Sari Nusseibeh "prigioniero a Gerusalemme" intervistato da Paola Caridi


C'era una volta un caffè, tra le mura antiche di Gerusalemme. Si chiamava il caffè dell'Albero di limone. Ci andavano tutti, sino a un quarto di secolo fa. Palestinesi, israeliani, occidentali col sacco a pelo. Erano i primi anni Ottanta. L'aveva aperto un uomo che ai piedi indossava un paio di sandali. Di mestiere faceva il filosofo. E sulle sue spalle pesavano i 1.300 anni della storia dei suoi antenati a Gerusalemme. Appena finita la guerra del 1967, e conquistata dagli israeliani la parte araba della città, l'uomo coi sandali, che si chiama Sari Nusseibeh, che oggi ha 60 anni ed è appunto il discendente della più importante famiglia dell'intera Palestina, aveva deciso di non rinchiudersi nel suo mondo. Usciva di casa, a due passi dalla Porta di Damasco, e se ne andava a vedere cosa c'era dall'altra parte della città, quella abitata dagli ebrei. Il caffè dell'Albero di limone non è però durato molto. E Sari Nusseibeh i suoi sandali non li indossa più. Si sono rotti, dice, mentre fa passare tra le dita il suo piccolo rosario musulmano. L'estate è piena, il caldo secco ha bruciato la terra, le cicale rompono il silenzio tra i pini, a Beit Hanina, periferia di Gerusalemme. È lì che Sari Nusseibeh, oggi riconosciuto come il più raffinato degli intellettuali palestinesi, ha il suo studio di rettore dell'università Al Quds. La Città Vecchia e le possenti mura di Solimano sono lontane. Accanto c'è un altro muro, di cemento armato, che spacca i quartieri arabi di Gerusalemme verso Ramallah. Sari Nusseibeh sembra non farci caso. "Tutti noi, palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani, cristiani abbiano dato a Gerusalemme più di quello che meritasse", dice,"molta enfasi sui luoghi, e molta meno sulle persone. Se si guarda a Gerusalemme, oggi, c'è così poco di elemento umano che è quasi impossibile trovare un posto in cui sentirsi a casa. È solo una serie di strutture, di pietre". Sari Nusseibeh condivide questa distanza da Gerusalemme con un vecchio amico, Amos Oz. Lo scrittore israeliano se n'è andato da tempo dalla città. E nel suo rifugio di Arad, nel deserto del Negev, ripete ai visitatori che da Gerusalemme bisogna andarsene, perché "è una città piena di pazzi, di tutte le fedi, religiose e politiche". Nusseibeh gli fa eco: "Mi sto liberando da questa cattività, sto smettendo di essere un prigioniero". Prigioniero di Gerusalemme.
Ad aprire la sua cella è stato un libro: l'autobiografia che ha scritto, 'C'era una volta un paese. Una vita in Palestina', che il Saggiatore pubblica ora in italiano. Una grande, lunga e bellissima storia d'amore per Gerusalemme, da leggere in parallelo con 'Una storia di amore e di tenebra' (Feltrinelli) di Oz, che a Nusseibeh è piaciuto molto. La Gerusalemme israeliana, nel libro di Oz, e nel testo di Nusseibeh la Gerusalemme palestinese, cosmopolita e antica. La storia di famiglia, la moglie Lucy, figlia di un importante filosofo inglese, i loro quattro ragazzi. Il padre Anwar, figura politica importante, modello di riferimento costante pe Sari. E la battaglia che Nusseibeh, personalità singolare nel panorama palestinese, ha proseguito sino a oggi. Tra filosofia e impegno.
Il lungo viaggio comincia 13 secoli fa, quando il suo antenato Ubadah ibn al Samit entra a Gerusalemme con il califfo, Omar il Giusto. La sorella di Ubadah, Nusaybah, guidava una delle 14 tribù che nei deserti dell'Arabia si erano alleate col profeta Mohammed. La storia della famiglia nasce da lì, s'intreccia con sultani, mamelucchi, con l'impero ottomano. E con le chiavi del Santo Sepolcro, custodite da sempre dai musulmani, e quindi conservate con orgoglio e scrupolo da un membro del clan Nusseibeh, che ogni giorno, a sera e all'alba, compie il rito della chiusura e apertura del portone di legno. Una storia che corre di pari passo con le vicende contemporanee. Un mondo, quello palestinese, che crolla. La nascita di Israele, la guerra dei Sei giorni, la prima intifada, i contatti segreti con gli israeliani, gli accordi di Oslo, la seconda sanguinosa rivolta iniziata nel 2000. E costante, nella vita di Nusseibeh, l'idea che israeliani e palestinesi debbono sapere l'uno dell'altro.
Sari Nusseibeh voleva vedere da vicino gli abitanti del quartiere di fronte alla sua casa, gli ultraortodossi ebrei di Mea Shearim, prendere un volo della El Al, andare a insegnare, come ha fatto, all'Università ebraica: per un palestinese del suo rango, erano delle trasgressioni, qualcuno pensava ancora che un giorno gli ebrei sarebbero spariti, tornati da dove sono arrivati, che non ci fosse bisogno di conoscerli.

