Rapporto Banca Mondiale Palestina senza acqua
Da una parte c’è un mito, quello sionista di "far fiorire il deserto", dall’altra parte invece c’è un muro, quello con il quale il governo israeliano non solo ha abbattuto le speranze dei palestinesi, ma ha anche privato i suoi contadini dei loro pozzi. E’ per questo che durante la festa per la raccolta delle olive Mohammed, contadino della West Bank, punta il dito alla collina e continua a ripetermi“ Un tempo eravamo pieni di alberi qui, ora non abbiamo neanche un goccio di acqua.” Alle parole di Mohammed fanno eco quelle di tanti altri palestinesi, contadini e non, a conferma che il problema dell’acqua colpisce direttamente tutta la popolazione e per questo è stato uno dei temi più scottanti e difficili nel corso delle trattative di pace tra Israele e Palestina dall’inizio degli anni 90. Neanche il tempo purtroppo ha aiutato le parti a fare passi da gigante verso una soluzione, pertanto l’acqua rimane uno dei beni più contesi tra Israeliani e Palestinesi.E’ anche per questo che la Banca Mondiale ha appena pubblicato il suo primo rapporto sulle restrizioni nello sviluppo del settore acquifero palestinese nel quale indaga con occhio critico quello che ritiene essere uno dei principali ostacoli allo sviluppo economico palestinese: il limitato accesso alle risorse naturali. Lo studio è stato condotto da settembre 2008 a febbraio 2009 da un gruppo di esperti internazionali e locali che hanno cercato di studiare in profondità il problema dell’acqua per arrivare a suggerire alle parti alcune strategie da implementare per cercare di risolvere questo datato problema. E’ vero l’acqua sulla terra di Israele è scarsa, ma non è un’illusione e ce ne sarebbe abbastanza per entrambi i popoli qualora i palestinesi vedessero formalmente garantiti i loro diritti su queste risorse che sono obbligati a dividere con Israele.Sottolineando la completa dipendenza palestinese dalle scarse risorse acquifere condivise e quasi interamente controllate da Israele, il rapporto dichiara che le norme che regolano l’allocazione dell’acqua non riescono a soddisfare le necessità della popolazione palestinese. Non solo queste regole, stabilite dagli accordi di Oslo II del 1995 e tuttora valide, non sono riuscite a risolvere la disparità che esiste tra i due contendenti, ma le restrizioni ai movimenti imposti alla popolazione palestinese dal governo israeliano a partire dal 2000 hanno anche contribuito a peggiorare l’accesso alle risorse idriche della parte palestinese e lo sviluppo delle relative infrastrutture. In occasione degli accordi del 95 Israele aveva riconosciuto i diritti idrici dei palestinesi, ma i successivi negoziati di pace che dovevano decidere lo status finale e risolvere in modo definitivo anche questa questione non sono purtroppo ancora iniziati. Ciononostante bisogna ricordare che l’articolo 40 degli Accordi di Oslo II prevedeva un utilizzo equo delle risorse idriche tra le due comunità. Oggi giorno però gli israeliani continuano a consumare una quantità di acqua di gran lungo superiore a quella utilizzata dai palestinesi.Attraversando in macchina l’intero stato di Israele non si hanno visioni di oasi nel deserto, anzi è facile notare come i coloni israeliani utilizzano l’acqua per riempire piscine ed innaffiare prati. In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza il panorama cambia: pochi prati da tenere in vita, la scarsa acqua che arriva è utilizzata soprattutto dai contadini che vorrebbero far fiorire la stessa terra che Israele ha già fatto germogliare. Nelle zone di confine, le case dei palestinesi sono facilmente riconoscibili ad occhio nudo anche dai meno esperti. Sono caratterizzate dai cassoni posti sopra i loro tetti con i quali si raccoglie l’acqua piovana. Infatti, se un insediamento israeliano, non appena viene completato, riceve immediatamente elettricità e acqua, le case della Cisgiordania non sono collegate alla stessa rete idrica, per questo di acqua, quella di cui hanno sete un po’ tutti, non solo i contadini, ma anche mamme e bambini, se ne vede poca.Nel suo rapporto la Banca Mondiale denuncia tali disparità, mostrando che la quantità di acqua consumata da Israele è quattro volte superiore a quella utilizzata dai palestinesi. Con il passare del tempo Israele si è pian piano appropriato di tutte le risorse idriche e per assurdo i palestinesi sono costretti ad acquistare la propria acqua dalla