Che cosa si impara da questa analisi?
(1) L’intermediazione di una terza parte funziona soltanto se viene percepita da entrambe le parti come imparziale.
(2) L’intermediazione faziosa può riuscire soltanto se la parte più forte è in grado di imporre la sua visione del futuro al lato più debole;
(3) Analizzare la diplomazia israelo/palestinese mette in risalto l’importanza di (2) e non dovrebbe essere confusa con il carattere  rivendicato di esempio di (1).
(4) Forse subito dopo la vittoria palestinese nella Guerra di Legittimità, si potrebbe concepire il tipo di modello di diplomazia costruttiva ottenuta nell’Irlanda del Nord, ma la sua credibilità dipenderebbe da un’intermediazione imparziale.
* http://it.wikipedia.org/wiki/AIPAC
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/northern-ireland-and-the-israel-palestine-peace-process-by-richard-falk
Originale:Richardfalk.com
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2013  ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC  BY – NC-SA  3.0
 Irlanda del Nord e il ‘processo di pace’ israelo/palestinese

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