Misnà : Gaza e Cisgiordania a rischio di catastrofe ambientale
“Il 90% dell’acqua corrente di Gaza non è potabile, né dovrebbe essere utilizzata per uso personale a causa dell’inquinamento provocato dai recenti bombardamenti israeliani”: a denunciarlo è un rapporto dell’Autorità idrica palestinese (Pwa), secondo cui l'offensiva ‘Piombo Fuso’ tra il Dicembre e il Gennaio scorsi ha aggravato una situazione già precaria, conseguenza dell'embargo di quasi tre anni imposto dal governo di Tel Aviv. “Quello di cui pochi si rendono contro è che il conflitto in Medio Oriente è anche e soprattutto un conflitto per le risorse: acqua e terra sono l’obiettivo del contendere, ma anche le vittime invisibili della guerra” dice Monther Shoblak, direttore del Pwa, secondo cui “durante le operazioni su Gaza, i bombardamenti hanno inquinato, con detriti e agenti chimici, numerose fonti d’acqua, rendendole inutilizzabili”. Inoltre, l’assenza di strumenti adatti non consente di analizzare il livello di inquinamento dell’acqua, per determinarne i contenuti e la potabilità. Ma non è solo l’acqua corrente a risentire del conflitto e dell’embargo imposto sulla Striscia: da mesi i pescatori palestinesi, a cui la Marina israeliana non consente di allontanarsi oltre un miglio dalla costa, sono costretti a gettare le reti a poche decine di metri dalla riva, dove maggiore è l’inquinamento causato da tonnellate di rifiuti e detriti dei palazzi colpiti durante le incursioni aeree. Secondo l’organizzazione umanitaria Oxfam, la Striscia di Gaza è “sull’orlo del disastro ambientale” e comunque per rimediare ai danni causati dall’embargo in una delle aree più densamente popolate al mondo (un milione e mezzo di abitanti per una superficie di circa 360 chilometri quadrati) ci vorranno tempi molto lunghi. A pochi chilometri di distanza, in Cisgiordania, a quella che le organizzazioni umanitarie hanno definito la “strategia della sete” da parte di Israele si aggiungono le violazioni commesse sulla terra, coltivata o meno, di migliaia di agricoltori palestinesi. Tralasciando la questione della costruzione di un muro cosiddetto “della vergogna”, cha va ben oltre la “linea verde” tracciata dalle Nazioni Unite, Tel Aviv è accusata di utilizzare la Cisgiordania come “pattumiera” dello stato di Israele. “Ai danni causati dall’abbattimento dei nostri ulivi e dalla recinzione dei campi, per impedirne la coltivazione, si aggiungono quelli derivanti dallo scarico di tonnellate di rifiuti non processati” dice Ayman abu Taher responsabile del dipartimento dell’Anp per l’Ambiente, precisando che molte aziende israeliane preferiscono questa soluzione all’alternativa di portare i rifiuti nella discarica autorizzata di Ramot Havav. Il caso non sembra isolato e diverse aziende israeliane si sarebbero trasferite in Cisgiordania per sfuggire alle strette normative nazionali che governano lo smaltimento degli scarichi. “La situazione non si risolverà fino a quando non si troverà una soluzione al conflitto che stabilisca competenze e controlli sul territorio” avvisano gli esperti di “Friends of the Earth Middle East” (Foeme), un’organizzazione ecologista che riunisce israeliani, palestinesi e giordani; fino ad allora, aggiungono gli ambientalisti, “il conflitto in Medio Oriente continuerà a causare danni nel presente, ma anche a minacciare le risorse delle generazioni future”. (A cura di Alessia de Luca)[AdL]
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