IL PRIMA E IL DOPO GAZA NELLE CONSTITUENCY DI HAMAS 6/10/09 Saggio sul movimento radicale palestinese, sull'ultimo numero della rivista francese di


C’è un prima di Gaza. E c’è un dopo Gaza. Non solo nel profilo di Gaza City, di Rafah, del quartiere di Al Zeitoun o nella cittadina di Beit Lahya, dei palazzi distrutti, della strade dissestate, della trama architettonica devastata. Non solo nel censimento degli abitanti della Striscia di Gaza, prima e dopo i bombardamenti. Ma anche nella politica di Hamas, che ha sicuramente perso uno dei leader di Gaza, Said Siyyam, ucciso in un omicidio mirato israeliano, e ha costretto dirigenti come Mahmou A-Zahhar a non mostrarsi più in pubblico, e a non partecipare ai negoziati con gli egiziani per la tregua con Israele e la riconciliazione con Fatah. C’è un prima dell’Operazione Piombo Fuso, in cui a Gaza si stava cristallizzando il potere di fatto che il movimento islamista aveva conseguito sul campo nel giugno del 2007. E c’è un dopo in cui, per la prima volta dopo oltre un anno e mezzo di gestione del potere, l’ala cosiddetta moderata è tornata a farsi vedere. I segnali sono chiari, evidenti già nella scelta dei negoziatori che hanno fatto la spola, per settimane, tra la Striscia e il Cairo per trattare su due tavoli contemporanei: la tregua con Israele e la riconciliazione con Fatah. L’esponente più di rilievo del gruppo negoziale ha un nome poco conosciuto al pubblico, ma che nella nomenklatura di Hamas significa qualcosa di ben preciso. Salah al Bardawil non è stato, infatti, uno dei dirigenti più in vista a Gaza dopo le elezioni che il 25 gennaio 2006 decretarono il successo di Hamas e, di conseguenza, il suo ingresso nelle stanze del potere dell’ANP. Salah al Bardawil ha una storia che nasce da prima, dalla metà degli anni Novanta, quando lui e pochi altri esponenti islamisti si trovarono dentro un esperimento politico che sarebbe durato solo pochi anni, sino al 2000 e allo scoppio della Seconda Intifada, ma che avrebbe poi inciso sulla svolta partecipativa di Hamas nel 2005. L’esperimento si chiamava Al Khalas, lo Hizb al khalas al watani al islami, ed era stato fondato nel 1996, nonostante la discussione andasse avanti almeno da due anni, subito dopo l’arrivo di Yasser Arafat e dell’ANP nella Striscia di Gaza. Doveva essere l’ala politica di Hamas. “È vero, si discuteva sulla necessità o meno di creare un partito politico perché avevamo di fronte un nuovo sistema. E un partito sarebbe stato un buono strumento per i contatti con l’Anp. In questo modo, Hamas sarebbe rimasto il movimento di resistenza, senza essere coinvolto nella vita politica.” A spiegare le ragioni della nascita di Al Khalas è Ghazi Hamad, un altro dei moderati che dopo l’Operazione Piombo Fuso sono riapparsi in pubblico, e con qualche peso. Ghazi Hamad, classe 1964, nato in un campo profughi di Rafah, nel Sud di Gaza, un laurea in veterinaria in Sudan, continua a essere uno dei pragmatici, uno dei più moderati di Hamas, in cui è entrato sin dall’inizio, classico esempio di quei ragazzi entrati nei Fratelli musulmani agli inizi degli anni ottanta. “Del partito,” dice Hamad, “si cominciò a parlare nel 1994, dentro Hamas, poi se ne discusse con l’Anp e la decisione finale venne presa l’anno dopo, nel 1995, quando anche Yasser Arafat diede il suo assenso”. Il 1995, però, era un periodo difficile, teso: Hamas aveva cominciato già dal 1994 la stagione degli attentati suicidi. Il partito, alla fine, nasce, è il 1996, dopo le prime elezioni politiche che Hamas decide di boicottare. Avrebbe avuto vita breve, Al Khalas, un esperimento durato in sostanza meno di quattro anni, sino al 2000, che però Ghazi Hamad continua a ritenere “un’esperienza brillante”, dalla cui fine “Hamas ha