Il tempo, però, è passato. "Quando si diventa vecchi, diminuisce la curiosità verso il mondo, mentre aumenta la curiosità verso se stessi. Oggi posso essere ovunque, a Beit Hanina, a Houston nel Texas". Non ci sono neanche più i sandali, i capelli arruffati, il suo look che lo rendeva lontano dall'immagine di un rampollo dell'aristocrazia palestinese: case e tombe sparse per tutta Gerusalemme. "Ho sempre voluto essere come gli altri, quando studiavo all'estero, a Oxford e a Harvard. Indossare una maglietta". E poi spiega: "C'era una volta un paese vuol dire che quel paese non c'è più. E quando penso a noi, ai palestinesi, a uno Stato palestinese, non sono più così entusiasta com'ero un tempo. Non sono più entusiasta riguardo a chi siamo, e cosa possiamo fare. Al contrario. Sono deluso di come siamo o potremmo essere. C'è una differenza tra quello che pensavamo di essere capaci di fare e quello che abbiamo prodotto". C'è amarezza per quello che ha prodotto la sua generazione. "Ci siamo incensati, siamo stati sempre orgogliosi del fatto che noi fossimo più puri, più efficienti, più democratici, più genuini, più istruiti. Adesso invece il quadro è chiaro: guardi come siamo".

Sari Nusseibeh ama le favole. È lui stesso a dirlo. E a citare nel libro, accanto ai dotti del pensiero islamico, ai greci, alla filosofia inglese contemporanea, anche 'Alice nel paese delle meraviglie' e le 'Cronache di Narnia'. Il suo sogno nel cassetto, neanche tanto segreto, è scrivere una favola. Voleva farlo, decenni fa, per convincere sua moglie a sposarlo e ad andare con lui a Gerusalemme. Il traguardo è stato raggiunto presto. Lucy è a Gerusalemme, assieme ai loro figli. Merita sempre, però, inventare una favola. "L'ho scritta prima di mettermi al computer, e buttar giù la mia autobiografia", dice Nusseibeh: "Devo solo trovare un editore". I protagonisti sono Abdul, il figlio del guardiano che apre la porta del Santo Sepolcro. Louise, la bambina inglese. Amos, il bambino ebreo. E un mago che vive in quella che fu la casa di un vecchio saggio sufi, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il compito è difficile. Bisogna svegliare il guerriero crociato che dorme vicino al Santo Sepolcro. Il segreto, per risvegliare il guerriero, è in un fiore e nel suo dolce profumo. Abdul, Louise e Amos devono lavorare insieme per coltivare la terra, sino a che il fiore non si apra. E il suo profumo si spanda sopra l'intera città.

Dall'Espresso n°35 del 27/08/2009, a pag. 103

Akiva Eldar intervista Sari Nusseibeh "stato unico?"



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