Daniel LevyCome l’unità fra Hamas e Fatah potrebbe risolvere la situazione di stallo in Medio Oriente


Per quasi 20 anni, le politiche di Fatah (la fazione dominante all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sono risultate scontate fino alla noia. Questa settimana al Cairo, accettando un accordo che prevede l’unità e la condivisione del potere con Hamas, Fatah ha stupito tutti. È vero che la riconciliazione nazionale palestinese è già stata tentata, fugacemente e senza entusiasmo, a seguito di un’intesa mediata dai sauditi nella primavera del 2007, e che potrebbe di nuovo fallire. Ma questa volta la mossa di Fatah sembra essere una rottura più calcolata e profonda con la prassi del passato, e la prevedibile condanna degli USA sembra pesare meno.      
Dalla decisione presa a Algeri nel 1998 che vide il Consiglio Nazionale Palestinese adottare la soluzione dei due Stati sulla base dei confini del 1967, passando per la Dichiarazione dei principi di Oslo del 1993 che riconosceva il diritto all’esistenza di Israele, fino alla ripresa dei negoziati israelo-palestinesi del settembre scorso a Washington DC, l’approccio dell’OLP si può ridurre a una semplice equazione: che una combinazione di atteggiamento conciliante palestinese, ragionato interesse personale da parte israeliana, e influenza americana, avrebbe prevalso sugli squilibri di forza fra Israele e Palestina e portato all’indipendenza palestinese e alla fine dell’occupazione.Promuovere questa formula era una sfida sul piano dell’immagine per un Yasser Arafat segnato dalle campagne militari, ma questi fu sostituito, oltre sei anni fa, da quel Mahmoud Abbas indiscutibilmente considerato favorevole alla pace. E ancora i palestinesi hanno continuato a ripiegare su questa formula, nonostante il fallimento. Fatah ha portato avanti negoziati senza condizioni, un coordinamento di sicurezza con le forze di difesa israeliane, un processo di sviluppo delle istituzioni statali sotto l’occupazione, con un’inspiegabile fiducia nell’azione di mediazione americana, anche se gli insediamenti si diffondevano nei territori occupati, le elezioni sono state perse a favore di Hamas, e le accuse di collaborazionismo si inasprivano.          