perso molto”. Al Khalas aveva instaurato buoni rapporti con l’Anp, era anche entrato nel Comitato centrale dell’Olp, e Arafat gli aveva dato la sua benedizione, nonostante sapesse bene che il partito era nato per volere di Hamas, ed era sostenuto da esso anche finanziariamente. Nella lista dei principali esponenti c’erano i pragmatici di Hamas. Ghazi Hamad, che ne fu il portavoce, snocciola i nomi di Yehya Moussa, Salah el Bardawil, Ismail el Ashkar, Ahmed Bahar, tutti nomi che nel 2006 sarebbero entrati come deputati nella seconda legislatura del Parlamento palestinese. “La maggior parte degli esponenti erano uomini aperti, che avevano una visione politica nuova. Hamas, però, era ancora troppo sensibile su alcuni argomenti, tanto che il rapporto tra Hamas e Al Khalas non andò oltre quello tipico tra padre e figlio. Il messaggio era: siete sotto la mia supervisione, sotto i miei occhi, e non potete fare nulla senza coordinarvi con me. Ecco, non siamo riusciti a mettere una maggiore distanza tra noi, Al Khalas, e Hamas. Non siamo riusciti a rompere il cordone ombelicale. In quella situazione politica non era facile per noi prendere decisioni lontano da Hamas, che era comunque il nostro referente, nonché il nostro finanziatore.” Resistenza e politica, insomma, nel 1996 non riescono a separarsi. “A quel tempo,” conclude Hamad, “Hamas non era politicamente matura per dare al partito libertà di movimento. Hamas dominava il partito, e il controllo era troppo forte.” “Neanche per partecipare alle elezioni del 1996. Io, allora, dicevo invece che avremmo dovuto concorrere. Ma per arrivare a prendere quel tipo di decisione ci sono voluti altri dieci anni.” Perché ricordare una storia sepolta dagli anni e dai tristi eventi del conflitto israelo-palestinese? Perché contiene molti degli uomini e molte delle parole che nei giorni successivi alla conclusione dell’Operazione Piombo Fuso, lanciata dalle forze israeliane su Gaza, sono ritornati centrali, soprattutto nella discussione tra Hamas e Fatah per la riconciliazione nazionale. I nomi, appunto, sono quelli di Salah el Bardawil e di Ghazi Hamad, assieme ad altri che non facevano parte di Al Khalas, come il premier del governo de facto Ismail Haniyeh e il suo più stretto consigliere, almeno sino all’esecutivo di unità nazionale della primavera 2007, Ahmed Youssef. Le parole che sono ritornate centrali, invece, sono quelle del rapporto tra resistenza e politica, che in Hamas non si è mai risolto né tanto meno sciolto del tutto. E sono, soprattutto nella discussione della fine di gennaio 2009, le parole che riguardano l’OLP. Al Khalas, come si è visto, aveva avuto l’imprimatur di Arafat, nonostante fosse una filiazione di Hamas. Gli uomini che hanno vissuto l’esperienza di Al Khalas hanno, nei riguardi dell’OLP così come nei riguardi della partecipazione e della mediazione politica, delle idee diverse dall’ala più radicale di Hamas. Lo ha fatto comprendere, a chiare lettere, proprio Ghazi Hamad, nel pieno della polemica di fine gennaio tra il leader del bureau politico di Hamas, Khaled Meshaal, e il presidente dell’ANP (e dell’OLP), Mahmoud Abbas. Sugli schermi di Al Jazeera, aveva detto che, “personalmente, non era d’accordo con la linea di approfondire ancor di più i disaccordi dentro la politica palestinese. Dobbiamo riprendere il dialogo di cui beneficeranno, in modo strategicamente rilevante, sia Hamas sia Fatah, così come il progetto nazionale palestinese”. “Il problema – aveva concluso Ghazi Hamad – non è l’OLP, ma ci sono semmai problemi nei servizi di sicurezza palestinesi, nel sistema politico, in molti aspetti della vita dei palestinesi”. Ghazi Hamad stava rispondendo direttamente a Khaled Meshaal, che il giorno prima aveva lanciato il suo ballon