Abraham B. Yehoshua il mio muro non è quello di Sharon


TRE settimane fa ho preso parte a un convegno sull’identità mediterranea a Capri. Era la prima volta che visitavo quell’isola incantevole, ricca di bellezze, di storia, di cultura, e sono giunto alla conclusione che non occorre morire per andare in Paradiso. L’ultima sera ho partecipato a una festa in onore dei convenuti in una villa stupenda, raggiungibile dopo un’arrampicata di trecento scalini. Il panorama che si godeva da lassù però valeva lo sforzo. Lì ho conosciuto una simpatica coppia di giovani. Dopo un educato scambio di convenevoli la moglie ha cominciato a criticare la mia posizione in favore della costruzione di una barriera di divisione tra israeliani e palestinesi (o «muro», come viene definita in Italia), meravigliandosi che uno scrittore del mio rango, un intellettuale illuminato e liberale, sostenitore della pace, possa approvare un’iniziativa del gener e, brutale e violenta. Ho cercato di spiegarle le mie ragioni ma nonostante il suo gentile marito mi avesse dato manforte, non sono riuscito a placarne lo sdegno. Poiché immagino che quella signora non sia l’unica a pensarla in questo modo in Italia, in Europa e ultimamente anche negli Stati Uniti e ad accettare l’opposizione palestinese a tale barriera, vorrei chiarire la mia posizione in proposito e sottolineare un dato importante: il muro che si sta erigendo non è purtroppo quello da me auspicatoCon altri miei connazionali ho perorato l’instaurazione di un confine, di cui il muro non rappresenta che un elemento. Il governo israeliano sta invece costruendo uno sbarramento senza definire alcun confine e questo è sbagliato da un punto di vista politico e ingiusto da un punto di vista morale. Innanzi tutto vorrei chiarire alcuni fatti storici di cui molti lettori italiani non sono forse a conoscenza. I tanto famosi confini del ’67, ai quali si fa continuamente riferimento, sono quelli sanciti dalla tregua siglata nel 1949 tra Israele e quattro nazioni arabe: Giordania, Siria, Egitto e Libano. Tali nazioni avevano dichiarato guerra allo stato ebraico nel maggio 1948, opponendosi alla decisione delle Nazioni Unite di dividere la Palestina in due stati: uno ebraico e uno palestinese. Prima della fondazione di Israele l’intera zona (denominata Palestina dagli arabi e Terra d’Israele dagli ebrei) era un’unica area geografica sotto il dominio dall’impero britannico, il quale a sua volta l’aveva sottratta all’impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale. La tregua proclamata al termine della guerra d’indipendenza israeliana stabilì quindi dei confini che resistettero per diciannove anni, fino al 5 giugno 1967. Tali confini erano in parte contrassegnati da barriere ma anche laddove non lo erano, era proibito varcarli. A Gerusalemme vi era un solo valico di frontiera che permetteva, sotto stretta sorveglianza, il transito di diplomatici e di rappresentanti delle varie religioni dalla Giordania in Israele e viceversa. Vale la pena di ricordare che durante gli ultimi dieci anni di esistenza di tali confini, dal 1957 al 1967, la situazione si mantenne calma. Il pugno di ferro del regime giordano nella West Bank e di quello egiziano nella striscia di Gaza prevennero atti di terrorismo palestinese e le conseguenti rappresaglie israeliane. In quel periodo il numero di morti per attentati terroristici in Israele ammontò a venticinque, pari al numero delle vittime che un kamikaze può provocare in un solo attentato. La guerra dei sei giorni scoppiò non per iniziativa palestinese ma egiziana. L’allora presidente Nasser chiuse lo stretto di Tiran e concentrò truppe nel Sinai. Durante il conflitto, conclusosi con una schiacciante vittoria israeliana, lo stato ebraico conquistò zone densamente popolate da palestinesi.Dopo la guerra, Israele, con iniziative unilaterali sempre più significative, cancellò man mano i confini. In primis abbattè il muro che divideva Gerusalemme, inglobando i quartieri orientali del la città allo stato ebraico, in contrasto con la decisione delle Nazioni Unite. E’ vero che l’esercito israeliano fu costretto a prolungare la propria presenza nei territori occupati fino a che gli egiziani prima, e i giordani poi, acconsentirono a firmare la pace e a fissare dei parametri di sicurezza, ma l’inserimento di colonie israeliane nel cuore della popolazione palestinese creò una situazione difficile, immorale, che frammentò i territori, rese impossibile la creazione di uno stato degno di questo nome e impedì ogni possibile soluzione. I palestinesi, dal canto loro, non hanno reso le cose più facili avanzando pretese inaccettabili quali il ritorno di milioni di profughi in Israele e la conseguente cancellazione dello stato ebraico dall’interno. Il resto è ormai noto a tutti. Durante il vertice di Camp David nell’estate del 2000 il governo di Ehud Barak cercò di raggiungere un accordo con i palestinesi che respinsero le offerte israeliane e diedero il via a una serie di manifestazioni violente e di attentati terroristici a cui Israele reagì con furiose rappresaglie. Prima che una nuova, fragile tregua venisse