Nadia Hijab IL TITANIC PALESTINESE tra hamas e Abu Mazen


Dialogo. Misure per costruire la fiducia. Comitati congiunti. Scambio di detenuti. Sono tutti termini che ci siamo abituati ad ascoltare durante gli infiniti negoziati israelo-palestinesi. Ora li stiamo ascoltando per le negoziazioni fra i palestinesi stessi – o piuttosto tra le forze politiche che reclamano la leadership sui palestinesi, primi fra tutti i movimenti di Fatah e Hamas.

I mediatori egiziani hanno pubblicizzato l’ultimo round di negoziati agli inizi di luglio – il sesto round del cosiddetto “dialogo nazionale” – come quello del “tutto per tutto”. Ad ogni modo, quei colloqui hanno avuto come unico risultato quello di pianificare un altro round per il 25 luglio, che si dovrebbe concludere con un accordo di riconciliazione il 28 luglio.

Entrambe le parti sembrano essere disposte ad attendere la fine dell’altra. Fatah crede che Hamas, indebolita da anni di assedio, sarà ulteriormente danneggiata dai cambiamenti nella situazione dei suoi alleati: la debolezza mostrata dall’alleanza guidata da Hezbollah nelle elezioni parlamentari in Libano, i tumulti all’indomani delle elezioni iraniane, ed il riavvicinamento fra la Siria e gli Stati Uniti. Hamas spera che l’atteggiamento della comunità internazionale nei suoi confronti continui ad ammorbidirsi. Raramente dei leader sono apparsi così distanti dai bisogni e dai diritti delle persone che dichiarano di rappresentare. Le condizioni a Gaza sono così disperate che gli americani, gli europei ed altri civili intraprendono rocamboleschi tentativi per superare il blocco israeliano, come nel recente caso di un’imbarcazione umanitaria avvistata dalla marina israeliana. Il blocco israeliano ha impedito la ricostruzione dopo l’attacco di fine anno, e gli abitanti di Gaza si sono ridotti a dover costruire case di fango. Senza una riconciliazione fra le fazioni palestinesi, gli enormi investimenti necessari per ricostruire Gaza non saranno imminenti, e l’Egitto non riaprirà il proprio valico di frontiera.Per quanto riguarda gli altri territori occupati dagli israeliani, ecco un quadro dell’ultima settimana di giugno secondo i rapporti della Nazioni Unite: le forze israeliane hanno ferito 12 palestinesi in Cisgiordania, dove il numero di operazioni israeliane di perquisizione ha superato la media del primo quarto del 2009; ci sono poi state tre demolizioni di case, comprese due “auto-demolizioni forzate” a Gerusalemme Est. Nel frattempo i rifugiati e gli esuli palestinesi continuano a languire nel loro limbo che dura ormai da sessant’anni.

Lo smembramento del movimento nazionale palestinese è uno dei maggiori successi di Israele. Eppure, se Israele – e l’amministrazione Bush – hanno provocato la frattura, i leader palestinesi la stanno alimentando, divenendo spettatori passivi che sembrano incapaci di dar forma al proprio futuro, come se solo Israele e gli Stati Uniti avessero il potere di farlo.

Se non vogliono diventare ancor più irrilevanti per il destino della loro gente, i partiti politici palestinesi dovrebbero considerare tre cose.

Primo, Hamas non è il nemico. E nemmeno Fatah. Israele lo è – finché un accordo di pace arabo-israeliano non porterà libertà, giustizia, uguaglianza e sicurezza. Ad oggi, è inutile per i leader palestinesi discutere di elezioni e posizioni di governo; c’è ben poco da governare sotto l’occupazione di Israele o in esilio. Piuttosto, essi dovrebbero allontanarsi dall’esca rappresentata dall’idea di governare, e formare un fronte di salvezza per riscattare il movimento nazionale e guidare la lotta per i diritti.

Secondo, il movimento nazionale palestinese dovrebbe lavorare per la pace con Israele partendo da una posizione di forza. L’unità è un elemento essenziale per ottenere una tale posizione; un intenso approccio diplomatico ne costituisce un altro. Eppure, nel contesto palestinese, forza non vuol necessariamente dire forza militare. La resistenza armata sotto l’occupazione è sancita dal diritto internazionale – se non viola tale diritto, ad esempio colpendo la popolazione civile. Ma usare armi contro Israele mette i palestinesi su un terreno di scontro in cui essi sono i più deboli e Israele il più forte, mentre allo stesso tempo fa sembrare che ci siano due avversari equivalenti con equivalenti richieste.

Terzo, i palestinesi non sono impotenti. Il movimento internazionale di solidarietà non solo sta crescendo, sta diventando sempre più forte con l’uso efficiente degli strumenti non-violenti del boicottaggio e del disinvestimento.

Recentemente , la compagnia francese Veolia ha deciso di ritirarsi dal progetto di ferrovia leggera che collega Gerusalemme agli insediamenti israeliani illegali – un’enorme vittoria per lo sforzo di boicottaggio che si sta compiendo a livello europeo, che si stima sia costata alla compagnia francese 7 miliardi di dollari. In Australia, la città di Melbourne ha deciso di non rinnovare il contratto di gestione della metro con l’azienda Connex, di proprietà della Veolia, obiettivo di una analoga campagna di boicottaggio.

Gli ebrei continuano ad essere fra i più attivi sostenitori del boicottaggio. Ad esempio gli Yes Men, che usano lo humor e l’astuzia per mettere in luce gli eccessi delle compagnie e delle imprese, si sono appena ritirati dal Jerusalem film festival. In una lettera aperta di forte impatto, hanno affermato che la loro decisione non è stata facile date le loro origini ebree. Poi hanno citato le numerose violazioni dei diritti umani compiute dall’occupazione israeliana ed hanno dichiarato: “ il nostro film non deve aiutare a dare un aura di normalità ad un paese che prende tali decisioni. Per noi questo è tutto.”Fatah e Hamas dovrebbero riunire i propri ranghi sulla base di un programma politico differente, ed usare abilmente le molte fonti di forza che sono a disposizione dei palestinesi. Altrimenti si ridurranno a “sistemare le sedie sul ponte del Titanic” mentre la loro nave di stato affonderà rapidamente.articolo


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