d’essai, minacciando la nascita di un’altra piattaforma nazionale in cui raccogliere quelle formazioni politiche che non sono rappresentate nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. La minaccia, insomma, era quella di creare una OLP parallela, visto che da quattro anni non si era riusciti a risolvere la questione fondamentale, quella della riforma dell’OLP e del conseguente ingresso, nell’organizzazione, di Hamas e della Jihad Islamica. La minaccia di Meshaal è apparsa subito e solo come un ballon d’essai, perché nella storia di Hamas le OLP parallele non hanno mai funzionato. Il tentativo reale, da parte del movimento islamista, è invece stato sin dall’inizio di entrare nell’OLP, ma non alle condizioni proposte, per esempio all’inizio degli anni Novanta, da Yasser Arafat. Né tanto meno, negli anni più recenti, a quelle di Mahmoud Abbas. Hamas aveva già chiesto a Yasser Arafat una riforma parziale dell’OLP, a cavallo tra il 1992 e il 1993, quando gli aveva proposto un’intesa per la quale il movimento islamista avrebbe avuto una rappresentanza del 40 per cento all’interno del Pnc, assieme all’ingresso di Hamas dentro una Olp profondamente riformata. Nonostante le mosse di avvicinamento di Hamas, i cui dirigenti erano andati nell’esilio di Tunisi di Arafat per discutere di un possibile disgelo, e poi avevano partecipato a una riunione a Khartoum mediata dal leader islamista sudanese Hassan al Turabi , Abu Ammar aveva rifiutato l’offerta, perché non voleva mettere su un sostanziale piede di parità Fatah e Hamas all’interno degli organismi rappresentativi dei palestinesi. La questione dell’ingresso nell’OLP era ed è una questione di legittimazione di Hamas, che va oltre il territorio amministrato dall’Autorità Nazionale Palestinese, e incide proprio sull’immagine e sul peso di Hamas nel mondo dei profughi, da cui in massima parte proviene. E’ tanto stringente, come nodo, che lo stesso Khaled Meshaal lo pose come conditio sine qua non nella partecipazione al governo di unità nazionale, prima dell’accordo della Mecca del febbraio 2007, quando invece le sue posizioni si ammorbidirono . E’ tanto stringente, la questione della partecipazione all’OLP, che prima era stato uno dei cardini dell’accordo - voluto, mediato e concluso proprio da Abbas - del marzo del 2005 tra tutte le fazioni palestinesi: l’accordo, per intenderci, che aveva dato il via alla partecipazione di Hamas alle elezioni politiche. E, appunto, al suo ingresso in una OLP riformata. La Dichiarazione del Cairo del 17 marzo 2005, che decideva di continuare per tutto il 2005 “l’atmosfera di calma” nei confronti di Israele, affermava esplicitamente anche che le fazioni riunite avevano “concordato di sviluppare l’Organizzazione per la liberazione della Palestina per includere tutti i poteri e le fazioni palestinesi”, e per far questo si era deciso di “formare un comitato per definire le basi” sulle quali discutere. L’accordo del 2005 era stato raggiunto perché, a differenza dell’inizio degli anni Novanta, Fatah era già debole dal punto di vista del consenso della base, e Hamas dimostrava ogni giorno di più di voler cambiare strategia nei confronti delle istituzioni rappresentative a disposizione dei palestinesi. La strategia vincente dal 2004 sino al 2007, all’interno della leadership islamista dentro e fuori la Cisgiordania e Gaza, era quella partecipativa. Hamas aveva deciso di non boicottare più l’Anp e, anzi, di entrare nelle stanze di potere dell’Autorità nazionale. E di questa strategia faceva parte anche, e necessariamente, l’ingresso nell’OLP. Il punctum dolens è proprio la riforma dell’OLP, che non è mai stata affrontata, perché vorrebbe dire minare le basi del potere di Fatah, di singoli individui e degli altri