L’instabilità nel Sinai di Joshua Goodman


  Dopo il crollo del regime di Mubarak, una crescente attenzione è stata rivolta alla fragile situazione della sicurezza nel Sinai. Ma le recenti violenze tra le forze di sicurezza dello Stato e i beduini locali non sono affatto espressione di un nuovo conflitto; gli attacchi contro le infrastrutture governative e i rapimenti di funzionari della sicurezza hanno avuto luogo fin dagli anni ‘80, in gran parte in risposta alle politiche di repressione ed emarginazione adottate dallo Stato. Le rivolte egiziane del 2011, tuttavia, hanno notevolmente indebolito la capacità – o forse la disponibilità – del governo a proseguire una politica di repressione, e il parziale ritiro degli apparati della sicurezza dalla regione non è passato inosservato. Nel vuoto di potere determinatosi, i beduini hanno intrapreso forme sempre più aperte e audaci di resistenza militante. Ma quali sono le motivazioni alla base di questa violenza, e quali sono le possibili soluzioni? 
La maggior parte delle violenze hanno avuto luogo nel governatorato del Sinai del Nord. Dato che la divisione amministrativa tra nord e sud è stata tracciata secondo i confini tribali – il sud in gran parte coincide con i confini tradizionali della confederazione Tawara, il nord con i gruppi dei Tiyaha e dei Terabin – molti hanno attribuito la differenza nei livelli di violenza alle suddivisioni tribali regionali. Ma nel Sinai è l’economia, piuttosto che le suddivisioni identitarie, a spiegare meglio queste fluttuazioni nei conflitti.
Dopo il ritiro di Israele dalla penisola a seguito del trattato di pace tra il Cairo e Tel Aviv, i progetti di sviluppo (stabiliti dai funzionari egiziani e dall’USAID come parte del pacchetto di assistenza finanziaria americana sulla scia dell’accordo di Camp David) selezionarono il sud per il turismo e il nord per il lavoro agricolo e industriale, in base alle risorse e ai punti di forza geografici di ciascuna regione – terreno fertile nel nord, petrolio e giacimenti minerari nella parte occidentale, scogliere e beni ambientali nella parte sudorientale. Ma in nessuno di questi casi i beduini locali sono stati consultati.
I beduini nel nord hanno lungamente lamentato la loro esclusione dai progetti agricoli e industriali, mentre lo sviluppo sponsorizzato dallo Stato in questi settori ha seriamente compromesso gli sforzi delle tribù di mantenere un’economia di sussistenza. Esse hanno denunciato arresti arbitrari e percosse, spiegando il loro ricorso alla violenza come l’unico mezzo attraverso il quale possono opporsi alla politica di soggiogamento da parte dello Stato. Le tribù regolarmente rispondono agli arresti compiendo incursioni contro le installazioni di sicurezza, sequestrando funzionari e scambiandoli con i propri parenti detenuti. Allo stesso modo, la distruzione delle proprietà beduine da parte dello Stato suscita in risposta attacchi contro le infrastrutture: i recenti attentati al gasdotto fra Egitto e Israele potrebbero essere considerati (anche se non in maniera esclusiva) in questo contesto.
Anche nel sud del Sinai il governo solitamente rifiuta le richieste beduine di accesso alla terra e alle risorse, nel tentativo di allontanare le tribù dalle redditizie strisce di terra ambite dagli imprenditori del turismo. Tuttavia, il risentimento in questo governatorato raramente sfocia nella violenza; una ragione è che le tribù del Sinai del Sud sono riuscite a ritagliarsi una nicchia all’interno del settore praticando un’economia turistica informale che ha permesso loro di aggirare le normali restrizioni imposte dalle località turistiche multinazionali e dallo Stato. Inoltre, il turismo nel Sinai dipende così tanto dalla stabilità politica che qualsiasi disordine provocato dai beduini o dallo Stato lederebbe gli interessi economici di tutte le parti interessate. Fintanto che il turismo è rimasto stabile, il conflitto latente non è mai venuto allo scoperto.
I beduini del sud hanno anche potuto trarre profitto dal contrabbando – soprattutto il traffico di stupefacenti nella Valle del Nilo, che è da tempo una caratteristica documentata dell’economia locale. Dopo l’imposizione di un confine tra Gaza ed el-Arish all’inizio del XX secolo, il contrabbando si è spostato dalle vie di transito nel nord verso i più sicuri itinerari nel sud. In coincidenza con le opportunità economiche relativamente maggiori di cui godono oggi i beduini del sud, è facile immaginare il risentimento che ciò ha generato fra le tribù del nord nei confronti dei loro fratelli meridionali. Ciò spiega parte delle motivazioni che i beduini del nord hanno avuto nel collaborare agli attentati contro le località turistiche del sud nei primi anni 2000.