Mekort. Questa azienda idrica israeliana anno dopo anno non si limita solo a dirottare verso lo Stato ebraico la maggior parte delle riserve di acqua, lasciando solo alcune gocce per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, ma fa pagare a quei palestinesi che si vogliono accaparrare queste ultime gocce prezzi salatissimi e maggiorati rispetto a quelli vigenti per gli israeliani.Gli impatti di questa politica israeliana non si ripercuotono solo sul settore agricolo, ma hanno anche conseguenze socio-economiche e sanitarie. E’ per questo che parlando con alcuni palestinesi questi non esitano a puntare il dito contro il governo israeliano ritenendo che tale politica li costringa ad abbandonare l’agricoltura e diventare mano d’opera sottopagata sul mercato del lavoro israeliano. Ma alcune conseguenze sono ancora più gravi. Chi se lo può permettere compra l’acqua potabile ai prezzi esorbitanti della Mekort, chi non naviga nell’oro invece si arrangia come può, finendo a volte anche per arrendersi ad utilizzare acqua contaminata. Certo le donne più attente la fanno bollire, ma a volte non basta e questo espone la popolazione a frequenti malattie virali.Una delle crisi umanitarie più gravi e ormai cronica è quella di Gaza dove non solo le riserve di acqua riescono a coprire solo in minima parte le necessità della popolazione, ma dove la qualità dell’acqua è davvero scadente.Nel denunciare questa situazione la Banca Mondiale è stata anticipata da Betselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani nei territori occupati palestinesi, che in uno dei suoi comunicati dello scorso luglio ha fatto notare che anche se l’accesso all’acqua senza discriminazioni è sancito dalla legge internazionale come un diritto umano fondamentale, la politica del governo israeliano è evidentemente discriminatoria. Allo stato attuale da una parte sta Israele che, con risorse adeguate, riesce a pianificare la costruzione di impianti di desalinizzazione, mentre dall’altra c’è l’Autorità Nazionale Palestinese che non sa bene come comportarsi. Se da una parte continua a lottare per migliorare le sue infrastrutture, l’investimento nel settore idrico continua a diminuire e questo contribuisce a peggiorare la situazione. In aggiunta la situazione si complica quando si pensa che l’unico accesso di questa popolazione al mare è Gaza, che le operazioni di desalinizzazione richiedono molti fondi e che anche qualora da Gaza si riuscisse ad ottenere acqua buona sarebbe un’impresa non da poco farla arrivare in Cisgiordania.Il rapporto appena pubblicato dalla Banca Mondiale è stato iniziato sotto richiesta dell’Autorità Palestinese ed il suo obbiettivo è stato quello di diffondere un’analisi bilanciata e mettere in luce quali sono i reali fattori che impedisco lo sviluppo del settore idrico palestinese e le ripercussioni di questa questione nel più ampio processo di sviluppo economico palestinese. Una parte importante di questo rapporto è dedicata alle possibili politiche da implementare per migliorare la situazione attuale. La Banca Mondiale segnala quelli che sono i maggiori problemi esistenti al momento: l’asimmetria di potere tra il governo di Israele e l’Autorità Palestinese, gli ingenti costi che richiedono gli investimenti nel settore idrico, le complicazioni derivanti dalle restrizioni ai movimenti imposti dal governo israeliano alla popolazione palestinese e le difficoltà che l’Autorità Palestinese si trova ad affrontare nello sviluppo del settore delle infrastrutture idriche.Questo rapporto non fa altro che confermarci che siamo davanti ad una questione complicata che il passare del tempo ha contribuito a complicare. Se Israele è riuscita a far fiorire il deserto, negli occhi dei contadini palestinesi, orgogliosi ed innamorati delle loro piante, si vede ancora un po’ di speranza. Le organizzazioni palestinesi continuano a ripetere che ci sarebbe abbastanza acqua per entrambi i popoli se solo si correggessero le disequità con le quale questa è distribuita. Difficilmente una sorgente salata può dare acqua dolce. E’ per tutte queste ragioni che nessuna soluzione può realizzarsi senza una reale collaborazione bipartisan. Ancora una volta tutto è possibile, tutto dipende dalla responsabilità dei governi, dalla buona volontà dei loro leader e dalla sincerità di coloro che si dicono interessati alla pace tra questi due popoli.
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