partiti presenti nell’organizzazione, e comunque di un potere politico palestinese che si regge in questo modo da decenni. In più, nelle contingenze attuali, una riforma dell’OLP metterebbe in discussione la stessa posizione di Abu Mazen, fragile dopo la fine del mandato da presidente dell’ANP, scaduto il 9 gennaio scorso. Abu Mazen, però, mantiene la carica di presidente dell’OLP, e l’OLP è il legittimo rappresentante di tutto il popolo palestinese. Riformare l’OLP, dunque, vorrebbe dire andare al cuore della questione della rappresentatività delle diverse forze politiche palestinesi. E affrontare realmente la transizione post-Arafat. Ghazi Hamad, però, si fa portatore di una linea gradualista che sino ad ora non era uscita in tutta la sua pienezza. Prima viene l’ANP, poi viene l’OLP. Prima vengono i Territori Palestinesi occupati (come la Cisgiordania) o circondati (come Gaza), poi viene il popolo palestinese nella sua interezza, fuori e dentro i confini dell’ANP. Ancora una volta, ma in termini decisamente diversi da quelli posti da Arafat nel 1994, ritorna una frase: Gaza First. Ma cosa significa, questo, per gli equilibri interni di Hamas, così come per alcuni dei fondamenti sui quali il movimento islamista è nato ed è cresciuto negli scorsi due decenni? Intanto, gli equilibri interni. Dal 1987, dall’anno della formalizzazione della sua nascita (il progetto di Hamas nasce, però, nel 1983, e prende vigore proprio dalla debolezza dell’OLP dopo la cacciata da Beirut a opera di Tsahal), Hamas ha lasciato raramente trapelare le discussioni interne, men che mai dissensi e divisioni. Eppure, il movimento islamista è tutto fuorché un monolite. È, semmai, una macchina che si muove compatta, ma soltanto dopo che una decisione politica è stata presa. È un movimento che si è strutturato in maniera molto simile ai partiti di massa occidentali, soprattutto a quelli d’impronta comunista: un organismo politico che fonda la sua compattezza su di un particolare centralismo democratico, secondo il quale la strategia viene discussa dentro le quattro circoscrizioni in cui Hamas è divisa. Sono constituencies che, di per sé, danno il senso della composizione sociopolitica di Hamas: Gaza, Cisgiordania, estero e la constituency delle prigioni, formata dalle migliaia di militanti islamisti detenuti nelle carceri israeliane. Attraverso un processo interno di discussione, votazione, e approvazione o rifiuto a maggioranza, Hamas prende decisioni strategiche rilevanti. Com’è successo per la partecipazione alle elezioni legislative del 25 gennaio 2006. Dopo di che, i militanti sono tenuti a rispettare la decisione della maggioranza, e a conformarsi a essa. Il dissenso è tutto all’interno, è tutto nascosto. Se, però, arriva alla superficie – com’è successo con le opinioni diverse espresse da Meshaal e Hamad – vuol dire che qualcosa di importante sta succedendo, seppur coperto da quella coltre che ancora rende Hamas un mistero. Il primo dato rilevante è che la leadership interna a Gaza ha assunto, negli ultimi due anni, un ruolo più importante, che nasce dalla stessa storia della Striscia dopo il colpo di mano del giugno del 2007, quando Hamas ha preso il controllo totale di Gaza. La gestione di un territorio, seppur isolato e strangolato, ha costretto la Hamas di Gaza a immettersi su di un percorso proprio, interno, con tutte le contraddizioni del caso. Un percorso segnato, a sua volta, anche dalla divisione tra l’ala politica, sempre più debole con l’andare del tempo, e la sua ala più legata ai settori militari, sempre più forte, rappresentata in primis da Said Siyyam e dalla sua Forza esecutiva, costituita nella primavera del 2006, sull’onda del confronto sempre più teso tra i corpi di sicurezza palestinesi, quelli