firmata di recente, circa 820 israeliani e più di 2400 palestinesi, per lo più civili, caddero vittime della violenza.Responsabile di questa situazione è la mancanza di un chiaro confine tra i due popoli. Il fatto che gli israeliani abbiano stabilito degli insediamenti nel cuore della nazione palestinese ha fatto sì che anche ai palestinesi fosse facile penetrare in territorio israeliano e perpetrare atroci azioni terroristiche. Due case, quella degli israeliani e quella dei palestinesi sono spalancate al nemico. I due popoli sono uniti come gemelli siamesi, non solo per la testa ma per tutto il corpo. Il confine tra Israele e i territori palestinesi è lungo circa 400 chilometri e le possibilità di infiltrazione sono innumerevoli. Poiché le posizioni delle due parti in merito a un accordo definitivo sono ancora distanti e la comunità internazionale non è in grado di imporre l’applicazione della risoluzione 242 dell’Onu - unico modello possibile di accordo - occorre far qualcosa per porre fine allo spargimento di sangue e alla sofferenza. Il movimento per la separazione unilaterale a cui io appartengo chiede al governo di attuare una politica di divisione tra i due popoli ripristinando parzialmente il confine arbitrariamente cancellato da Israele dopo la guerra dei sei giorni. Un confine che ancora oggi è l’unico legittimo agli occhi della comunità internazionale. A tale proposito occorre dunque evacuare gli insediamenti israeliani nella zona palestinese e costruire una barriera che impedisca ai terroristi palestinesi di penetrare con facilità nelle zone israeliane seminando morte, terrore e provocando la reazione israeliana e il conseguente blocco di città e villaggi palestinesi. Una simile linea di frontiera aiuterà anche le forze dell’ordine palestinesi a fermare i terroristi che tentano di infiltrarsi in territorio israeliano.Riferendosi a tale barriera come a un nuovo «Muro di Berlino» gli europei confondono le cose. Quel muro e il confine tra la Germania orientale e quella occidentale eretti dall’impero sovietico dividevano un popolo con una lingua, una cultura e un passato comune. I tedeschi occidentali non volevano compiere attentati terroristici nella Germania dell’Est e il confine non intendeva quindi proteggere i cittadini dalla violenza ma evitare che gli uni si ricongiungessero agli altri sotto un regime democratico. La linea di demarcazione tra Israele e la Palestina vuole prevenire invece l’infiltrazione di coloni israeliani in territorio palestinese e quella di terroristi palestinesi in territorio israeliano. Solo così si rafforzerà la sovranità e la coesione dei due popoli. Uno stato senza confini è come una casa priva di porte. Chiunque creda in una soluzione equa, in uno stato sovrano per i due popoli, deve auspicare che tale confine venga stabilito. Purtroppo ed è questo il punto che voglio chiarire ai lettori italiani il governo Sharon non sta attuando la soluzione chiesta da me e dai miei compagni. Finora nemmeno un insediamento è stato smantellato; al contrario, vengono create sempre più colonie illegali. In secondo luogo la barriera che si sta costruendo penetra spesso in profondità nei territori occupati inglobando zone destinate al futuro stato palestinese, espropriando i contadini dai loro terreni e creando insopportabili divisioni tra villaggi palestinesi e tra agricoltori e la loro terra. Chi fra i palestinesi è convinto che questa area geografica appartenga a l suo popolo e nel giro di cent’anni gli ebrei verranno surclassati da un punto di vista demografico, non ha interesse a stabilire alcun confine. Al contrario, la sua intenzione è di continuare a infiltrarsi e a penetrare in Israele, con scopi pacifici o violenti, grazie alla presenza della già consistente minoranza araba israeliana. Finora però queste convinzioni hanno procurato solo sofferenze, sconfitte e la perdita di territori sempre più ampi. Se gli insediamenti israeliani, motivo di sofferenza e di minaccia per il futuro dei palestinesi, verranno smantellati, se un confine con valichi di frontiera per il passaggio di merci e persone verrà stabilito come in ogni nazione civile, i palestinesi capiranno che questa soluzione può garantire loro l’agognata sovranità, almeno in una parte della loro madrepatria.Gli europei, che fino a pochi decenni fa si sono combattuti a vicenda, hanno abbattuto vecchi confini e ne hanno fissato dei nuovi, hanno versato il sangue di decine di milioni di esseri umani e con grande lentezza sono giunti a creare, grazie ad accordi economici e politici, una comunità che ancora pone guardie ai valichi di frontiera, non possono essere tanto romantici da credere che ciò che hanno ottenuto con decenni di paziente lavoro possa essere raggiunto con uno schiocco di dita nel pieno di una lotta sanguinosa tra due popoli che hanno conosciuto solo conflitti. Un confine segnato da sbarramenti è il mezzo più rapido per porre fin e allo spargimento di sangue. Solo in seguito si potrà realizzare quella visione di cooperazione interregionale che noi tutti auspichiamo. La Stampa 11 agosto 2003

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