L’ultimo risultato della partita che si gioca in Palestina, il fayyadismo (che prende il nome dal primo ministro Salam Fayyad e si basa sull’idea che una buona capacità di governo palestinese indurrebbe Israele al ritiro, o almeno le pressioni della comunità internazionale la costringerebbero a farlo), è destinato a una fine ignominiosa entro questo settembre. Il programma di due anni finalizzato alla costituzione di uno stato avrà avuto successo, ma comunque non potrà far nulla contro l’inamovibile occupazione israeliana.         
Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. L’equazione di un’OLP conciliante non funziona.
L’elemento principale di questa strategia era il dominio esclusivo della mediazione statunitense sul processo di pace. Nei mesi scorsi, i palestinesi si sono lentamente tirati fuori dalle strettoie americane. Abbas si è rifiutato di continuare i negoziati di settembre con Israele quando gli Stati Uniti non sono riusciti ad ottenere un’estensione della seppur parziale e limitata moratoria sugli insediamenti implementata da Netanyahu. L’OLP ha costretto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad un voto sugli insediamenti, nonostante le pressioni americane, lasciando gli USA da soli con il loro veto e un voto finale di 14 a 1. Le preparazioni per un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite dello Stato palestinese procedono rapidamente (ancora, in contrapposizione alla politica americana). In ultimo, e cosa più significativa, Fatah ha raggiunto questo accordo con HamasLa divisione dei palestinesi, nei ruoli dei cosiddetti ‘moderati’ contrapposti agli ‘estremisti’, è stata un fondamento della politica USA (e di Israele). Se l’accordo di unità palestinese tiene ( e la cautela è d’obbligo essendo i dettagli dell’accordo ancora da concordare, e data la passata storia di false partenze), non lo sarà più. Non sarebbe accurato attribuire questo sviluppo  ad un cambiamento radicale  nella politica dell’amministrazione Obama. Piuttosto, questo passaggio si comprende meglio rispetto ad una situazione di attrito, congiuntamente alle nuove realtà regionali nascenti dalla Primavera Araba. L’attrito ha un contesto ovvio:  nel corso degli anni, c’è stata un’inarrestabile crescita degli insediamenti israeliani e un persistente controllo sui territori. Quando gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993, c’erano 111.000 coloni solo nella Cisgiordania; oggi quel numero supera i 300.000, e il 60% della Cisgiordania e tutta Gerusalemme Est rimangono sotto l’esclusivo controllo israeliano. E c’è stata l’impunità puntualmente garantita ad Israele dagli USA.Ciò che è cambiato è che, in una regione che sta attraversando un processo di democratizzazione, l’Egitto non riveste più il ruolo di garante dello status quo e sta riscoprendo la capacità di assumere una politica regionale che sia indipendente, costruttiva e recettiva nei confronti della propria ,opinione pubblica. La svolta nella posizione dell’Egitto era fondamentale per arrivare ad un progresso nella riconciliazione palestinese. L’accordo Fatah-Hamas incontrerà inevitabilmente una rocciosa opposizione da parte degli USA. Il Congresso potrebbe decidere di interrompere il finanziamento all’Autorità Palestinese, potrebbe essere ritirata l’assistenza sulla sicurezza, e gli slogan politici di Israele (“hanno scelto la pace con i terroristi invece della pace con Israele”) saranno ben recepiti negli ambienti del Campidoglio. Ma, se dovesse tenere, questo accordo di riconciliazione sarà davvero uno sviluppo negativo per i palestinesi, gli USA o anche per Israele?Per i palestinesi stessi, l’unità interna sembra un prerequisito per la nascita di una nuova struttura e strategia nazionale, nonché per far rivivere un’OLP dotata di legittimazione, potere e rappresentatività. L’unità crea un’interlocuzione palestinese, la possibilità di una posizione più forte nei negoziati, e dà un accesso diretto ad Hamas per impegnarsi nel processo politico, qualora dovesse scegliere di farlo. Sarà decisiva per qualsiasi strategia l’osservanza da parte palestinese del diritto internazionale  e, in tale contesto, della non-violenza.
I palestinesi farebbero bene ad evitare una rottura preventiva con gli USA, ma una riduzione della dipendenza dagli Stati Uniti, inclusa la possibile interruzione degli aiuti americani, sarebbe assai lontana dall’essere un disastro e potrebbe agevolare un approccio più produttivo e intraprendente da parte palestinese per ottenere la propria libertà. L’unità, o addirittura un voto dell’ONU per il riconoscimento, non costituiranno di per sé una strategia pienamente efficace o la fine dell’occupazione. Rimangono sfide enormi: amministrare il coordinamento sulla sicurezza (interna ed esterna), governare un’autorità autonoma limitata che, per poter funzionare, dipende dalla buona volontà di Israele e, non ultimo, alleviare la miseria conseguente all’isolamento di Gaza.L’unità, tuttavia, può essere un primo passo verso lo sviluppo di una strategia palestinese convincente sul piano locale e globale, soprattutto data la nuova prospettiva di un significativo appoggio egiziano.Per gli USA, la questione israelo-palestinese è un interesse cruciale per la sicurezza nazionale in una regione critica del mondo.  Insieme a questo, le peculiarità della politica interna americana in merito a qualunque cosa sia legata ad Israele portano gli USA ad ingabbiarsi e limitare la propria capacità di manovra in questo campo. Troppo spesso il risultato è l’impotenza diplomatica degli americani.  
Potrebbero esserci dei vantaggi per gli USA nel vedersi togliere in qualche modo il carico di questo problema, sia che ciò avvenga attraverso un aumento dell’indipendenza palestinese sul piano strategico, attraverso il rafforzamento della diplomazia egiziana, o un maggiore coinvolgimento dell’Europa o delle Nazioni Unite. Tali sviluppi potrebbero migliorare le prospettive di una soluzione, creare aperture per un impegno statunitense più efficace verso Israele, o almeno mitigare il crescente impatto debilitante che questa questione ha sulle posizioni USA in Medio Oriente.Infine, Israele. E’ improbabile che Israele dia il benvenuto ad una controparte palestinese più indipendente, dotata di capacità strategiche o di maggior potere. Finora, Israele è non meno, ma più insicura ed incerta sul suo futuro. Sotto molti aspetti, l’aggravamento dello squilibrio nell’attuale processo di pace e l’esitazione palestinese sotto il profilo delle strategie dà ad Israele la falsa sensazione  di un’impunità permanente e ne ha incoraggiato le tendenze più auto-distruttive (non ultime, quelle verso la costruzione di insediamenti e il nazionalismo intollerante).C’è ragione di pensare che una correzione nell’atteggiamento da parte dei leader israeliani verso un maggiore realismo, pragmatismo e capacità di compromesso possa emergere in risposta ad un avversario palestinese più difficile, tattico e – si spera – nonviolento


Daniel Levy è senior fellow presso la New America Foundation e la Century Foundation, dove si occupa delle politiche di pace in Medio Oriente; in precedenza è stato consigliere dell’ufficio del primo ministro israeliano Barak; è stato anche tra i propositori dell’Iniziativa di GinevraCome l’unità fra Hamas e Fatah potrebbe risolvere la situazione di stallo in Medio Oriente

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