legati alla presidenza e quelli –come la Forza esecutiva, appunto – dipendenti da Hamas. In una sorta di percorso a ritroso, Hamas a Gaza ha dunque riacquistato, dopo il coup del giugno 2007, una sorta di autonomia che ricorda quella precedente al 1989. Nei primi due anni di vita di Hamas, infatti, la dirigenza di Gaza aveva avuto una preminenza dovuta sia alla presenza di sheykh Ahmed Yassin, sia a quella della generazione più giovane dei dirigenti, quella nata e cresciuta nei campi profughi della Striscia. Poi, nel 1989, la prima imponente retata da parte degli israeliani, dopo che Hamas era stata inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche. Israele, nella sostanza, aveva decapitato Hamas, arrestando non solo Ahmed Yassin, ma anche Ismail Abu Shanab, probabilmente senza sapere che in quel momento era proprio Abu Shanab il numero uno del movimento . Due anni dopo, Yassin sarebbe stato condannato all’ergastolo. Hamas è costretta dunque, di colpo, a ricostruire la rete, a cui manca l’uomo che più aveva spinto per far nascere Hamas sull’onda della Prima Intifada, ed è in questo momento che entra in scena, con forza, la leadership all’estero, la dirigenza nata e cresciuta nella diaspora. Piegato dagli arresti, che hanno posto in seria difficoltà l’organizzazione, il movimento islamista rinasce perché arriva a Gaza, con il preciso compito di rimettere in piedi la struttura, un uomo che avrebbe segnato la storia di Hamas per i vent’anni successivi, Mussa Abu Marzuq. Nato in un campo profughi di Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, nel 1951, una laurea in ingegneria in Egitto, una green card americana e un dottorato negli Stati Uniti, Abu Marzuq da quel momento assume il ruolo di numero uno dell’ufficio politico, il braccio esecutivo designato dal majlis as-shura, il consiglio consultivo, composto a seconda dei periodi da venti a cinquanta membri, chiamati a rappresentare tutte le parti del movimento, fuori e dentro i Territori palestinesi occupati. E a Gaza, che ben conosce anche per essere stato uno dei fondatori dell’Università islamica, Abu Marzuq riesce a ricostruire la rete in maniera tale che non possa essere distrutta da una nuova ondata di arresti: è praticamente impossibile comprendere come Abu Marzuq sia riuscito non solo a rimettere in piedi la struttura, ma anche a realizzare un’organizzazione che, nel corso dei vent’anni successivi, sia riuscita a rimanere tutto sommato indenne nonostante le retate di arresti, la stagionedegli omicidi mirati dei dirigenti nei raid israeliani, la chiusura di associazioni considerate fiancheggiatrici di Hamas. Una delle spiegazioni offerte è che la rete costituita a Gaza sia diventata più dipendente dall’apparato all’estero, che ha dunque potuto gestire le fasi in cui Hamas era più debole dopo le ondate di arresti da parte di Israele. L’altra ipotesi è che vi sia stato un costante ricambio di militanti, che vuol dire un rapporto molto stretto con la popolazione, con le comunità locali, che sono state il bacino di sostegno di Hamas. La riorganizzazione di Hamas da parte di Abu Marzuq diventa una vera e propria cesura nella storia del movimento islamista, perché è da allora che inizia il bilanciamento tra i leader dell’interno, di Cisgiordania e soprattutto di Gaza, e il vertice della diaspora. Gli anni della partecipazione al potere nella struttura dell’ANP, dopo il 2005, hanno però segnato un nuovo bilanciamento tra le diverse constituency, con una sostanziale compresenza, al limite della diarchia, tra il governo guidato da Ismail Haniyeh e la leadership di Gaza, da una parte, e la dirigenza del bureau politico a Damasco, dall’altra. Il periodo dell’isolamento totale di Gaza, effettivo dal giugno del 2007, e l’ultima guerra