Tuttavia, le più recenti manifestazioni di violenza nel governatorato del Sinai del Sud non sono una funzione del risentimento del nord nei confronti della “prosperità” del sud. Piuttosto, dopo lo scoppio della rivoluzione – che ha determinato una battuta d’arresto nel turismo su scala nazionale – le tribù meridionali hanno mostrato un maggiore disponibilità ad adottare mezzi di resistenza più drastici. Gli esempi più recenti – i rapimenti di turisti americani e coreani, e il sequestro del resort Aqua Sun da parte di beduini armati – non puntavano a distruggere, ma a lanciare una sfida aperta e imbarazzante per l’autorità dello Stato. Rivendicazioni e richieste sono state rapidamente manifestate da un lato e soddisfatte dall’altro; gli attacchi sono stati compiuti come rappresaglia per la detenzione di membri tribali con l’obiettivo di ottenere uno “scambio di ostaggi” oltre che di protestare contro l’esclusione dei beduini dalla terra che essi rivendicano come parte del loro territorio. In linea con i valori tribali, questi attacchi non erano intesi a provocare danni fisici (i tradizionali concetti beduini di onore e ospitalità richiedono un giusto trattamento degli stranieri). L’esito distintamente pacifico e privo di spargimento di sangue (gli ostaggi sono stati subito liberati, incolumi) dissipa facilmente le molteplici accuse dei media che questa fosse l’opera di insorti affiliati ad al-Qaeda, le cui attività quasi sempre finiscono nel sangue.
Questo ci porta a riconsiderare gli attentati di Taba, Dahab e Sharm el-Sheikh alla luce dei disordini attuali. Compiuti, a quanto si dice, da beduini del Sinai del Nord in collaborazione con militanti islamici che operano nella penisola, questi attentati erano conformi alla violenza islamista in Egitto – in particolare il “Massacro di Luxor” del 1997 (in cui furono uccisi 65 turisti) e l’attentato al mercato turistico di Khan el-Khalili al Cairo nel 2009. Entrambi questi attentati presero di mira simboli della cooperazione con l’Occidente (località celebri e un mercato turistico) e furono progettati per massimizzare le vittime civili. Rispetto alle recenti manifestazioni di resistenza, le differenze nei metodi e nei danni provocati sembrano cospicue ed evidenziano la distinzione tra forme di resistenza tribale e violenza islamista. I rapimenti e i sequestri di stabilimenti turistici nel Sinai danno sfogo a rivendicazioni economiche; inoltre, questo tipo di attacchi, sia nel nord che nel sud, sono una ritorsione contro le politiche statali di emarginazione, attraverso la quale i gruppi tribali ricorrono a negoziati basati sullo “scambio di ostaggi” e tentano di far leva sull’immagine pubblica dello Stato all’estero per liberare i propri compagni beduini.
Tuttavia, la distinzione tra resistenza tribale e terrorismo islamista si sta riducendo nel nord. Ad aggravare questo problema vi è l’incapacità dello Stato di distinguere tra le due cose, che a sua volta ha portato a punizioni collettive che trattano tutte le violenze – siano esse atti di terrorismo, incursioni tribali, o semplicemente episodi criminali isolati – allo stesso modo, imponendo le stesse pene. Ciò aumenta il risentimento tribale e spinge la violenza di reazione verso forme più sanguinose rispetto alla tradizionale rivolta tribale. Inoltre, a seguito della primavera araba, il progresso verso una maggiore inclusione (per quanto tenue) realizzato nell’Egitto centrale è stato assente nel Sinai. Le accuse di diffusi brogli elettorali, e il fatto che i voti beduini siano stati scartati portando alla sconfitta dei candidati tribali nelle recente elezioni – soprattutto quelli affiliati alle tribù dei Qarasha e dei Mezeina nel capoluogo meridionale di el-Tor – hanno rafforzato la sensazione di esclusione dei beduini. Le tensioni sono culminate nel mese di gennaio con l’incendio di una sede elettorale, e scontri aperti sono scoppiati fra le tribù meridionali e le forze di sicurezza – un evento raro nel sud. 
Gli eventi più recenti suggeriscono che il governo sia forse disposto ad rispondere più direttamente a queste rivendicazioni. Nel corso degli ultimi mesi, il governo militare ha amnistiato un certo numero di tribù del nord colpevoli di vari reati, in un apparente tentativo di placare la rabbia beduina. Se ciò sia stato fatto per contenere il conflitto è difficile da dire, così come è difficile prevedere se tali azioni siano effettivamente in grado di prevenire attacchi futuri. In ogni caso, è incoraggiante che l’esercito sia disposto a prendere in considerazione un approccio diverso, dopo anni di inefficace azione militare. Ma in assenza di un miglioramento delle condizioni economiche, il risentimento dei beduini contro lo Stato rimane. L’Egitto ha attualmente di fronte a sé un’opportunità importante per reintegrare gruppi precedentemente emarginati nella vita nazionale; rimane da vedere se lo Stato affronterà questa sfida in modo efficace o continuerà a ricorrere inutilmente alla mano pesante.
Joshua Goodman è un dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Yale University; si interessa di conflitto sociale e civile in Medio Oriente; ha conseguito un master in Storia all’Università di Tel Aviv, dove ha studiato i rapporti fra le tribù e lo Stato, e le identità tribali nel Sinai meridionale
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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