dei 22 giorni a cavallo del 2008 e del 2009, hanno reso ancor più evidente che entrambi i corni della dirigenza si stanno bilanciando a tal punto, da rischiare un confronto serio. Un confronto che si era già evitato per un soffio alla fine del 2006, quando la mediazione di Mustafa Barghouthi sul governo di unità nazionale era saltata perché le due ali di Hamas a Gaza, quella moderata e quella radicale, si erano unite contro i settori pragmatici di Hamas a Damasco, facendo fallire l’accordo già sottoscritto da Meshaal e Mahmoud Abbas. Hamas a Gaza, d’altro canto, può contare su di un consenso popolare che nasce da una storia tutta dentro i campi profughi della Striscia. Una storia che segna anche una frattura, rispetto alla presenza tradizionale dei Fratelli musulmani nei settori mercantili e del notabilato di Gaza, perché lo scompaginamento socioeconomico, culturale, territoriale determinato dalla Nakba, dalla perdita dell’entroterra nella regione di Gaza e dall’arrivo di duecentomila profughi nel 1948 ha dato la stura a un altro capitolo dell’islam politico palestinese. Hamas, dunque, si struttura dentro il mondo dei rifugiati, seguendo una cooptazione che non è quella clanica né quella clientelare, ma che nasce – semmai – soprattutto da un avvicinamento su base identitaria, non solo religiosa, ma nazionale. Un percorso diverso da quello seguito da Hamas in Cisgiordania, dove il proselitismo nei campi profughi e nei settori più emarginati – pure importantissimo – si lega anche alla composizione sociale della West Bank, che non ha subito uno stravolgimento paragonabile a quello della Striscia. Tanto che, per esempio, la dimensione clanica non è stata intaccata più di tanto, rafforzandosi – anzi – quando la rioccupazione militare della Cisgiordania da parte degli israeliani, durante la seconda Intifada, ha di fatto cantonalizzato il territorio, come dimostra il caso eclatante di Hebron. Il capoluogo della Cisgiordania meridionale continua ancora, infatti, a essere un case study per la presenza dei clan, delle grandi famiglie che hanno un ruolo importante perché la situazione non sia ancora più tesa. La gestione securitaria della Cisgiordania da parte dell’ANP di Ramallah, di Mahmoud Abbas e del premier Salam Fayyad, sta però mettendo a dura prova anche la capacità dei clan di amministrare a loro modo la cosa pubblica, soprattutto dopo che la sulta, l’Autorità ha deciso di esportare anche a Hebron il modello di controllo dell’uso della forza sperimentato in primis a Nablus, con il dispiegamento per le strade dei corpi di sicurezza addestrati secondo il programma allestito dal generale statunitense Keith Dayton. L’ondata repressiva che con continuità colpisce i militanti di Hamas dal giugno del 2007 ha inciso fortemente non solo sulla struttura del movimento islamista, in cui comunque la componente cisgiordana rappresentava l’elemento più moderato, ma anche sugli equilibri clanici, a Hebron così come in altre aree del territorio a est della Linea Verde. Lo squilibrio è soprattutto causato dalla presenza di corpi di sicurezza addestrati in maniera tale da non essere più compatibili con la contemporanea presenza di un amministrazione del territorio da parte delle autorità dei clan, i mukhtar: uno squilibrio, dunque, che rompe quella che in termini sindacali si potrebbe chiamare la concertazione della sicurezza. Se questi sono i nuovi e ancora transitori equilibri interni sorti di Hamas dopo la svolta partecipativa decisa nel 2005, la questione fondamentale del rapporto tra resistenza e politica all’interno del movimento islamista palestinese non è stata ancora risolta. Anche se la nuova presenza di Hamas sul palcoscenico politico e diplomatico del Medio Oriente rafforza l’ipotesi che il movimento islamista non possa tornare indietro e abbandonare il tracciato degli ultimi cinque anni, che ha spostato il suo asse interno – comunque sia – verso la politica, nonostante gli scossoni interni al movimento nel 2007, conseguenti al colpo di mano di Gaza. E’ molto probabile, anzi ineluttabile, che le conseguenze a breve termine dell’operazione Piombo fuso saranno un iniziale rafforzamento della deriva più militante e più radicale, che – cioè – la resistenza, la Muqawwama che è dentro la stessa denominazione per esteso di Hamas (sigla di Harakat al Muqawwama al Islamiyya). E’, però, altrettanto possibile che le conseguenze a medio termine saranno di segno diverso, che cioè la politica torni a essere preminente sulla resistenza, com’era successo nella finestra di opportunità tra 2005 e 2007. I germi di questa prospettiva politica si sono, peraltro, già visti all’indomani delle tregue unilaterali che hanno posto fine all’operazione militare israeliana su Gaza. Hamas ha subito aderito al cessate-il-fuoco deciso da Israele alla vigilia dell’insediamento del nuovo presidente americano Barack Obama, perché la sola opzione militare non avrebbe fatto altro che indebolire il movimento islamista palestinese sul fronte del consenso interno, del consenso popolare. Questa è la ragione per la quale, pochissimi giorni dopo l’entrata in vigore della tregua, Hamas ha ripreso la gestione dei servizi sociali, e la distribuzione delle compensazioni a chi aveva avuto la casa distrutta o danneggiata. I movimenti radicali delle aree di crisi, quelli che hanno insito nella ragione della propria nascita il dualismo resistenza-politica, rivoluzione-politica, non possono non entrare – prima o poi – nella cornice negoziale, nell’alveo di una dialettica sostenibile con le istituzioni. E’ successo nella realtà irlandese, dove la completa politicizzazione del binomio Sinn Fein-IRA non è stato un percorso semplice, anche se il tempo ha reso – nel ricordo –più tenui e morbidi i colori di quella storia, invero molto dura e per nulla lineare né scevra da difficoltà che allora sembrarono insormontabili. È successo, dunque, nel cuore di un’Europa che, invece, era tutto sommato pacificata, ed è avvenuto in contesti decisamente più complessi, come il teatro africano. Dal percorso verso il potere seguito dall’ANC sudafricano, alla cooptazione della Renamo, la resistenza conservatrice mozambicana, condotta dentro la politica dai negoziati di pace condotti dalla Comunità di Sant’Egidio, quando le armi ancora parlavano e la questione del riconoscimento della Renamo era tabù per alcune cancellerie. La totale politicizzazione di un movimento che usa le armi e ricorre al terrorismo non segue mai una linea retta, né è privo di fasi nelle quali si torna indietro alla scelta armata. Il definitivo salto al di qua della barricata è responsabilità prima dei diretti protagonisti, ma non è mai ininfluente il contesto, in questo caso il conflitto. Né è ininfluente il peso di chi è già presente sulla scena, attorno ai principali contendenti. Dalle differenti anime del mondo arabo, e del Medio Oriente nella definizione più ampia. All’Unione Europea, ancora opaca nella sua abilità di attore della politica mediterranea. Sino agli Stati Uniti che si affacciano alla regione con un nuovo segno e una nuova immagine, quella obamiana. Questo saggio prende spunto dal libro di Paola Caridi, Hamas, pubblicato da Feltrinelli nello scorso marzo. La versione francese del saggio è sul numero n.22 di Outreterre, numero monografico dedicato a Gaza dalla rivista diretta da Michel Korinman. Leggi le altre analisi sul movimento radicale palestinese sul blog di Paola Caridi, invisiblearabs, alla voce "Hamas".


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